Num. X Gioseffa Cornoldi Caminer Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Angelika Hallegger Mitarbeiter Johanna Waldner Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 09.08.2019 o:mws.7449 Cornoldi Caminer, Gioseffa: La Donna galante ed erudita. Giornale dedicato al bel sesso. Venezia: Albrizzi 1786-1788, 234-256 Donna galante 3 10 1788 Italien Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Wohltätigkeit Beneficenza Charity Caridad Bienfaisance Caridade Frauenbild Immagine di Donne Image of Women Imagen de Mujeres Image de la femme Imagem feminina Theater Literatur Kunst Teatro Letteratura Arte Theatre Literature Arts Teatro Literatura Arte Théâtre Littérature Art Teatro Literatura Arte Italy 12.83333,42.83333

Num. X.

Italia 1788.

Si vende in Venezia al Negozio Albrizzi a San Benedetto.

La cometa nel pozzo.

L’Italia fu alcuni anni sono minacciata d’una cometa che doveva sommergerla; e non erano state ancora inventate le macchine areostatiche per salvarsene. Le nostre belle cominciavano già ad alzar le gonne per paura di bagnarsi. Il Sig. Dabbene mi aveva indotto (è un bizzaro giovinetto che parla) ad andare a prendere delle lezioni con Madamigella Orsola sua figlia, da un Signore che insegnava la Fisica. Il Sig. Dabbene amava molto sua figlia, e me pure: essa era molto amabile, come lo è tuttavia, essendosi poscia maritata, come si saprà a suo luogo. Suo padre era ricco, perciò collocar voleva nobilmente la sua figlia; questa aveva bisogno di educazione: imparato aveva in convento la geografia, e suo padre voleva farli imparare in casa la musica; ma quelle nere, quelle crome, e quelle chiaviannojavano moltissimo la Signora Orsolina, e trovava quello studio troppo difficile. Padre mio gli disse un giorno, invece di quelle ciffre magiche, fatemi imparare la Fisica, questa à più dilettevole, e l’imparano tutte le gran Dame, invece d’un cembalo, che non è mai unissono, mi comprerete un manubrio per elettrizzare: io ne vidi uno molto bello. Il Signor Dabbene acconsenti. Condusse sua figlia da un Fisico, ed io fui della partita. Trovammo un soggetto che faceva i più bei giri del mondo, egli spiegava sì bene, che nel ritorno noi tre ne sapevano quanto il maestro. Il Sig. Dabbene non era tanto destro, quantunque fosse il più occupato degli altri, e tutto ad un tratto ci parlò della comete in questione: egli aveva sempre la cometa sul naso, sulle spalle e la cercava tutte le sere in Cielo senza trovarlo. Una sera dovevamo io e lui andar a cena da un medico nostro vicino: la Signora Orsola se n’era dispensata per un forte dolor di capo. Erano nove ore, il medico non era appena giunto a casa che fu chiamato di andare per la posta a vedere un malato. Noi dunque ritornammo a casa, entrammo nella sala del pranzo e della cena senza trovarvi apparecchiata la tavola: la porta di questa sala comunicava col giardino, in cui si trovava la Signora Orsola; ella non era sola, ma in compagnia del primo Scritturale d’un Avvocato, e si trattava tra essi di qualche piccolo mercato, e la Signora Orsola che non voleva essere molestata nelle sue convenzioni, aveva per precauzione di mezzo un pozzo. Splendeva chiara luna, perciò videro entrare in Sala il Sig. Dabbene senz’essere scoperti. Ad un segno di Madamigella, lo Scritturale, uomo destro, si abbassò, e si nascose dietro il pozzo, ed essa chinò la testa dentro di esso come per guardar qualche cosa – Che fate qui figlia mia, le disse il padre? Voi siete ammalata, e vi esponete all’aria? Volete venir in casa; La Signorina non rispondeva, o fingendo di non sentire, o di essere assorta in contemplazione. Il Signor Dabbene si avanzò; ma che fate? replicò – Ah! Padre mio, che bella cosa che io vedo! vedo la cometa che tanto cercate; ma la vedo distintamente – Bella pazzia! rispose il Sig. Dabbene – Non è una pazzia, padre mio, la veggio, eccola. Hanno ben ragione di dire che darà dell’acqua, perchè si compiace di farsi vedere in essa, guardatela, eccola – Ah! Ah! Ah! diceva il Sig. Dabbene, e intanto si avvicinava per vedere il prodigio d’una cometa nel suo pozzo. La Signora Orsola gli teneva sopra la testa una mano, perchè non l’alzasse, e con l’altra dava la chiave della porta del giardino allo Scritturale, che non era cieco; ei fuggì come un baleno, e per dargli tempo di farlo la Signora diceva a suo padre: vedete, essa ha precisamente la testa alle spalle della grand’Orsa, e la coda sul naso di Orione? Ah! Ah! Ah! esclamava il Sig. Dabbene, io non vedo né coda, né testa; ov’è l’Orso? . . . . Guardati Orsola che il sapere è bello e buono, ma io temo che non ti faccia perdere il cervello. Io intanto vedeva tutto, sentiva tutto, e la Signorina mi chiudeva la bocca, mettendo il dito alla sua – Ma tu sei pazza, Orsola, proseguì suo padre, colla tua cometa nel pozzo; perchè mai si sarà essa vedere piuttosto in fondo di questo buco che in alto, ove ha un luogo così spazioso? – Bisogna, padre mio, domandare ai Signori della specola perchè vi abbiano fatto fare un buco sì grande? – Tu mi fai pensare a ciò: egli è originale: ma infatti la cometa potrebbe ben esservi, e credo che la vedrei se potessi servirmi anche in tempo di notte dei miei canaocchiali : cospetto, credeva che questo pozzo non fosse buono che ad’innaffiare i cavoli, ed ecco che io trovo in lui una piccola Specola. Venite, Amico, disse a me volgendosi, venite che voi vedrete meglio di me. M’avvicinai e vidi tosto tutto quello che la Signora Orsola voleva che io vedessi. Le Comete annunciano sempre qualche avvenimento. Lo Scritturale domandò per moglie la Signora Orsola. Il Sig. suo padre aveva delle viste più elevate, ma sua figlia ne ave-va delle altre più ragionevoli: una parte, e l’altra si ostinò per qualche tempo, ma tutta finì col matrimonio. La Signora Orsola volle ch’io fossi da nozze; questo era giusto; io non aveva pregiudicato nè l’uno, nè l’altro. Giudicai bene di lasciar dormire il mio rancore per quel giorno, ed abbiamo riso benissimo tutti tre della Cometa nel pozzo.

Aneddoti.

Si sa che in Inghilterra un particolare non può andare a pranzo in verun luogo tuttocchè da un amico, senz’essere obbligato di dare sortendo dei denari ai domestici della casa più o meno secondo la qualità del padrone; un Cavaliere stanco di pagare molto caro i pranzi che di tempo in tempo godeva dal Duca di . . . . gli domandò un giorno i nomi di tutta la sua gente. Il Duca sorpreso dalla domanda volle saperne la ragione Milord, rispose il Cavaliere, siccome io non sono in stato di pagare grosse mancie per tutti gli eccellenti pranzi che ho in casa vostra, e di sostenere nel medesimo tempo il mio equipaggio senza del quale io non potrei venirvi, così io voglio ricordarmi i questi Signori nel mio testamento.

Una Dama era stata in altri tempi accusata di magia: fu nominato un Commissario per interrogarla. Era questi tanto deforme, e tanto sconcertata la sua gravità, che avrebbe spaventato ogni latro che la Dama. Questa intanto lasciò ch’egli adempisse la sua commissione: confessò il desiderio che aveva di fare conversazione col Diavolo, e che aveva eziandio veduto quest’angelo infernale. Come mai egli è fatto, le domandò il Commissario? In fede mia, rispose la dama, se voi volete che ve lo dipinga al naturale, egli vi assomiglia come due goccie di acqua; poscia volgendosi allo scrittore; scrivete la mia risposta, gli disse. Il Commissario vedendo che una tale procedura avrebbe fatto ridere a sue spese, giudicò a proposito di sopprimere il processo, verbale.

Letteratura galante

Le bizzarrie del destino, ovvero li Pazzi per amore. Novella galante con rami rappresentanti i fatti principali 1788 in S. Parigi ed in Italia presso i Librari e Mercanti di novità.

Per dare una giusta vantaggiosa idea di questo bel Romanzetto dovressimo analizzare i fatti principzli di esso, se ce lo permetesse la natura di questi foglj. In compenso di ciò basti il dire che Lucilla e Lindamoro, due veri amanti, soffrirono dal destino i colpi più bizzarri per arrivare a quel colmo di contentezza che fa la felicità di due sposi. Si osservino questi amanti fuggiaschi in una caverna di ladri esposti prima ai più orribili trattamenti, e poscia l’una obbligata di fingersi pazza, e l’altro assassino per liberarsene. Si seguino all’ospitale ove si trovano un dopo l’altro in preda alla derisione ed alla vergogna. Si vegga quindi Lucilla presso un vil seduttore, dov’ella si trova maggiormente infelice: si leggano i dispiaceri, i turbamenti, i rimorsi di questi due manti, e si avrà una perfetta idea delle scene interessanti di questa graziosa produzione.

Histoire ec. cioè Istoria di Sofia, e di Orsola, ovvero Lettere estratte da un Portafoglio poste in ordine, e pubblicate dal Sig. de Charnois 2 volin 12 1788. Parigi.

Il principale scopo di quest’opera è di provare che con dello spirito, della bellezza, delle grazie, de’talenti, ed anche della sensibilità, una donna può cessare di essere stimabile, quando sagrifica la modestia, la dolcezza, e la decenza ad un vano desiderio di piacere, di brillare, e di farsi ammirare. Per arrivare a questo scopo l’Autore mette in vista due donne d’un carattere opposto. La prima docile, riserbata, prudente, modesta e ragionevole trova la felicità nell’adempimento de’suoi doveri di figia e di sposa. La seconda leggiere, stordita, maligna, biasimando ogni cosa, criticando tutto, permettendosi qualunque cosa, ed usando per giudicare degl’altri d’una severità ch’è lontana d’impiegare per giudicare se medesima, marcia di colpa in colpa al colmo dell’infelicità, ce la conduce ad un fine infelice. Diversi semplici fatti che s’incatenano, e si succedono naturalmente, sviluppano con felicità questi due caratteri il primo dei quali è in vero molto brillante, ma assai pericoloso.

Toletta.

Per torre il color fosco cagionato dal sole.

Prendasi un Mezzetto di latte, vi si spremi dentro il sugo di un limone, vi si aggiunga una cucchiajta d’acquavite: si lascia bollire il tutto, si schiumi ben bene, si levi dal fuoco, e si riserbi all’uso; alcuni vi mettono anche un po’ di zucchero bianco e d’allume di rocca.

L’acqua fresca del pozzo è molto commendata egualmente che l’acqua di pimpinella.

Si può la sera andando a letto schiacciar delle fregole sul viso, lasciandole seccare durrante la notte, e alla mattina seguente lavarsi con acqua di cerfoglio. Per tal modo la carnagione diventa fresca e risplendente. È questo uno dei più segreti della medicina.

Tratti di spirito.

Avendo un Ciarlone gracchiato invanamente con un suo Amico, alla fine gli disse: son’in stato troppo prolisso? A cui egli ridendo rispose: Amico, a dirti il vero, non ti ho punto badato.

Stavasi riposando un dì un Cavaliere, con cui abitava un Abate, quando questi entrato nella di lui camera, che veniva caldo caldo da giuocare, gli disse: amico dormite? Perchè? rispose il Cavaliere: perchè vorrei, soggiunse, l’Abate, che mi prestate dieci scudi per riscatarmi dal giuoco. Io dormo, rispose il Cavaliere, io dormo.

Un benestante aveva preso per moglie una don-na picciolissima. Venendogli chiesto da alcuni amici di confidenza per qual cagione preso egli avesse donna sì piccola, rispose: dovendomi maritare ho eletto del male il minore.

Rineri dolendosi con Martina sua moglie, perchè avevasi fatta una veste di grande spesa, le disse: Martina, se facciamo bene il conto, io non ho mai usato teco nessuno segno d’amore, che non mi costi più d’un zecchino per volta. Egli è vostra colpa, rispose la moglie: perché non l’usate voi tanto spesso che non vi costi un quattrino?

Il Ballerino.

Un Ballerino involto in un lungo mantello passeggiava sulle mura, aspettando l’ora di portarsi a disannoiare il pubblico, allorchè una donna che stava allattando un bambino, gli domandò con un gesto più espressivo delle parole l’elemosina. Non era ancor notte per non poter facilmente distinguere che quella donna era giovine e bella, e le diede una moneta ch’essa ricevette con quel timido silenzio, ch’è forse la più dolce espressione della riconoscenza. Ecco, diss’egli fra se medesimo una donna onesta e addolorata, e si senti per lei molto commosso, giacchè i Ballerini sono uomini pur essi. Prese luogo sulla panca ov’essa era seduta, e le fece delle domande con tutta la riserva dovuta agl’infelici. Ella corrispose con tutta modestia, e dopo alcuni rifiuti dettati dal timore di rinnovare i suoi dolori, nel presentarli di nuovo alla sua memoria, acconsentì a raccontargli la disgrazia della sua vita.

Mio padre disse era un Oste d’un piccol borgo sopra una strada postale. Era io figlia unica. Mia madre mi allevò con cure tutte diverse da quelle che si suppongono nell’educazione delle persone del mio stato: non aveva maestri, perchè non ve n’erano in quel luogo, ma abitava in una stanza lontana, non serviva per nulla i passaggieri, ed era in salvo dai loro licenziosi discorsi.

Queste precauzioni non poterono impedire che la maggior parte non tentasse di sedurmi un mercante che spesso si fermava nella nostra casa, nulla almeno che amabile, fu il più pericoloso di tutti, lo dico a mio disonore. Fece pompa di denaro che non mi tentò: mi fece vedere alcune braccia di pizzi ed alcune altre di taffetà che mi abbigliarono: mi chiese il permesso di portarle nella mia camera tostocchè fosse notte: gliene facilitaì l’accesso ingannando un padre ed una madre che mi adoravano: sentii troppo tardi le conseguenze di questo contegno.

Era la stagione assai fredda. Il mercante mi lasciò dopo tre ore per andare a cena. Nel giorno susseguente di buon mattino fece attaccare i suoi cavalli, radunò, la sna mercanzia, e gridò che gli era stato rubbato . Tutta la casa fu sosopra: i passaggieri erano stupefatti, si fecero delle perquisizioni, ed il preteso furto fu trovato in un armario ove chiuso io l’aveva. Alle interrogazioni reiterate che mi si fecero non risposi che col pianto. Il mercante ripigliò sfrontatamente il suo taffetà ed i suoi pizzi, e montò in sedia dopo di aver firmato un processo verbale, che il Giudice aveva subito costrutto, ed in cui non si trattava che di furto.

Spinto quel Giudice da’motivi di cui è inutile di parlarvi, scrisse ai suoi superiori che la pubblica sicurezza di quel paese esigeva che vi si spedissero delle guardie. Quattro di queste furono mantenute ed alloggiate per due mesi a spese di mio padre. La nostra osteria diventò ben presto un deserto; ognuno la schiafava come una caverma; noi non osavamo di mettere un piede ne meno in istrada. I debitori di mio padre non lo pagarono, i suoi creditori lo incalzavano, e la morte lo tolse alle sue disgrazie, serrandomi all’ultimo sospiro nelle sue braccia.

Mia madre non morì, ed io credeva che le mostre disgrazie aumentassero per me il suo affetto. Siamo venuti a seppellirci in Città, e per strada m’avvertì che io era incinta: questo fanciullo che dovressimo odiare non abbiamo potuto rissolverci nè l’una nè l’altra di allontanarlo da noi. Nulla vi dico di quanto abbiamo finora sofferto. Mia madre arrivò ad ottenere una piazza di giornaliero presso un Lavandajo, ed io l’ajuto di tempo in tempo intanto ch’ella tiene mio figlio: ma non bastando il poco ch’ella guadagna per i nostri bisogni, io mi sono determinata di far l’orribile mestiere di mendicante, finchè mio figlio sia in istato di procacciarsi il pane.

Il Ballerino pose in mano di quell’infelice una moneta d’argento, assicurandola che avrebbe fatti tutti gli sforzi per procurare al più presto a lei ed a sua madre i mezzi da cavarsi da tale deplorabile situazione, e forse è d’uopo d’aggiungere che la esortò a perseverare negli onesti sentimenti dei quali era una prova quella medesima sua infelice situazione. In seguito andò a ballare quantunque non ne avesse voglia. La storia che aveva inteso affliggeva il suo cuore, ed occupava il suo spirito; intantocché il suo corpo machinalmente bilanciava sulla punta dei piedi, la sua testa ri-feltteva ai mali che tormentano l’umana specie. Fece un entrechat a sette invece di farlo a sei; fece un pas-de-bourrée per un passo, di rigodon. Nei palchi si diceva ch’era ubbriaco, e la platea fischiò. Ma la sua soddisfazione gli sembrò per questa volta preferibile a quella del pubblico.

I due Cagnuolini Favola

Dorilì Che t’avvenne? perchè piangi?

Lesbino Perchè piango? Ah Dorili!

Era in grembo alla padrona,

Quando giunse un non so chi,

Che la mano le imprigiona,

E v’imprime baci e baci:

Chi potea quegli atti audaci,

In silenzio sopportare?

Ben mi parve d’abbajare.

Ah, non mai l’avessi fatto!

L’ossa mie furono a un tratto

Scosse tutte e malmenate

Da percosse replicate:

E jer l’altro che mordei

Il marito, ella mi dette

Quattro fresche ciambellette.

Dorilì Passi i giorni fra le gonne,

Nè conosci ancor le donne?

Can che aspiri alle dolcezze

Dei bocconi più squisiti,

Agli amanti fa carezze,

E non morde che i maritir.

Della Barba

La barba provò quasi le stesse variazioni dei capeli. Ora è stata onorata, ed ora proscritta. In principio del quinto secolo si rasava il volto eccettuati i peli che si conservavano sul labbro inferiore. Era quello il regno dei mustacchi. Clodoveo Re di Francia lasciò crescere la sua barba, e la portò coi mustacchi. Tutti i Francesi imitarono il suo esempio: le cure che si diedro per coltivare questo nuovo ornamento li resero molto rispettabili.

Strappare un pelo ad alcuno, tirargli i mustacchi furono altrettanti delitti, che si procuravano di prevenire.

Sotto il regno di Enrico I. figlio di Roberto i Francesi si acconciavano in un modo singolare. I capegli, i mustacchi, e la barba erano disposti in maniera, che i Damerini avevano la faccia cascata. I capegli rotondi, eguali, e piani non oltrepassavano le orecchie: era questa la prima cascata; i mustacchi cadenti formavano la seconda; e una barba lunga all’estremità del mento componeva la terza.

Nel duodecimo secolo la barba cessò di regnare in Francia. Allora vi ebbero dei barbiere; quello di S. Lodovico si chiamava Labrosse: divenne poscia il favorito di Filippo l’ardito.

Nel secolo decimosesto la barba riprese favore, ma ebbe i suoi forti contrasti. Sotto Lodovico XIII. la barba fu ridotta a semplici mustacchi: tutto la minacciava d’una totale soppressione. Il tabacco la fece in seguito sparire del tutto.

Indovinate Osservazioni Storico-Critiche.

L’impero che ha una donna sopra un uomo è sempre lusinghiero per il suo amor proprio, ma qual gloria e qual vantaggio per quella che unisce all’orgoglio del suo sesso, quello di vedere un Grande ai suoi ginocchi? Le sue grazie hanno maggior nobiltà, il suo carattere diventa elevato e siccome nel dominio una donna trovasi nel suo elemento, e sembra nata in quel palazzo da cui ne era molto discosta, così si direbbe che ella conosce tutti quelli uomini che non vide giammai; e lo spirito di Corte non le sembra che un abbozzo non ancora spiegato, e che attacca il suo carattere. I suoi protetti sembrano i suoi sudditi, e non ne sono avviliti. Forse in questo rango essa è più fedele all’amicizia, che quando lontana dal gran cammino getta indistintamente le sue reti sopra i passi di tutti quelli che la circondano.

Se il campo è aperto alla fortuna per gli uomini, le donne non ne hanno delle meno brillanti, ed esercitano il potere delle loro attrattive sopra un gran numero di cuori. Colpiscono sopra molti in una volta; gli slanciati colpi della bellezza trovano sempre alcune anime sensibili. La bellezza solitaria in una città provinciale non ha che pochi rapporti, e non compito rimane il suo trionfo. Quil qualunque sia la sua nascita, se la natura l’ha provveduta id quelle attrattive che possono soggiogare, accende il Consigliere, il Ministro, il Presidente, il Duca, il Generale. L’amore si compiace di confondere gli ordini, di far muovere la ruota della fortuna, e collocare la figlia della cuciniera presso il trono.

Senza ottenere un rango così elevato l’indigente bellezza incontra ella pure la fortuna. Appena sono coperti i suoi vezzi da un abito, subito è pronto per alcune compiacenze un equipaggio ai suoi ordini. Il milionario la supplica a ginocchia piegate di accettare l’oro suo; vuole arricchire la sua famiglia, ed il vecchio suo padre coi capegli bianchi, pieno dell’antica sua probità vede rifluire l’abbondanza verso l’oscura sua casuccia. Egli teme di accettare, non sa s’ei commetta un delitto; ma la voce più forte della miseria l’obbliga a spargere sui suoi piccoli fanciulli quasi nudi i soccorsi che gli vengono offerti. Egli è forse immerso nell’errore, ma riguarda il buon uomo questi beneficj come un presente che il Cielo gli accorda nella sua vecchiaja. Sessant’anni di lavoro non gli hanno prodotto ciò che ottiene in un giorno; e per timore di essere obbligato a ricusarli, non si ferma col suo pensiero sopra i doni dell’amore figliale. In tal guisa l’oro svelto ai coltivatori nelle foggie oppressive, passando dalle mani del vizio ritorna almeno ad abbeverare alcuni solchi della compagna. L’amore della voluttà gli somministra un buon successo, e la povera bellezza sortita da un villaggio riprende tutto ciò che l’interesse ha tolto al suo territorio. Ella è debole, ma non ha il cuore indurito. Ella sembra restituire alla sua famiglia ciò che è stato tolto agli infelici suoi antenati.

Tali sono i giuochi della fortuna e dell’amore; così pronti e bizzarri nel seno della Capitale, che l’occhio dubita di quanto vede, e questa giornaliera metamorfosi sorprende quegli ancora che sono i più assueffatti a questi spettacoli cagionati dalle passioni dei ricchi, e dal cordoglio dei poveri.

Gabinetto delle mode.

Spiegazione della tavola XI. Fig. 22.

Una donna vestita con un pierrot con lunghe falde alla contadina di taffetà a righe bigie e blò chiaro, e sottana di stoffa simile, guarniti l’uno e l’altro di un lungo sfilato di seta chermesì. Le maniche del pierrot sono guarnite di manichini all’enfant, li quali sono altro che manichini rotondi a tre giri frastagliati a punte, ed a festoni.

Ha la testa assettata con un cappello jokei col-le ale di garza rigata, bordate d’una ghirlanda di rose di seta di diversi colori, e colla testiera fatta d’un lieve taffetà verde, la quale è circondata d’un largo nastro color di rosa, e guernito dinanzi d’un pennino di penne verdi.

L’acconciatura dei capegli è a ricci staccati, sei dei quali a due giri cadenti per parte sul seno: quei di dietro rialzati in uno sciolto chignon.

Tiene al collo un gonfio fichu di garza ricamato di seta verde, annodato di dietro nel mezzo della schiena: sarà questa l’ultima foggia di annodare di dietro tali fazzoletti.

Tavola XII. Fig. 23.

Non ha guari che la Moda aveva accoppiato lo sfilato del gilet al fondo della stoffa di esso: ora molti l’accompagnano al fondo, cioè al colore della stoffa dell’abito: e si arriva eziandio ad accompagnare il ricamo dei calzoni col colore del fondo dell’abito: questo unisce in se maggiormente il vestito, e dà un’aria di maggiore uniformità che non dispiace.

Il giovane Cavaliere qui rappresentanto è vestito con un abito di taffetà verde pomo foderato della stessa stoffa, guarnito di un colletto nero e di bottoni di madreperla lisci e convessi: sotto quest’abito porta un gilet di taffetà bianco a larghi quadrati fatti di mediocri righe color di rosa, bordato di un lungo sfilato di seta verde pomo accoppiato al colore dell’abito.

Calzoni di drappo di seta giallo ricamati alla bottoniera, ai centurini, ed alle cuciture di mezzo dei fianchi di seta verde accoppiato al colore dell’abito.

Invece delle fibbie dei calzoni si porta adesso una specie di castoni d’anello a rombo, ovvero in quadrato, o in ovale lungo coperti di diamanti, o smaltati, oppure guarniti di perle.

Calzette di seta bianche.

Fibbie delle scarpe quadrate in lungo.

L’affetto del capo è ad un solo grosso riccio per parte che giri intorno al tupet fatto a schiena d’asino, e a guisa d’ala di piccione di dietro aperto a ferro di cavallo. I capegli son incodati di dietro, ma ripiegati, onde l’estremità di essi venga formare un riccio al roverscio, dove resta situato il legaccio.

Al collo una larga crovatta coll’estremità guarnite di un largo e bel pizzo, formando con esse un grosso nodo al petto.

Manichini e gala della camicia di bella mussolina strastagliata a festoni, ed a punte acute.

Tiene in mano il suo cappello à l’Androsmane.

Tavola

Delle materie contenuto in questo Numero X.

La Cometa nel Pozzo Pag. 235

Aneddoti. 239

Letteratura Galante 240

Toletta 242

Tratti di Spirito 234

Il Ballerino 244

I Due Cagnuoli 248

Della Barba 249

Indovinate. 250

Gabinetto delle Mode. Spiegazione della Tavola IX. Fig. 22. 253

Tavola XII. Fig. 23. 254

Num. X. Italia 1788. Si vende in Venezia al Negozio Albrizzi a San Benedetto. La cometa nel pozzo. L’Italia fu alcuni anni sono minacciata d’una cometa che doveva sommergerla; e non erano state ancora inventate le macchine areostatiche per salvarsene. Le nostre belle cominciavano già ad alzar le gonne per paura di bagnarsi. Il Sig. Dabbene mi aveva indotto (è un bizzaro giovinetto che parla) ad andare a prendere delle lezioni con Madamigella Orsola sua figlia, da un Signore che insegnava la Fisica. Il Sig. Dabbene amava molto sua figlia, e me pure: essa era molto amabile, come lo è tuttavia, essendosi poscia maritata, come si saprà a suo luogo. Suo padre era ricco, perciò collocar voleva nobilmente la sua figlia; questa aveva bisogno di educazione: imparato aveva in convento la geografia, e suo padre voleva farli imparare in casa la musica; ma quelle nere, quelle crome, e quelle chiaviannojavano moltissimo la Signora Orsolina, e trovava quello studio troppo difficile. Padre mio gli disse un giorno, invece di quelle ciffre magiche, fatemi imparare la Fisica, questa à più dilettevole, e l’imparano tutte le gran Dame, invece d’un cembalo, che non è mai unissono, mi comprerete un manubrio per elettrizzare: io ne vidi uno molto bello. Il Signor Dabbene acconsenti. Condusse sua figlia da un Fisico, ed io fui della partita. Trovammo un soggetto che faceva i più bei giri del mondo, egli spiegava sì bene, che nel ritorno noi tre ne sapevano quanto il maestro. Il Sig. Dabbene non era tanto destro, quantunque fosse il più occupato degli altri, e tutto ad un tratto ci parlò della comete in questione: egli aveva sempre la cometa sul naso, sulle spalle e la cercava tutte le sere in Cielo senza trovarlo. Una sera dovevamo io e lui andar a cena da un medico nostro vicino: la Signora Orsola se n’era dispensata per un forte dolor di capo. Erano nove ore, il medico non era appena giunto a casa che fu chiamato di andare per la posta a vedere un malato. Noi dunque ritornammo a casa, entrammo nella sala del pranzo e della cena senza trovarvi apparecchiata la tavola: la porta di questa sala comunicava col giardino, in cui si trovava la Signora Orsola; ella non era sola, ma in compagnia del primo Scritturale d’un Avvocato, e si trattava tra essi di qualche piccolo mercato, e la Signora Orsola che non voleva essere molestata nelle sue convenzioni, aveva per precauzione di mezzo un pozzo. Splendeva chiara luna, perciò videro entrare in Sala il Sig. Dabbene senz’essere scoperti. Ad un segno di Madamigella, lo Scritturale, uomo destro, si abbassò, e si nascose dietro il pozzo, ed essa chinò la testa dentro di esso come per guardar qualche cosa – Che fate qui figlia mia, le disse il padre? Voi siete ammalata, e vi esponete all’aria? Volete venir in casa; La Signorina non rispondeva, o fingendo di non sentire, o di essere assorta in contemplazione. Il Signor Dabbene si avanzò; ma che fate? replicò – Ah! Padre mio, che bella cosa che io vedo! vedo la cometa che tanto cercate; ma la vedo distintamente – Bella pazzia! rispose il Sig. Dabbene – Non è una pazzia, padre mio, la veggio, eccola. Hanno ben ragione di dire che darà dell’acqua, perchè si compiace di farsi vedere in essa, guardatela, eccola – Ah! Ah! Ah! diceva il Sig. Dabbene, e intanto si avvicinava per vedere il prodigio d’una cometa nel suo pozzo. La Signora Orsola gli teneva sopra la testa una mano, perchè non l’alzasse, e con l’altra dava la chiave della porta del giardino allo Scritturale, che non era cieco; ei fuggì come un baleno, e per dargli tempo di farlo la Signora diceva a suo padre: vedete, essa ha precisamente la testa alle spalle della grand’Orsa, e la coda sul naso di Orione? Ah! Ah! Ah! esclamava il Sig. Dabbene, io non vedo né coda, né testa; ov’è l’Orso? . . . . Guardati Orsola che il sapere è bello e buono, ma io temo che non ti faccia perdere il cervello. Io intanto vedeva tutto, sentiva tutto, e la Signorina mi chiudeva la bocca, mettendo il dito alla sua – Ma tu sei pazza, Orsola, proseguì suo padre, colla tua cometa nel pozzo; perchè mai si sarà essa vedere piuttosto in fondo di questo buco che in alto, ove ha un luogo così spazioso? – Bisogna, padre mio, domandare ai Signori della specola perchè vi abbiano fatto fare un buco sì grande? – Tu mi fai pensare a ciò: egli è originale: ma infatti la cometa potrebbe ben esservi, e credo che la vedrei se potessi servirmi anche in tempo di notte dei miei canaocchiali : cospetto, credeva che questo pozzo non fosse buono che ad’innaffiare i cavoli, ed ecco che io trovo in lui una piccola Specola. Venite, Amico, disse a me volgendosi, venite che voi vedrete meglio di me. M’avvicinai e vidi tosto tutto quello che la Signora Orsola voleva che io vedessi. Le Comete annunciano sempre qualche avvenimento. Lo Scritturale domandò per moglie la Signora Orsola. Il Sig. suo padre aveva delle viste più elevate, ma sua figlia ne ave-va delle altre più ragionevoli: una parte, e l’altra si ostinò per qualche tempo, ma tutta finì col matrimonio. La Signora Orsola volle ch’io fossi da nozze; questo era giusto; io non aveva pregiudicato nè l’uno, nè l’altro. Giudicai bene di lasciar dormire il mio rancore per quel giorno, ed abbiamo riso benissimo tutti tre della Cometa nel pozzo. Aneddoti. Si sa che in Inghilterra un particolare non può andare a pranzo in verun luogo tuttocchè da un amico, senz’essere obbligato di dare sortendo dei denari ai domestici della casa più o meno secondo la qualità del padrone; un Cavaliere stanco di pagare molto caro i pranzi che di tempo in tempo godeva dal Duca di . . . . gli domandò un giorno i nomi di tutta la sua gente. Il Duca sorpreso dalla domanda volle saperne la ragione Milord, rispose il Cavaliere, siccome io non sono in stato di pagare grosse mancie per tutti gli eccellenti pranzi che ho in casa vostra, e di sostenere nel medesimo tempo il mio equipaggio senza del quale io non potrei venirvi, così io voglio ricordarmi i questi Signori nel mio testamento. Una Dama era stata in altri tempi accusata di magia: fu nominato un Commissario per interrogarla. Era questi tanto deforme, e tanto sconcertata la sua gravità, che avrebbe spaventato ogni latro che la Dama. Questa intanto lasciò ch’egli adempisse la sua commissione: confessò il desiderio che aveva di fare conversazione col Diavolo, e che aveva eziandio veduto quest’angelo infernale. Come mai egli è fatto, le domandò il Commissario? In fede mia, rispose la dama, se voi volete che ve lo dipinga al naturale, egli vi assomiglia come due goccie di acqua; poscia volgendosi allo scrittore; scrivete la mia risposta, gli disse. Il Commissario vedendo che una tale procedura avrebbe fatto ridere a sue spese, giudicò a proposito di sopprimere il processo, verbale. Letteratura galante Le bizzarrie del destino, ovvero li Pazzi per amore. Novella galante con rami rappresentanti i fatti principali 1788 in S. Parigi ed in Italia presso i Librari e Mercanti di novità. Per dare una giusta vantaggiosa idea di questo bel Romanzetto dovressimo analizzare i fatti principzli di esso, se ce lo permetesse la natura di questi foglj. In compenso di ciò basti il dire che Lucilla e Lindamoro, due veri amanti, soffrirono dal destino i colpi più bizzarri per arrivare a quel colmo di contentezza che fa la felicità di due sposi. Si osservino questi amanti fuggiaschi in una caverna di ladri esposti prima ai più orribili trattamenti, e poscia l’una obbligata di fingersi pazza, e l’altro assassino per liberarsene. Si seguino all’ospitale ove si trovano un dopo l’altro in preda alla derisione ed alla vergogna. Si vegga quindi Lucilla presso un vil seduttore, dov’ella si trova maggiormente infelice: si leggano i dispiaceri, i turbamenti, i rimorsi di questi due manti, e si avrà una perfetta idea delle scene interessanti di questa graziosa produzione. Histoire ec. cioè Istoria di Sofia, e di Orsola, ovvero Lettere estratte da un Portafoglio poste in ordine, e pubblicate dal Sig. de Charnois 2 volin 12 1788. Parigi. Il principale scopo di quest’opera è di provare che con dello spirito, della bellezza, delle grazie, de’talenti, ed anche della sensibilità, una donna può cessare di essere stimabile, quando sagrifica la modestia, la dolcezza, e la decenza ad un vano desiderio di piacere, di brillare, e di farsi ammirare. Per arrivare a questo scopo l’Autore mette in vista due donne d’un carattere opposto. La prima docile, riserbata, prudente, modesta e ragionevole trova la felicità nell’adempimento de’suoi doveri di figia e di sposa. La seconda leggiere, stordita, maligna, biasimando ogni cosa, criticando tutto, permettendosi qualunque cosa, ed usando per giudicare degl’altri d’una severità ch’è lontana d’impiegare per giudicare se medesima, marcia di colpa in colpa al colmo dell’infelicità, ce la conduce ad un fine infelice. Diversi semplici fatti che s’incatenano, e si succedono naturalmente, sviluppano con felicità questi due caratteri il primo dei quali è in vero molto brillante, ma assai pericoloso. Toletta. Per torre il color fosco cagionato dal sole. Prendasi un Mezzetto di latte, vi si spremi dentro il sugo di un limone, vi si aggiunga una cucchiajta d’acquavite: si lascia bollire il tutto, si schiumi ben bene, si levi dal fuoco, e si riserbi all’uso; alcuni vi mettono anche un po’ di zucchero bianco e d’allume di rocca. L’acqua fresca del pozzo è molto commendata egualmente che l’acqua di pimpinella. Si può la sera andando a letto schiacciar delle fregole sul viso, lasciandole seccare durrante la notte, e alla mattina seguente lavarsi con acqua di cerfoglio. Per tal modo la carnagione diventa fresca e risplendente. È questo uno dei più segreti della medicina. Tratti di spirito. Avendo un Ciarlone gracchiato invanamente con un suo Amico, alla fine gli disse: son’in stato troppo prolisso? A cui egli ridendo rispose: Amico, a dirti il vero, non ti ho punto badato. Stavasi riposando un dì un Cavaliere, con cui abitava un Abate, quando questi entrato nella di lui camera, che veniva caldo caldo da giuocare, gli disse: amico dormite? Perchè? rispose il Cavaliere: perchè vorrei, soggiunse, l’Abate, che mi prestate dieci scudi per riscatarmi dal giuoco. Io dormo, rispose il Cavaliere, io dormo. Un benestante aveva preso per moglie una don-na picciolissima. Venendogli chiesto da alcuni amici di confidenza per qual cagione preso egli avesse donna sì piccola, rispose: dovendomi maritare ho eletto del male il minore. Rineri dolendosi con Martina sua moglie, perchè avevasi fatta una veste di grande spesa, le disse: Martina, se facciamo bene il conto, io non ho mai usato teco nessuno segno d’amore, che non mi costi più d’un zecchino per volta. Egli è vostra colpa, rispose la moglie: perché non l’usate voi tanto spesso che non vi costi un quattrino? Il Ballerino. Un Ballerino involto in un lungo mantello passeggiava sulle mura, aspettando l’ora di portarsi a disannoiare il pubblico, allorchè una donna che stava allattando un bambino, gli domandò con un gesto più espressivo delle parole l’elemosina. Non era ancor notte per non poter facilmente distinguere che quella donna era giovine e bella, e le diede una moneta ch’essa ricevette con quel timido silenzio, ch’è forse la più dolce espressione della riconoscenza. Ecco, diss’egli fra se medesimo una donna onesta e addolorata, e si senti per lei molto commosso, giacchè i Ballerini sono uomini pur essi. Prese luogo sulla panca ov’essa era seduta, e le fece delle domande con tutta la riserva dovuta agl’infelici. Ella corrispose con tutta modestia, e dopo alcuni rifiuti dettati dal timore di rinnovare i suoi dolori, nel presentarli di nuovo alla sua memoria, acconsentì a raccontargli la disgrazia della sua vita. Mio padre disse era un Oste d’un piccol borgo sopra una strada postale. Era io figlia unica. Mia madre mi allevò con cure tutte diverse da quelle che si suppongono nell’educazione delle persone del mio stato: non aveva maestri, perchè non ve n’erano in quel luogo, ma abitava in una stanza lontana, non serviva per nulla i passaggieri, ed era in salvo dai loro licenziosi discorsi. Queste precauzioni non poterono impedire che la maggior parte non tentasse di sedurmi un mercante che spesso si fermava nella nostra casa, nulla almeno che amabile, fu il più pericoloso di tutti, lo dico a mio disonore. Fece pompa di denaro che non mi tentò: mi fece vedere alcune braccia di pizzi ed alcune altre di taffetà che mi abbigliarono: mi chiese il permesso di portarle nella mia camera tostocchè fosse notte: gliene facilitaì l’accesso ingannando un padre ed una madre che mi adoravano: sentii troppo tardi le conseguenze di questo contegno. Era la stagione assai fredda. Il mercante mi lasciò dopo tre ore per andare a cena. Nel giorno susseguente di buon mattino fece attaccare i suoi cavalli, radunò, la sna mercanzia, e gridò che gli era stato rubbato . Tutta la casa fu sosopra: i passaggieri erano stupefatti, si fecero delle perquisizioni, ed il preteso furto fu trovato in un armario ove chiuso io l’aveva. Alle interrogazioni reiterate che mi si fecero non risposi che col pianto. Il mercante ripigliò sfrontatamente il suo taffetà ed i suoi pizzi, e montò in sedia dopo di aver firmato un processo verbale, che il Giudice aveva subito costrutto, ed in cui non si trattava che di furto. Spinto quel Giudice da’motivi di cui è inutile di parlarvi, scrisse ai suoi superiori che la pubblica sicurezza di quel paese esigeva che vi si spedissero delle guardie. Quattro di queste furono mantenute ed alloggiate per due mesi a spese di mio padre. La nostra osteria diventò ben presto un deserto; ognuno la schiafava come una caverma; noi non osavamo di mettere un piede ne meno in istrada. I debitori di mio padre non lo pagarono, i suoi creditori lo incalzavano, e la morte lo tolse alle sue disgrazie, serrandomi all’ultimo sospiro nelle sue braccia. Mia madre non morì, ed io credeva che le mostre disgrazie aumentassero per me il suo affetto. Siamo venuti a seppellirci in Città, e per strada m’avvertì che io era incinta: questo fanciullo che dovressimo odiare non abbiamo potuto rissolverci nè l’una nè l’altra di allontanarlo da noi. Nulla vi dico di quanto abbiamo finora sofferto. Mia madre arrivò ad ottenere una piazza di giornaliero presso un Lavandajo, ed io l’ajuto di tempo in tempo intanto ch’ella tiene mio figlio: ma non bastando il poco ch’ella guadagna per i nostri bisogni, io mi sono determinata di far l’orribile mestiere di mendicante, finchè mio figlio sia in istato di procacciarsi il pane. Il Ballerino pose in mano di quell’infelice una moneta d’argento, assicurandola che avrebbe fatti tutti gli sforzi per procurare al più presto a lei ed a sua madre i mezzi da cavarsi da tale deplorabile situazione, e forse è d’uopo d’aggiungere che la esortò a perseverare negli onesti sentimenti dei quali era una prova quella medesima sua infelice situazione. In seguito andò a ballare quantunque non ne avesse voglia. La storia che aveva inteso affliggeva il suo cuore, ed occupava il suo spirito; intantocché il suo corpo machinalmente bilanciava sulla punta dei piedi, la sua testa ri-feltteva ai mali che tormentano l’umana specie. Fece un entrechat a sette invece di farlo a sei; fece un pas-de-bourrée per un passo, di rigodon. Nei palchi si diceva ch’era ubbriaco, e la platea fischiò. Ma la sua soddisfazione gli sembrò per questa volta preferibile a quella del pubblico. I due Cagnuolini Favola Dorilì Che t’avvenne? perchè piangi? Lesbino Perchè piango? Ah Dorili! Era in grembo alla padrona, Quando giunse un non so chi, Che la mano le imprigiona, E v’imprime baci e baci: Chi potea quegli atti audaci, In silenzio sopportare? Ben mi parve d’abbajare. Ah, non mai l’avessi fatto! L’ossa mie furono a un tratto Scosse tutte e malmenate Da percosse replicate: E jer l’altro che mordei Il marito, ella mi dette Quattro fresche ciambellette. Dorilì Passi i giorni fra le gonne, Nè conosci ancor le donne? Can che aspiri alle dolcezze Dei bocconi più squisiti, Agli amanti fa carezze, E non morde che i maritir. Della Barba La barba provò quasi le stesse variazioni dei capeli. Ora è stata onorata, ed ora proscritta. In principio del quinto secolo si rasava il volto eccettuati i peli che si conservavano sul labbro inferiore. Era quello il regno dei mustacchi. Clodoveo Re di Francia lasciò crescere la sua barba, e la portò coi mustacchi. Tutti i Francesi imitarono il suo esempio: le cure che si diedro per coltivare questo nuovo ornamento li resero molto rispettabili. Strappare un pelo ad alcuno, tirargli i mustacchi furono altrettanti delitti, che si procuravano di prevenire. Sotto il regno di Enrico I. figlio di Roberto i Francesi si acconciavano in un modo singolare. I capegli, i mustacchi, e la barba erano disposti in maniera, che i Damerini avevano la faccia cascata. I capegli rotondi, eguali, e piani non oltrepassavano le orecchie: era questa la prima cascata; i mustacchi cadenti formavano la seconda; e una barba lunga all’estremità del mento componeva la terza. Nel duodecimo secolo la barba cessò di regnare in Francia. Allora vi ebbero dei barbiere; quello di S. Lodovico si chiamava Labrosse: divenne poscia il favorito di Filippo l’ardito. Nel secolo decimosesto la barba riprese favore, ma ebbe i suoi forti contrasti. Sotto Lodovico XIII. la barba fu ridotta a semplici mustacchi: tutto la minacciava d’una totale soppressione. Il tabacco la fece in seguito sparire del tutto. Indovinate Osservazioni Storico-Critiche. L’impero che ha una donna sopra un uomo è sempre lusinghiero per il suo amor proprio, ma qual gloria e qual vantaggio per quella che unisce all’orgoglio del suo sesso, quello di vedere un Grande ai suoi ginocchi? Le sue grazie hanno maggior nobiltà, il suo carattere diventa elevato e siccome nel dominio una donna trovasi nel suo elemento, e sembra nata in quel palazzo da cui ne era molto discosta, così si direbbe che ella conosce tutti quelli uomini che non vide giammai; e lo spirito di Corte non le sembra che un abbozzo non ancora spiegato, e che attacca il suo carattere. I suoi protetti sembrano i suoi sudditi, e non ne sono avviliti. Forse in questo rango essa è più fedele all’amicizia, che quando lontana dal gran cammino getta indistintamente le sue reti sopra i passi di tutti quelli che la circondano. Se il campo è aperto alla fortuna per gli uomini, le donne non ne hanno delle meno brillanti, ed esercitano il potere delle loro attrattive sopra un gran numero di cuori. Colpiscono sopra molti in una volta; gli slanciati colpi della bellezza trovano sempre alcune anime sensibili. La bellezza solitaria in una città provinciale non ha che pochi rapporti, e non compito rimane il suo trionfo. Quil qualunque sia la sua nascita, se la natura l’ha provveduta id quelle attrattive che possono soggiogare, accende il Consigliere, il Ministro, il Presidente, il Duca, il Generale. L’amore si compiace di confondere gli ordini, di far muovere la ruota della fortuna, e collocare la figlia della cuciniera presso il trono. Senza ottenere un rango così elevato l’indigente bellezza incontra ella pure la fortuna. Appena sono coperti i suoi vezzi da un abito, subito è pronto per alcune compiacenze un equipaggio ai suoi ordini. Il milionario la supplica a ginocchia piegate di accettare l’oro suo; vuole arricchire la sua famiglia, ed il vecchio suo padre coi capegli bianchi, pieno dell’antica sua probità vede rifluire l’abbondanza verso l’oscura sua casuccia. Egli teme di accettare, non sa s’ei commetta un delitto; ma la voce più forte della miseria l’obbliga a spargere sui suoi piccoli fanciulli quasi nudi i soccorsi che gli vengono offerti. Egli è forse immerso nell’errore, ma riguarda il buon uomo questi beneficj come un presente che il Cielo gli accorda nella sua vecchiaja. Sessant’anni di lavoro non gli hanno prodotto ciò che ottiene in un giorno; e per timore di essere obbligato a ricusarli, non si ferma col suo pensiero sopra i doni dell’amore figliale. In tal guisa l’oro svelto ai coltivatori nelle foggie oppressive, passando dalle mani del vizio ritorna almeno ad abbeverare alcuni solchi della compagna. L’amore della voluttà gli somministra un buon successo, e la povera bellezza sortita da un villaggio riprende tutto ciò che l’interesse ha tolto al suo territorio. Ella è debole, ma non ha il cuore indurito. Ella sembra restituire alla sua famiglia ciò che è stato tolto agli infelici suoi antenati. Tali sono i giuochi della fortuna e dell’amore; così pronti e bizzarri nel seno della Capitale, che l’occhio dubita di quanto vede, e questa giornaliera metamorfosi sorprende quegli ancora che sono i più assueffatti a questi spettacoli cagionati dalle passioni dei ricchi, e dal cordoglio dei poveri. Gabinetto delle mode. Spiegazione della tavola XI. Fig. 22. Una donna vestita con un pierrot con lunghe falde alla contadina di taffetà a righe bigie e blò chiaro, e sottana di stoffa simile, guarniti l’uno e l’altro di un lungo sfilato di seta chermesì. Le maniche del pierrot sono guarnite di manichini all’enfant, li quali sono altro che manichini rotondi a tre giri frastagliati a punte, ed a festoni. Ha la testa assettata con un cappello jokei col-le ale di garza rigata, bordate d’una ghirlanda di rose di seta di diversi colori, e colla testiera fatta d’un lieve taffetà verde, la quale è circondata d’un largo nastro color di rosa, e guernito dinanzi d’un pennino di penne verdi. L’acconciatura dei capegli è a ricci staccati, sei dei quali a due giri cadenti per parte sul seno: quei di dietro rialzati in uno sciolto chignon. Tiene al collo un gonfio fichu di garza ricamato di seta verde, annodato di dietro nel mezzo della schiena: sarà questa l’ultima foggia di annodare di dietro tali fazzoletti. Tavola XII. Fig. 23. Non ha guari che la Moda aveva accoppiato lo sfilato del gilet al fondo della stoffa di esso: ora molti l’accompagnano al fondo, cioè al colore della stoffa dell’abito: e si arriva eziandio ad accompagnare il ricamo dei calzoni col colore del fondo dell’abito: questo unisce in se maggiormente il vestito, e dà un’aria di maggiore uniformità che non dispiace. Il giovane Cavaliere qui rappresentanto è vestito con un abito di taffetà verde pomo foderato della stessa stoffa, guarnito di un colletto nero e di bottoni di madreperla lisci e convessi: sotto quest’abito porta un gilet di taffetà bianco a larghi quadrati fatti di mediocri righe color di rosa, bordato di un lungo sfilato di seta verde pomo accoppiato al colore dell’abito. Calzoni di drappo di seta giallo ricamati alla bottoniera, ai centurini, ed alle cuciture di mezzo dei fianchi di seta verde accoppiato al colore dell’abito. Invece delle fibbie dei calzoni si porta adesso una specie di castoni d’anello a rombo, ovvero in quadrato, o in ovale lungo coperti di diamanti, o smaltati, oppure guarniti di perle. Calzette di seta bianche. Fibbie delle scarpe quadrate in lungo. L’affetto del capo è ad un solo grosso riccio per parte che giri intorno al tupet fatto a schiena d’asino, e a guisa d’ala di piccione di dietro aperto a ferro di cavallo. I capegli son incodati di dietro, ma ripiegati, onde l’estremità di essi venga formare un riccio al roverscio, dove resta situato il legaccio. Al collo una larga crovatta coll’estremità guarnite di un largo e bel pizzo, formando con esse un grosso nodo al petto. Manichini e gala della camicia di bella mussolina strastagliata a festoni, ed a punte acute. Tiene in mano il suo cappello à l’Androsmane. Tavola Delle materie contenuto in questo Numero X. La Cometa nel Pozzo Pag. 235 Aneddoti. 239 Letteratura Galante 240 Toletta 242 Tratti di Spirito 234 Il Ballerino 244 I Due Cagnuoli 248 Della Barba 249 Indovinate. 250 Gabinetto delle Mode. Spiegazione della Tavola IX. Fig. 22. 253 Tavola XII. Fig. 23. 254