Zitiervorschlag: Cesare Frasponi (Hrsg.): "Lezione CCCXLIII", in: Il Filosofo alla Moda, Vol.6\343 (1730), S. NaN-255, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.4771 [aufgerufen am: ].


Ebene 1►

Lezione cccxliii.

A’ Benevoli.

Zitat/Motto► Dicitis, omnis in imbecillitate est, & Gratia, & Caritas.

Cic. de Nat. Deor. L.I.c. ult. ◀Zitat/Motto

Ebene 2► L’Uomo si puole considerare, e come ragionevole, e come associabile Creatura, che puole rendersi da se stessa, o felice, o infelice, e contribuire, o al bene, o al male di quelli, che lo rassomigliano. In conseguenza di queste due capacità, il Creatore dell’universo l’ha saggiamence vestito di due Principj d’azione, cioè, dell’Amore proprio, e della benevolenza, l’uno destinato a renderlo attento nel suo particolare interesse; e l’altro lo dispone a soccorrere, quanto puole, quelli, che tendono al medesimo fine. Questa idea è sì conrome a’ lumi della ragione. Fa tanto onore a quello, che ci ha creati, e [246] dà tanto rillievo alla nostra specie, che non pare credibile, vi sieno uomini capaci di rappresentarci la natura umana sotto altri colori, e di considerarla come unicamente attacata ad un vile, e sordido interesse. Quale cosa puole averli impegnati a darcene un sì svantaggioso ritratto? Quale piacere vi ponno avere ritrovato? Epicuro è stato fra’ primi che hanno parlato sì nobilmente dell’uomo. Se ha da credersi a’ di lui settarj, la Benevolenza non viene, che da pura debolezza, e tutti i buoni ufficj, che si prestano a vicenda gli uomini, non escono, che dall’ amore proprio. Tale sentimento non puole meglio accorarsi con sì bella bella Filosofia, che dopo avere formato l’uomo de’ quattro elementi, attribuisce al caso la di lui essistenza, e fa dipendere dal fortuito incontro, e dalla impercettibile inclinazione degli Atomi, tutte le sue azioni, alla vista di queste gloriose scuoperte, Lucrezio prorumpe [247] ineccessivi eloggi al suo Eroe, come se fosse stato un più che umano ingegno, per avere cercato di far vedere, che l’uomo non è superiore alle Bestie.

In questa Scuola Obbe ha imparato a parlare nella stessa maniera, quando tale notizia non gli sia più tosto venuta dall’ avere osservato il proprio naturale. Gli è almeno fuggito in qualche parte di stabilire come Regola infallibile. “Che ogni uomo, il quale essamina se medesimo, e considera ciò ch’ egli fà, e con quali fondamenti agisce, quando pensa, spera, teme &c. vedrà quali sieno i pensieri, e le passioni di ogn’ altro uomo posto nel medesimo caso. Io non disputo a Obbe, ch’ egli non conoscesse meglio d’ ogn’ altro quale fosse la propria inclinazione, ma per verità mi vorrei assai male, ed avrei sì poco amore per me, come per tutto il rimanente del mondo, se fosse tanto nemico degli altri, quanto [248] suppone. Ho sempre fin’ ora, creduto che la Benevolenza fosse naturale al cuore umano, e che malgrado tutte le passioni, che l’attraversano, o la ossuscano, abbi sempre qualche potere, anche sopra i naturali cattivi, ed una grande influenza sopra i buoni. Parmi di più ne somministri assai buona prova il più benefico di tutti glie Esseri, che possiede, in grado supremo, ogni sorta di perfezione, che ha data la essistenza all’ universo, e che non puole non avere egli stesso, ciò che ha communicato alle sue Creature, senza perdere un atomo della sua Felicità, e del suo potere.

È vero, che gli accennati Filosofi hanno fatto di tutto per invalidare quest’ argomento, e dopo aver collocati i Dei nello stato più felice possiamo immaginarci, ce li dipingono attaccati al loro proprio interesse al pari di noi meschini mortali, e tolgono loro la condotta del Genere umano, col prete-[249]sto, che non hanno bisogno di noi. Ma se quello che abita in Cielo, non ha bisogno di noi, non vi è un solo momento, in cui noi non abbiamo bisogno di lui; e se la contemplazione de’ suoi immensi tesori forma le sue più care delizie, il maggiore piacere, che indi ha, viene dal rimirare con favorevole occhio quell’ infinto numero di Creature, da lui prodotte, che si rallegrano ne’ differenti gradi di essistenza, e di bene, de’ quali le ha provedute. In questo consiste il vero e glorioso Carattere della Divinità, che non puole avere creato un essere dotato di Ragione, e formato a sua immagine senza avergli impressa qualche parte di sì amabile Attributo. In fatti, qual piacere d’ uno Spirito il di cui amore verso le sue Creature si estende al pari della sua cognizione, potrebbe gustare, nel vedere un opera, che gli si rassomigliasse si poco? una Creatura capace di conversare con infiniti [250] obbietti, e che non amasse, che se medesima? Quale relazione vi farebbe fra il capo el cuore di tale creatura, frà le sue affezioni, ed il suo intelletto? Potrebbe mai fiorire una Società di simili creature, che non avessero altro principio nel loro Commercio, se non l’Amore proprio? È certo, che la Ragione obbligherebbe ciascheduno in particolare a ricercare il pubblico bene, qual’ è mezzo di ottenere, e fissare il proprio. Ma se oltre questo motivo, non vi fosse un naturale instinto, che ci portasse a bramare gli avvantaggj, e la soddisfazione degli altri, l’Amore proprio, in facia di tutte le ragioni del mondo, non tarderebbe a roversciare il tutto, ed a ridurci in uno stato di confusione, e di guerra. Per quanto interesse abbi l’anima per la salute del corpo, il nostro sapientissimo creatore ha giudicato proprio il farle sovvenire la cura, che ne dee pigliare, col periodico ritorno della fame, e della [251] sete, sapendo benissimo che se non mangiassimo, e bevessimo, se non tanto, e tutte le volte, che le semplici, ed astratte idee lo essigessero; a forza di parlare ci privaremo ben presto di vita.

In fatti si puole aggiatamente riflettere, che non proseguiremmo niente con ardore quando non vi fossimo impegnati da una specie d’ inclinazione, che previene la nostra Ragione, e che dolcemente vi conduce l’anima stessa. Per istabilire un perpetuo commercio di buoni uffici trà gli uomini, non poteva il loro Creatore, se non communicare loro la generosa inclinazione alla Benevolenza.

La Pietà, che si rissente, alla vista delle Persone, che patiscono, o si ritrovano in qualche disgrazia, ed il piacere, che si prova, nell’ averle liberate da quell’ infelice stato, sono una convincente prova, che vale per mille, esservi una disinteressata Benevolenza. Se la compassione dee la sua ori-[252]gine al rifflesso, che tutti siamo soggetti agli stessi accidenti, non servirebbe punto al nostro fine; ma questo è addure una indiretta causa, mentr’ è una passione naturale, che i Fanciulli, e le persone incapaci a riflettere sopra il loro stato, o sopra l’ avvenire, sentono con forza maggiore. Per quello riguarda la soddisfazione, che si prova dopo avere prestato servigio a qualcheduno, o sollevato da’ suoi tormenti, e che riesce con rigore innesprimibile, quando il serviggio è importante, e riguarda molti obbietti, a che si puole attribuire se non all’ interno sentimento d’ avere fatta un azzione degna di lode, che mostra grandezza di animo. All’ opposto, se non si opera in tutto questo, se non con un principio di vanità, e di amore proprio, non essendovi niente, ne di nobile, ne di generoso nelle azioni, che compariscono con più fasto, la natura non le avrebbe riccompensate, con quel [253] Divino piacere. Gli stessi eloggj, che si ricevono, per benefizj prestati, con mire interessate, non soddisserebbono più di quello facessero gli applausi per ciò, che si fa senza dissegno veruno. L’ Amore proprio ritrova ugualmente nell’ uno, e nell’ altro caso il suo conto. La soddisfazione interna, che si rissente nell’ essere tra Benefattori del genere umano è senza dubbio la più nobile ricompensa che si possa attendere; ed i più interessati non saprebbono proporsi niente, che rissulti in loro maggiore vantaggio benche ad onta di tutto, la inclinazione sia in se medesima disinteressata.

Il piacere, che si prova nel soddisfare la fame, e la sete non è la causa di tali Appetiti, è preceduta dall’ uno, e dell’altro. Corre lo stesso della inclinazione, che abbiamo d’ essere utili agli altri, colla differenza, che questa risiede nella parte intellettuale, e puole essere migliorata, e governata dalla ragione, benche la preceda, o pu [254] re, che non è virtù, se non tanto quanto viene guidata dalla ragione.

In questa giusa sostengo la dignità della natura, che ho l’onore di partecipare, e dopo tutte questo prove, che ho addotte, mi credo in diritto di concludere, malgrado la sentenza di Cicerone, posta alla Testa di questa Lezione. Che si ritrova nel mondo ciò, che si chiama Generosità. Ma se nel proposito m ingannassi, direi volontierieri [sic] come lo stesso Oratore si esprime, circa la immortalità dell’anima, che il mio errore mi consola, e che farebbe desiderabile per l’interesse dell’umano genere, che tutto fosse nella medesima illusione. Per lo meno la contraria idea tende naturalmente a disanimare il cuore, e ad immergerlo in una bassezza fatale al nobile desiderio di fare del bene. Autoriza gl’ Ingrati servendo a loro persuadere, che i loro Benefattori hanno più in mira l’ [255] Amore proprio, del vantaggio di quelli, che pretendono beneficare. Chi bandisce la Riconoscenza dal mondo tura, per quanto a lui s’aspetta, ogni sorgente di Generosità. Benche un uomo veramente generoso non aspetti verun contracambio a suoi beneficj, con tutto ciò, vi de’ essere nella Persona, che rimane obbligata, e si come non vi è niente, che renda questa più indegna di riceverne, della sua insensibilità, così egli non si curerà molto di prestarle nuovi serviggj. ◀Ebene 2 ◀Ebene 1