X Pietro und Alessandro Verri Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Valentina Rauter Mitarbeiter Lisa Pirkebner Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 08.05.2018 o:mws.6744 Pietro e Alessandro Verri: Il Caffè o sia brevi e varj discorsi giá distribuiti in fogli periodici. Venezia: Pietro Pizzolato 1766, 124-138 Il Caffè 1 10 1766 Italien Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Wissenschaft Scienza Science Ciencia Sience Natur Natura Nature Naturaleza Nature Wirtschaft Economia Economy Economía Économie Gesellschaftsstruktur Struttura della Società Structure of Society Estructura de la Sociedad Structure de la société Adelskritik Critica della Nobilità Critics on Nobility Crítica de la Nobleza Critique de la noblesse Italy 12.83333,42.83333

X

terreno continuamente bagnato, perchè non sia da una continua nebbia imbrattata? Il Vento istesso che spira dal Levante, o dal Sud-Est, che ci viene già umido dall’Adriatico, passa sulle paludi del Mantovano, o del Ferrarese, e sul Lodigiano, o sul Cremonese, ed è quello che porta, come ho sopra notato, su questa Città le piogge, e le nebbie più umide. Il Vento parimenti di Mezzo-giorno è anch’esso, come già ho dimostrato, nebbioso e piovoso alcune volte, perchè per la medesima ragione passando sul Pavese, porta seco le umide esalazioni di quel bagnato terreno.

L’industria degli uomini in quelle cose ancora che credono di maggior utile è lenta e pigra. Tempo ed anni furono perciò necessarj, perchè con l’arte si dilatassero le acque su quelle Terre, che per natura e situazione asciutte, a poco a poco diventassero umide, e bagnate; ed ecco, come ho già sopra osservato, in qual maniera si dilatarono, e resero più continue, ed innalzarono anche sull’alte colline le nebbie, in prima più rare e brevissime. Questa è la cagione perchè si tarda è negli anni presenti la stagione calda; quando, al riferire de’più attempati, altre volte ne’ primi di Maggio erasi obbligato dal caldo ad appigliarsi all’abito di Estate.

Egli e universalmente costante, e come ho io avuta occasione di verificare colla propria mia esperienza, che non v’ha cosa più dannevole a’ Frutti della Campagna, alle Biade, a’ Gelsi, alle Uve quanto le nebbie principalmente, e le piogge troppo abbondanti e continue; mentre è osservazione altresi costante, che negli anni, il cui Maggio, Giugno, e Settembre sono asciutti, e sereni, tutte le Raccolte delle Campagne del Milanese sono abbondantissime, mature, e nella loro perfezione; al contrario negli anni piovosi, e nebbiosi più dell’ordinario sono generalmente assai scarse, e cattive, di maniera che è meno dannosa una siccità ostinata, o scarsezza di pioggia de’ mesi più caldi, cioè di Luglio ed Agosto, che le piogge continue, e le nebbie di Maggio, Giugno, e Settembre.

Che se le nebbie del Milanese fossero di sole evaporazioni acquose, cosi mal sana certamente non renderebbero l’aria, che con esse respira chi vi si trova immerso. Su’ prati le acque vi stagnano de’ giorni intieri; e tutto l’inverno su quelli che si chiamano di marcita, ne’ risi de’ mesi continui, e de’ più caldi. Queste sciolgono i sali diversi della terra, delle erbe infracidite, degl’insetti, ranocchj, rospi, rettili, ed altri animali d’acqua impudriti, quali sali resi volatili co’vapori acquosi s’innalzano, e immischiandosi co’nitrosi dell’aria fermentano, ed infettano l’elemento della respirazione. La maggior parte di queste acque restano inzuppate nella terra, per la quale filtrando, ed in alcuni siri seco traendo le dissoluzioni eterogenee fatte sulla superficie s’immischia con quelle de’pozzi per vendere così all’affettato Lavoratore principio di morte il cristallino fluido ristoratore. Le sentine e cisterne di questa Città si frequenti in ogni casa non sono forse delle più piccole cagioni, perchè nella stessa maniera si rendano men buone le acque che si bevono? Le immonde colature di tanti lavatoi che scorrono per le strade le più frequentate, le quali trovansi di continuo imbrattate, ammorbano l’aria e i Cittadini.

A queste cagioni alteratrici di questo clima, e di questa atmosfera aggiungasi, che io medesimo ho veduto più volte nelle campagne sulle piazze, e nel centro delle case, o nella maggior vicinanza delle più frequentate abitazioni di molti Villaggi del Milanese, delle grandi fosse, o piscine per servire di abbeveratojo alle bestie di lavoro, e ad altri usi, sul lembo delle quali vi si trovano ancora in alcuni siti de’ pozzi; anzi mi viene assicurato essere tale costumanza quasi universale in tutto il Milanese di raccogliere in fosse, e conservare le colature delle acque piovane, che non vi giungono per lo più, che torbide e fangose. I letamaj si conservano pure, e si trovano nel mezzo delle abitazioni de coltivatori di queste campagne. Chiunque ogni poco abbia corso le strade di questo paese non ha bisogno che altri gli dica quanto universalmente sieno fangose, ed impastate di putride fetenti acque stagnanti quasi tutto l’anno, e molte anche ne’ mesi più caldi, come generalmente mal conce, mal pianate, ed intrattenute finanche sotto le mura, e le porte della Città.

Di più la coltra degli erbaggi, e delle frutta è così abbandonata a’Villani pigri, ed inesperti, a’ quali bastano avere guastagnato un tozzo di pane per essi, e per la famiglia, più in là non curano estendere una esperimentata industria. La col-tivazione degli erbaggi consiste a gettare indifferentemente delle sementi sopra una terra impastata di liquide spazzature setenti d’ogni genere, trasportare ogni notte dalla Città, e strappare dal suolo, allorchè bastantemente nate, innalzate, e verdeggianti per potersi vendere, e le quali più volte risentono il cattivo odore dell’accennato ingrasso. Le frutta si vendono la maggior parte acerbe, o selvatiche, essendo quasi tutte le loro piante abbandonate, e senza innesto; prova di ciò sono le corbe intere gettate ogni anno per Pubblica Autorità a’letamaj; una gran quantità che si consuma in Milano le vien portata dal Pavese, e la insipidezza di queste ‘è un effetto necessaio di quel suolo per arte bagnato.

Mi è stato finora impossibile il fissare con qualche metodo le mie osservazioni su’morbi, e le malattie di questo paese, relative a ‘cambiamenti de’ tempi de’ tempi dell’aria, delle stagioni, e delle meteore. Anzi a me sembra che siano nel sistema presente degli universali costumi di tutta l’Europa suscettibili di poche fisse conseguenze, o regole. E’ difficilissimo da’soli effetti moltissime volte simili, o gli stessi, lo sviluppare le tanto differenti cagioni de’morbi provenienti dall’abuso de’ cibi, o dall’uso di questi cattivi, e mal condizionati; dall’abuso parimenti de’ comodi, e de’ piaceri della vita, o da’ disagj, e dalle fatiche; dallo fregolamento di tumultuose contrarie passioni, o da celtica infezione; da una mal organizzata fisica costituzione, o con una cattiva educazione malamente piegata; finalmente dal respirare un’aria differente, ed una atmosfera men pura, o agitazioni, ed alterazioni di essa cagionati. Il poco uso, che si è potuto finora ricavare da’ giornali Medici, e Meteorologici de’ diligenti Accademici di Parigi mi conferma in questa opinione. Le poche cose, che io ho potuto osservare relativamente a ciò sotto questo Cielo mi hanno fatto vedere, che le malattie più universali sono le febbri maligne putride, o febbri croniche co idropisie in chi respira l’aria, e beve l’acqua de’prati, e delle risaje, massime ne’ tempi delle asciutte, come dicesi dal volgo, e ne’ mesi più cladi, cioè dalla metà di Giugno fino alla metà di Settembre. Le febbri verminose, universalmente ne’ poveri coltivatori della Campagna principalmente nella state, e finalmente gli attacchi di petto, e mali di polmone sono le più universali malattie, e la cagione di morte degli abitatori di questa Città.

lo non ho aggiunto alcuna dimostrazione positiva a quanto ho fin qui asserito, o indicato. Quando ne abbia la volontà, è un lavoro che riserbo ad un altro scritto più metodico, e pi esteso. Ti basti, amico, sapere che tutte quelle cose, che ho fin qui asserito, sono altrettante conseguenze di lunghe, e replicate io mie osservazioni, ed esami già da più anni a quest’oggi. Se queste provano la necessitä di restituire queste terre alla naturale loro asciuttezza, non deve ciò non pertanto spaventarti l’avaro zelo de’ particolari. La quantità de’ grani, e delle sete raccolte da quelle sole campagne, che non sono ancora coperte dalle artificiali irrigazioni; ed il maggior numero di braccia che domanda la loro coltivazione, e la loro manifattura, e conseguentemente il maggior numero degli uomini che ne traggono il lor vitto: Finalmente il denaro, che la quantità degli uni, e delle altre sovrabbondante al consumo fa da’ paesi forestieri colare in questo, deve dissipare qualunque panico timore di un minor lucro, benchè particolare.

La ricchezza, e povertà di una Nazione si misurano dalla quantità delle cose necessarie a’ bisogni ed a’ piaceri della vita, che essa Nazione trovar può nel suo Paese; dal numero degli uomini che vi acquistano diritto colla propria industria, e lavoro in cercarle, coltivarle, e prepararle; e dal numero di quelli che vi si possono perdere colle malattie, colle fatiche, e colla morte nel loro dissotterramento, cultura, e preparazione; più la quantità di dette cose necessarie trovate nel proprio Paese, e che sopravanzano al consumo, ed effettivamente transmettono alla altre Nazioni, e di quelle che mancano, ed effettivamente ricevono dalle Nazioni forestiere. Chi vede questa verità, e conosce la proporzione, colla quale concorrono gli accennati Elementi a formare questo tutto, può facilmente calcolare l’utile, o ‘1 disavvantaggio de’ fieni, e de’ risi, soli frutti delle Terre bagnate relativamente a tutti gli altri frutti, che con una esperimentata, e maggiormente perfezionata agricoltura ottenere si possano da’ terreni asciutti, e con arte non adacquati.

A te questo mio scritto io mando. Io straniero, se per avventura v’è alcuna cosa utile, altro interesse non vi posso avere, che per l’amor solo di tutti gli uomini. Questa e tua Patria, la natura sua, e il suo commercio a te non è sconosciuto. Impegnare adunque può la tua curiosità almeno a perdervi una mezz’ora in leggerlo, quand’anche tu debba correre il rischio di sbadigliare più di una volta.

Possano i tuoi lumi, e il tuo cuore tutti maggiormente più felici rendere i di di tua vita. Tali sono i sinceri voti del tuo Amico. G.

La Lettera ch’io ricevo da un professore di vio-lino, che sta al soldo d’un Principe di Germania, mi ha fatto ridere; e giacchè vedo universalmente approvata coll’uso la moda di far dei saggi, ossia sperimenti col Pubblico, mi determino a fare un breve saggio anch’io per vedere se anche il Pubblico vuol ridere di quello che ha fatto ridere me. La Lettera è stata veramente scritta così.

Grandi magnificenze, feste grandi si sono fatte in questo Carnevale; per averne una idea si figuri che le feste dell’anno passato hanno sopravanzato di molto quelle, delle quali le ho spedita due anni sono la descrizione; e quelle di quest’anno fanno dimenticare affatto tutte le antecedenti. Per noi però tutte queste superbe cose facevano lo stesso effetto, che fa l’arrosto al povero cane che deve farlo girare. Oh vanità terrene, quanta amarezza non si mescola col poco dolce che avetel e quel che più mi scotta si e, che la Chimica politica e giunta a separare il dolce dall’amaro, e quella piccola porzione la riserva per alcuni pochi uomini, e l’amarezza la regala alla moltitudine:

Ed io pur son di quel bei numer uno. Giammai in vita mia non ho avuto tanta voglia da moralizzare quanta ne ho avuta in questi giorni; e si davvero, ch ‘io quasi mi persuado che il talento delle riflessioni cresca colla miseria. Si figuri dunque che noi Citaredi quanti siamo, ora dovessimo far la figura di Dei, ora di Satiri, or di Ciclopi, ed ora di Contadini, cosicché abbiamo scorse diverse condizioni e sublunari e sopra lunari, e in tutti questi diversi salti sempre più ci siamo confermati nella opinione degl’incomodi della grandezza. Siamo stati per alcun tempo Dei, e allora appunto su che per ventiquattr’ore non ci fu permesso io nè mangiare, né bere, né dormire, né riposare, né sedere, in somma non abbiamo fatto nulla di quello che richiede la bassa natura d’un corpo mortale. Io era, cred’i, il Nume Morfeo, o almeno l’estrema sonnolenza che aveva me lo ha persuaso; ma il decoro della mia celeste carica mi teneva in guardia contro le palpebre, che pure ad ogni tratto minacciavano di chiudersi, e in alcuni momenti pieno del mio Nume medesimo gettava uno sguardo proteggitore su alcuni poveri mortali stanchi delle feste, i quali miseramente s’empievano il loro mortal venire di squisite vivande artificiosamente disposte da alcuni empi, che pensavano più agli Uomini, che ai Dei. Misera umanità, diceva io fra me stesso, a quanti bisogni non sei tu soggetta, e quanto non ti da a pensare il tuo mortal corpo! Qualche bottiglia di zampillante Sciampagna, o qualche pasticcio sublime, che mi si presentavano più da vicino allo sguardo, di tratto a tratto ammansavano il mio etereo orgoglio, poichè si fatti talismani hanno una irresistibile possanza sulle intelligenze anche superiori; ma alla fine, dopo un lungo combattimento fra la mia terrena originaria natura, e l’elevazione de’ sentimenti del nuovo mio stato, gli uomini anch ‘essi si stancarono, e lasciarono i Dei in libertà; ed io riprendendo le frali mie spoglie, quando al Ciel piacque feci la parte da lupo ad una buona mensa, e cessai di sentire l’invidia, che in prima provava verso i rimedj inventati dagli uomini per riparare i Ioro mali. Ora son uomo, e spero che avrò la degnazione d’esserlo per qualche tempo; ed al di più sono obbligatissimo servitore, ec.

B.

Un Causidico ci ha annojati nel Caffè lodando, e difendendo 1’instituzione de’ Fedecommessi; il mio amico L. gli si è opposto con ragioni si evidenti, che a tutti noi, che eravamo ivi radunati non restò dubbio, che il Causidico difendesse le sue entra-te, anzi che la verità. Ho pregato l’Amico a darmi iscritto le ragioni addotte in quella conversazione, ed egli me le invia nello scritto seguente.

Osservazioni su i Fedecommessi.

Non vi posso dare prova maggiore della mia amicizia della presente. Voi sapete quanto io sia lontano dallo stendere in iscritto i miei pensieri, poco, anzi niente mi curo degli applausi popolari, quand’anche fossi sicuro di riportarli; nè potendo io aver fuor di questo altro stimolo, m’abbandono interamente alla forza d’inerzia, che in me può moltissimo. Pure voi volete ch’io scriva i miei pensieri su i Fedecommessi; ed io a dispetto della pigrizia devo ubbidirvi. Nel far la qual cosa non crediate già ch’io sia per produrvi nuove idee, e ch’io intenda dimostrarvi alcuna verità, che voi non abbiate ancora ritrovata. Io non farò, che esporre ciò che deve affacciarsi a prima vista agli occhi d’un mezzano metafisico, o d’un mediocre politico.

Sembrami che se ‘1 rintracciare l’origine d’una cosa conduce al rischiararla moltissimo, e depurarla, ciò particolarmente sia vero de’ Fedecommessi, e penso inoltre che ‘l trasportare la nostra mente a’ primi tempi della Repubblica Romana, ed alla sorgente de’ Fedecommessi, ma 1’ trasportarvisi con quell’occhio discernitore che basti a conoscere l’utilità, e l’indole de’ medesimi.

Aveva Romolo (1) divisi i poderi che formava-no il piccol ter-ritorio di Roma nelle famiglie de’ suoi Concittadini; divisione confermata da Numa Pompilio, e ristabilita da Servio Tullio, Per conservar l’uguaglianza fra i Cittadini conveniva per tanto che i beni non uscissero da una famiglia per passar in un’altra; cosa ch’avrebbe col tempo accumulate in mano di pochi le ricchezze che a tutti ugualmente appartenevano. Fu perciò fatta la Legge Voconia, che proibendo di lasciar eredi le donne, e loro anteponendo anche i più lontani agnati, impediva ch’esse dalla famiglia del loro Padre trasportassero in quella dello Sposo l’eredità. Ma introdottosi poco a poco l’arbitrio di far testamento, ne venne aperta la strada d’eludere questa Legge col lasciar erede un terzo, incaricandolo a rimetter l’eredità nelle mani di quella, che altrimenti non v’avrebbe avuto parte alcuna. Il restituir però quest’eredità era piuttosto dovere d’un fedele Amico, che ne pure indirettamente deve trasgredir Leggi. Augusto fu il primo, che con legge ordinò la restituzione de’ Fedecommessi; e gli Imperadori che vennero in appresso, ne autenticarono il comandamento. La barbarie, che in que’ tempi stendeva la feroce e letargica sua forza nell’Impero Romano, il poco conto che facevasi della felicità degli uomini, l’ignoranza delle scienze economiche, e più ancora la vastità sterminata degli stati che componevano quest’Impero, non permisero a’ Principi d’esaminare l’utilità de’ Fedecommessi. Diviso anzi oppresso l’Impero Romano, nacquero i Feudi, origine incessante di liti, di guerre, e di desolazioni. Ridotti quest’ultimi in gran parte dell’Europa in confini più stretti e meno nocivi all’umanità, l’indolenza, e l’ignoranza lasciarono sussistere i Fedecommessi, e questi dalla scaltrita avidità de’ Curiali talmente s’estesero, che ap-pena puovisi riconoscerne la vera origine. Dicevasi fedecommessa quell’eredità, ch’era un Amico pregato a restituire abbandonata alla fede d’esso questa restituzione. Ora noi chiamiamo fedecommesso un podere, che lasciato da un Testatore ad un terzo, devesi da questo in vigor delle Leggi tramandare al sostituito in quella maniera ch’e propria di ciascuna delle specie d’essi, e cosi successivamente per tutto quel tempo fissato dal Testatore, la cui volontà serve di legge inalterabile, e che obbliga il più delle volte tutt’i successori all’infinito.

Cercasi se tale instituzione utile sia al ben pubblico, o pure convenga restringere il troppo esteso arbitrio di dispor del fatto suo per testamento, ed o proibire i Fedecommessi; le primogeniture, i majorascati, o limitarli almeno fino ad un dato termine. Questa sarà la mia ricerca.

È certo, che l’unico scopo del Legislatore vuol essere la felicità del Pubblico. Questa felicità devesi ricercare da esso, e promovere con tutt’i mezzi, nè assicurare il godimento a pochi Cittadini, ma anzi più che si può dividerla infra tutt’i Sudditi, nè ammassare gli agi, e le ricchezze in mano d’alcuni, abbandonata la parte più necessaria e più numerosa del popolo ad una compassionevole indigenza. Io so, che data una società civile conviene ammettere distinzione di grado e di condizione; ma so che un provido Legislatore fa che i segni rappresentativi delle derrate, dalla mano del ricco passino in quella del povero, in maniera che ammessi vengano i più infimi plebei a partecipare della dolcezza del governo, dell’abbondanza del denaro, del profitto del Commercio. Sia pure un pessimo e necessario effetto della civile società l’odiosa a’ poveri disuguaglianza d’uomini. Devono però le Leggi rendere più sopportabile questa differenza, devono proteggere la plebe, ed animarla al travaglio colla speranza delle ricchezze e d’una vita più comoda. Deve anzi cosi bene esser regolata la macchina politica, che non v’abbia povero se non l’ozioso, cioè quegli ch’è affatto inutile, e solo a carico alla società. Per ottener questo fine pare indispensabile, che gli onori tutti, e le ricchezze siano un premio proposto all’industria, sicchè que’ soli possansi dal volgo distinguere, che o per virtù, o per commercio si resero utili alla patria. Io ben vedo che se volessi lasciar libero il corso alle mie idee, un ben vasto campo qui mi s’offre da trarne le più luminose conseguenze. Converrebbemi allora combattere molti pregiudizj non del popolo solo, ma d’alcuni uomini ancora creduti dotti, e certamente ragguardevoli pel loro sapere. Ma rimettiamo ad altro tempo le pur troppo infruttuose filosofiche speculazioni intorno agli onori, ed atteniamoci all’uso delle ricchezze, che per le sagge mire del Legislatore devono quanto si può, essere meno distribuite.

Voglionsi dunque in un buon Governo libere lasciare le sostanze de’ Cittadini, perchè que’ che per trascuratezza le perdono, come que’ che per industria le ammassano, siano un forte stimolo a risvegliar gli animi de’ Cittadini dall’indolenza, e spingerli a far fiorire il commercio, sorgente unica delle ricchezze della Città non meno che de’ Privati.

Noi per lo contrario siamo ormai giunti a segno, che ben poche sono le sostanze libere, e non v’e quasi fondo che vincolato non sia, e dalla massa comune de’ beni segregato, che al Commercio liberamente appartengono. Io so che non per i soli Fedecommessi vengono tolte le sostanze alla libera circolazione che dà vita e moto alla società; ma lascio ch’altri si prenda la briga di scoprire altre sorgenti del ristagno politico, che vassi accrescendo. Bastami l’asserire, che la decadenza del commercio, in gran parte devesi alla comune voga di fondar de’ Fedecommessi.

È assioma evidente in politica, che acciocchè libero sia e florido il commercio, devesi da buone leggi provedere, che i Negozianti possano facilmente trovar imprestito del denaro, e con un discreto interesse, onde ne vengano col rigiro a cavarne profitto. Or come ottener questo, se non se coll’usar un sommo rigore perchè nissuno impunitamente fallisca, e così cauto sia il prestatore del suo capitale? Perciò alcuni savj Legislatori, trascurate le poziorità de’ crediti, e la loro forma legale, sono passati ad ordinare perfino, che colle opere, e con una limitata servitù del debitore compensassesi onninamente il creditore. Questo fine, che pur è necessario d’avere, non viene egli apertamente tolto da’ Fedecommessi? Chi m’assicura, che quegli che ricercami del denaro, e men offre per sicurezza l’ipoteca sopra i suoi fondi, non ne abbia che di sottoposti ad antichissimi vincoli di fedecommesso? Come mai potrà trovar sovvenitori un padre di famiglia che voglia migliorar la sua condizione col traffico, ed i cui poderi non siano liberi, essendone esso per la volontà d’un suo antenato un puro amministratore, ed usufruttuario? Come mai sarà scosso dall’indolenza, ed eccitato a trafficar quegli che abbia una mezzana rendita in fondi, che essendo suoi e non suoi, gli assicurano il sostentamento, e non gliene lascian temere la perdita?

È certo che l’interesse, ossia la speranza d’arricchire e di procacciarsi maggiori piaceri è il deter-minativo di tutte le azioni mondane. E ugualmente certo che i costumi, e la maniera di pensare d’una Nazione dipendono dalle massime ricevute dalla gioventù, e radicate col crescer degli anni. Ciò posto un Figlio d’una famiglia, ove non sianvi fedecommessi, ancorché veda il Padre dovizioso, cercando però di vivere più indipendente da esso, e d’accertarsi un buono stato, dovrà scegliere una delle due: o coll’ubbidienza acquistarsi l’amore paterno, ed interessarlo a somministrargli del denaro ed a lasciargli una ricca sostanza, o pure rendersi intendente ed abile nel commercio, ed impetrando l’autorità di leggi provide farsi assegnare dal Padre una somma di denaro, col quale possa trafficare ed arricchirsi. Ma facciamo, che questa famiglia non abbia fondi, che non siano fedecommissarj: in questo caso il Figlio essendo sicuro che il Padre non potrà mai privarlo della pingue eredità, poco si cura di guadagnarsene l’affetto, ed all’ozio abbandonasi, più dannoso ancora al pubblico bene, che al privato. Ecco l’evidente ragione perchè gli uomini più attivi sorgano dagli stati intermedj; e perchè ben pochi sono que’ che avendo ricevuta una molle educazione, ed aspettandosi una immancabile facoltosa eredità, sian arrivati a distinguersi nelle scienze. Ecco una delle cagioni, che più influiscono nella si comune ignoranza de’ Nobili.

Ma qual mai si è lo scopo de’ Fedecommessi, delle primogeniture, de’ majorascati? Quello, dirammisi, di conservar ricca ed illustre una famiglia. Che cosi si ragioni da un vecchio imbevuto di pregiudizj, che crede di rivivere nella sua discendenza, e pascesi nell’idea di veder perpetuata la sua linea, non deve far istupore; ma poco importa alla pubblica felicità, che la tal famiglia conservisi eternamente ricca, anzi molto importa che le ricchezze accumulate passino di mano in mano, circolino nello stato, e siano il premio dell’industria d’un Negoziante più utile alla società, che mille Nobili sfaccendati.

Nella succession de’ Monarchi e giusto che le Provincie d’uno Stato siano riputate inalienabili dal Principe,

X terreno continuamente bagnato, perchè non sia da una continua nebbia imbrattata? Il Vento istesso che spira dal Levante, o dal Sud-Est, che ci viene già umido dall’Adriatico, passa sulle paludi del Mantovano, o del Ferrarese, e sul Lodigiano, o sul Cremonese, ed è quello che porta, come ho sopra notato, su questa Città le piogge, e le nebbie più umide. Il Vento parimenti di Mezzo-giorno è anch’esso, come già ho dimostrato, nebbioso e piovoso alcune volte, perchè per la medesima ragione passando sul Pavese, porta seco le umide esalazioni di quel bagnato terreno. L’industria degli uomini in quelle cose ancora che credono di maggior utile è lenta e pigra. Tempo ed anni furono perciò necessarj, perchè con l’arte si dilatassero le acque su quelle Terre, che per natura e situazione asciutte, a poco a poco diventassero umide, e bagnate; ed ecco, come ho già sopra osservato, in qual maniera si dilatarono, e resero più continue, ed innalzarono anche sull’alte colline le nebbie, in prima più rare e brevissime. Questa è la cagione perchè si tarda è negli anni presenti la stagione calda; quando, al riferire de’più attempati, altre volte ne’ primi di Maggio erasi obbligato dal caldo ad appigliarsi all’abito di Estate. Egli e universalmente costante, e come ho io avuta occasione di verificare colla propria mia esperienza, che non v’ha cosa più dannevole a’ Frutti della Campagna, alle Biade, a’ Gelsi, alle Uve quanto le nebbie principalmente, e le piogge troppo abbondanti e continue; mentre è osservazione altresi costante, che negli anni, il cui Maggio, Giugno, e Settembre sono asciutti, e sereni, tutte le Raccolte delle Campagne del Milanese sono abbondantissime, mature, e nella loro perfezione; al contrario negli anni piovosi, e nebbiosi più dell’ordinario sono generalmente assai scarse, e cattive, di maniera che è meno dannosa una siccità ostinata, o scarsezza di pioggia de’ mesi più caldi, cioè di Luglio ed Agosto, che le piogge continue, e le nebbie di Maggio, Giugno, e Settembre. Che se le nebbie del Milanese fossero di sole evaporazioni acquose, cosi mal sana certamente non renderebbero l’aria, che con esse respira chi vi si trova immerso. Su’ prati le acque vi stagnano de’ giorni intieri; e tutto l’inverno su quelli che si chiamano di marcita, ne’ risi de’ mesi continui, e de’ più caldi. Queste sciolgono i sali diversi della terra, delle erbe infracidite, degl’insetti, ranocchj, rospi, rettili, ed altri animali d’acqua impudriti, quali sali resi volatili co’vapori acquosi s’innalzano, e immischiandosi co’nitrosi dell’aria fermentano, ed infettano l’elemento della respirazione. La maggior parte di queste acque restano inzuppate nella terra, per la quale filtrando, ed in alcuni siri seco traendo le dissoluzioni eterogenee fatte sulla superficie s’immischia con quelle de’pozzi per vendere così all’affettato Lavoratore principio di morte il cristallino fluido ristoratore. Le sentine e cisterne di questa Città si frequenti in ogni casa non sono forse delle più piccole cagioni, perchè nella stessa maniera si rendano men buone le acque che si bevono? Le immonde colature di tanti lavatoi che scorrono per le strade le più frequentate, le quali trovansi di continuo imbrattate, ammorbano l’aria e i Cittadini. A queste cagioni alteratrici di questo clima, e di questa atmosfera aggiungasi, che io medesimo ho veduto più volte nelle campagne sulle piazze, e nel centro delle case, o nella maggior vicinanza delle più frequentate abitazioni di molti Villaggi del Milanese, delle grandi fosse, o piscine per servire di abbeveratojo alle bestie di lavoro, e ad altri usi, sul lembo delle quali vi si trovano ancora in alcuni siti de’ pozzi; anzi mi viene assicurato essere tale costumanza quasi universale in tutto il Milanese di raccogliere in fosse, e conservare le colature delle acque piovane, che non vi giungono per lo più, che torbide e fangose. I letamaj si conservano pure, e si trovano nel mezzo delle abitazioni de coltivatori di queste campagne. Chiunque ogni poco abbia corso le strade di questo paese non ha bisogno che altri gli dica quanto universalmente sieno fangose, ed impastate di putride fetenti acque stagnanti quasi tutto l’anno, e molte anche ne’ mesi più caldi, come generalmente mal conce, mal pianate, ed intrattenute finanche sotto le mura, e le porte della Città. Di più la coltra degli erbaggi, e delle frutta è così abbandonata a’Villani pigri, ed inesperti, a’ quali bastano avere guastagnato un tozzo di pane per essi, e per la famiglia, più in là non curano estendere una esperimentata industria. La col-tivazione degli erbaggi consiste a gettare indifferentemente delle sementi sopra una terra impastata di liquide spazzature setenti d’ogni genere, trasportare ogni notte dalla Città, e strappare dal suolo, allorchè bastantemente nate, innalzate, e verdeggianti per potersi vendere, e le quali più volte risentono il cattivo odore dell’accennato ingrasso. Le frutta si vendono la maggior parte acerbe, o selvatiche, essendo quasi tutte le loro piante abbandonate, e senza innesto; prova di ciò sono le corbe intere gettate ogni anno per Pubblica Autorità a’letamaj; una gran quantità che si consuma in Milano le vien portata dal Pavese, e la insipidezza di queste ‘è un effetto necessaio di quel suolo per arte bagnato. Mi è stato finora impossibile il fissare con qualche metodo le mie osservazioni su’morbi, e le malattie di questo paese, relative a ‘cambiamenti de’ tempi de’ tempi dell’aria, delle stagioni, e delle meteore. Anzi a me sembra che siano nel sistema presente degli universali costumi di tutta l’Europa suscettibili di poche fisse conseguenze, o regole. E’ difficilissimo da’soli effetti moltissime volte simili, o gli stessi, lo sviluppare le tanto differenti cagioni de’morbi provenienti dall’abuso de’ cibi, o dall’uso di questi cattivi, e mal condizionati; dall’abuso parimenti de’ comodi, e de’ piaceri della vita, o da’ disagj, e dalle fatiche; dallo fregolamento di tumultuose contrarie passioni, o da celtica infezione; da una mal organizzata fisica costituzione, o con una cattiva educazione malamente piegata; finalmente dal respirare un’aria differente, ed una atmosfera men pura, o agitazioni, ed alterazioni di essa cagionati. Il poco uso, che si è potuto finora ricavare da’ giornali Medici, e Meteorologici de’ diligenti Accademici di Parigi mi conferma in questa opinione. Le poche cose, che io ho potuto osservare relativamente a ciò sotto questo Cielo mi hanno fatto vedere, che le malattie più universali sono le febbri maligne putride, o febbri croniche co idropisie in chi respira l’aria, e beve l’acqua de’prati, e delle risaje, massime ne’ tempi delle asciutte, come dicesi dal volgo, e ne’ mesi più cladi, cioè dalla metà di Giugno fino alla metà di Settembre. Le febbri verminose, universalmente ne’ poveri coltivatori della Campagna principalmente nella state, e finalmente gli attacchi di petto, e mali di polmone sono le più universali malattie, e la cagione di morte degli abitatori di questa Città. lo non ho aggiunto alcuna dimostrazione positiva a quanto ho fin qui asserito, o indicato. Quando ne abbia la volontà, è un lavoro che riserbo ad un altro scritto più metodico, e pi esteso. Ti basti, amico, sapere che tutte quelle cose, che ho fin qui asserito, sono altrettante conseguenze di lunghe, e replicate io mie osservazioni, ed esami già da più anni a quest’oggi. Se queste provano la necessitä di restituire queste terre alla naturale loro asciuttezza, non deve ciò non pertanto spaventarti l’avaro zelo de’ particolari. La quantità de’ grani, e delle sete raccolte da quelle sole campagne, che non sono ancora coperte dalle artificiali irrigazioni; ed il maggior numero di braccia che domanda la loro coltivazione, e la loro manifattura, e conseguentemente il maggior numero degli uomini che ne traggono il lor vitto: Finalmente il denaro, che la quantità degli uni, e delle altre sovrabbondante al consumo fa da’ paesi forestieri colare in questo, deve dissipare qualunque panico timore di un minor lucro, benchè particolare. La ricchezza, e povertà di una Nazione si misurano dalla quantità delle cose necessarie a’ bisogni ed a’ piaceri della vita, che essa Nazione trovar può nel suo Paese; dal numero degli uomini che vi acquistano diritto colla propria industria, e lavoro in cercarle, coltivarle, e prepararle; e dal numero di quelli che vi si possono perdere colle malattie, colle fatiche, e colla morte nel loro dissotterramento, cultura, e preparazione; più la quantità di dette cose necessarie trovate nel proprio Paese, e che sopravanzano al consumo, ed effettivamente transmettono alla altre Nazioni, e di quelle che mancano, ed effettivamente ricevono dalle Nazioni forestiere. Chi vede questa verità, e conosce la proporzione, colla quale concorrono gli accennati Elementi a formare questo tutto, può facilmente calcolare l’utile, o ‘1 disavvantaggio de’ fieni, e de’ risi, soli frutti delle Terre bagnate relativamente a tutti gli altri frutti, che con una esperimentata, e maggiormente perfezionata agricoltura ottenere si possano da’ terreni asciutti, e con arte non adacquati. A te questo mio scritto io mando. Io straniero, se per avventura v’è alcuna cosa utile, altro interesse non vi posso avere, che per l’amor solo di tutti gli uomini. Questa e tua Patria, la natura sua, e il suo commercio a te non è sconosciuto. Impegnare adunque può la tua curiosità almeno a perdervi una mezz’ora in leggerlo, quand’anche tu debba correre il rischio di sbadigliare più di una volta. Possano i tuoi lumi, e il tuo cuore tutti maggiormente più felici rendere i di di tua vita. Tali sono i sinceri voti del tuo Amico. G. La Lettera ch’io ricevo da un professore di vio-lino, che sta al soldo d’un Principe di Germania, mi ha fatto ridere; e giacchè vedo universalmente approvata coll’uso la moda di far dei saggi, ossia sperimenti col Pubblico, mi determino a fare un breve saggio anch’io per vedere se anche il Pubblico vuol ridere di quello che ha fatto ridere me. La Lettera è stata veramente scritta così. Grandi magnificenze, feste grandi si sono fatte in questo Carnevale; per averne una idea si figuri che le feste dell’anno passato hanno sopravanzato di molto quelle, delle quali le ho spedita due anni sono la descrizione; e quelle di quest’anno fanno dimenticare affatto tutte le antecedenti. Per noi però tutte queste superbe cose facevano lo stesso effetto, che fa l’arrosto al povero cane che deve farlo girare. Oh vanità terrene, quanta amarezza non si mescola col poco dolce che avetel e quel che più mi scotta si e, che la Chimica politica e giunta a separare il dolce dall’amaro, e quella piccola porzione la riserva per alcuni pochi uomini, e l’amarezza la regala alla moltitudine: Ed io pur son di quel bei numer uno. Giammai in vita mia non ho avuto tanta voglia da moralizzare quanta ne ho avuta in questi giorni; e si davvero, ch ‘io quasi mi persuado che il talento delle riflessioni cresca colla miseria. Si figuri dunque che noi Citaredi quanti siamo, ora dovessimo far la figura di Dei, ora di Satiri, or di Ciclopi, ed ora di Contadini, cosicché abbiamo scorse diverse condizioni e sublunari e sopra lunari, e in tutti questi diversi salti sempre più ci siamo confermati nella opinione degl’incomodi della grandezza. Siamo stati per alcun tempo Dei, e allora appunto su che per ventiquattr’ore non ci fu permesso io nè mangiare, né bere, né dormire, né riposare, né sedere, in somma non abbiamo fatto nulla di quello che richiede la bassa natura d’un corpo mortale. Io era, cred’i, il Nume Morfeo, o almeno l’estrema sonnolenza che aveva me lo ha persuaso; ma il decoro della mia celeste carica mi teneva in guardia contro le palpebre, che pure ad ogni tratto minacciavano di chiudersi, e in alcuni momenti pieno del mio Nume medesimo gettava uno sguardo proteggitore su alcuni poveri mortali stanchi delle feste, i quali miseramente s’empievano il loro mortal venire di squisite vivande artificiosamente disposte da alcuni empi, che pensavano più agli Uomini, che ai Dei. Misera umanità, diceva io fra me stesso, a quanti bisogni non sei tu soggetta, e quanto non ti da a pensare il tuo mortal corpo! Qualche bottiglia di zampillante Sciampagna, o qualche pasticcio sublime, che mi si presentavano più da vicino allo sguardo, di tratto a tratto ammansavano il mio etereo orgoglio, poichè si fatti talismani hanno una irresistibile possanza sulle intelligenze anche superiori; ma alla fine, dopo un lungo combattimento fra la mia terrena originaria natura, e l’elevazione de’ sentimenti del nuovo mio stato, gli uomini anch ‘essi si stancarono, e lasciarono i Dei in libertà; ed io riprendendo le frali mie spoglie, quando al Ciel piacque feci la parte da lupo ad una buona mensa, e cessai di sentire l’invidia, che in prima provava verso i rimedj inventati dagli uomini per riparare i Ioro mali. Ora son uomo, e spero che avrò la degnazione d’esserlo per qualche tempo; ed al di più sono obbligatissimo servitore, ec. B. Un Causidico ci ha annojati nel Caffè lodando, e difendendo 1’instituzione de’ Fedecommessi; il mio amico L. gli si è opposto con ragioni si evidenti, che a tutti noi, che eravamo ivi radunati non restò dubbio, che il Causidico difendesse le sue entra-te, anzi che la verità. Ho pregato l’Amico a darmi iscritto le ragioni addotte in quella conversazione, ed egli me le invia nello scritto seguente. Osservazioni su i Fedecommessi. Non vi posso dare prova maggiore della mia amicizia della presente. Voi sapete quanto io sia lontano dallo stendere in iscritto i miei pensieri, poco, anzi niente mi curo degli applausi popolari, quand’anche fossi sicuro di riportarli; nè potendo io aver fuor di questo altro stimolo, m’abbandono interamente alla forza d’inerzia, che in me può moltissimo. Pure voi volete ch’io scriva i miei pensieri su i Fedecommessi; ed io a dispetto della pigrizia devo ubbidirvi. Nel far la qual cosa non crediate già ch’io sia per produrvi nuove idee, e ch’io intenda dimostrarvi alcuna verità, che voi non abbiate ancora ritrovata. Io non farò, che esporre ciò che deve affacciarsi a prima vista agli occhi d’un mezzano metafisico, o d’un mediocre politico. Sembrami che se ‘1 rintracciare l’origine d’una cosa conduce al rischiararla moltissimo, e depurarla, ciò particolarmente sia vero de’ Fedecommessi, e penso inoltre che ‘l trasportare la nostra mente a’ primi tempi della Repubblica Romana, ed alla sorgente de’ Fedecommessi, ma 1’ trasportarvisi con quell’occhio discernitore che basti a conoscere l’utilità, e l’indole de’ medesimi. Aveva Romolo (1) divisi i poderi che formava-no il piccol ter-ritorio di Roma nelle famiglie de’ suoi Concittadini; divisione confermata da Numa Pompilio, e ristabilita da Servio Tullio, Per conservar l’uguaglianza fra i Cittadini conveniva per tanto che i beni non uscissero da una famiglia per passar in un’altra; cosa ch’avrebbe col tempo accumulate in mano di pochi le ricchezze che a tutti ugualmente appartenevano. Fu perciò fatta la Legge Voconia, che proibendo di lasciar eredi le donne, e loro anteponendo anche i più lontani agnati, impediva ch’esse dalla famiglia del loro Padre trasportassero in quella dello Sposo l’eredità. Ma introdottosi poco a poco l’arbitrio di far testamento, ne venne aperta la strada d’eludere questa Legge col lasciar erede un terzo, incaricandolo a rimetter l’eredità nelle mani di quella, che altrimenti non v’avrebbe avuto parte alcuna. Il restituir però quest’eredità era piuttosto dovere d’un fedele Amico, che ne pure indirettamente deve trasgredir Leggi. Augusto fu il primo, che con legge ordinò la restituzione de’ Fedecommessi; e gli Imperadori che vennero in appresso, ne autenticarono il comandamento. La barbarie, che in que’ tempi stendeva la feroce e letargica sua forza nell’Impero Romano, il poco conto che facevasi della felicità degli uomini, l’ignoranza delle scienze economiche, e più ancora la vastità sterminata degli stati che componevano quest’Impero, non permisero a’ Principi d’esaminare l’utilità de’ Fedecommessi. Diviso anzi oppresso l’Impero Romano, nacquero i Feudi, origine incessante di liti, di guerre, e di desolazioni. Ridotti quest’ultimi in gran parte dell’Europa in confini più stretti e meno nocivi all’umanità, l’indolenza, e l’ignoranza lasciarono sussistere i Fedecommessi, e questi dalla scaltrita avidità de’ Curiali talmente s’estesero, che ap-pena puovisi riconoscerne la vera origine. Dicevasi fedecommessa quell’eredità, ch’era un Amico pregato a restituire abbandonata alla fede d’esso questa restituzione. Ora noi chiamiamo fedecommesso un podere, che lasciato da un Testatore ad un terzo, devesi da questo in vigor delle Leggi tramandare al sostituito in quella maniera ch’e propria di ciascuna delle specie d’essi, e cosi successivamente per tutto quel tempo fissato dal Testatore, la cui volontà serve di legge inalterabile, e che obbliga il più delle volte tutt’i successori all’infinito. Cercasi se tale instituzione utile sia al ben pubblico, o pure convenga restringere il troppo esteso arbitrio di dispor del fatto suo per testamento, ed o proibire i Fedecommessi; le primogeniture, i majorascati, o limitarli almeno fino ad un dato termine. Questa sarà la mia ricerca. È certo, che l’unico scopo del Legislatore vuol essere la felicità del Pubblico. Questa felicità devesi ricercare da esso, e promovere con tutt’i mezzi, nè assicurare il godimento a pochi Cittadini, ma anzi più che si può dividerla infra tutt’i Sudditi, nè ammassare gli agi, e le ricchezze in mano d’alcuni, abbandonata la parte più necessaria e più numerosa del popolo ad una compassionevole indigenza. Io so, che data una società civile conviene ammettere distinzione di grado e di condizione; ma so che un provido Legislatore fa che i segni rappresentativi delle derrate, dalla mano del ricco passino in quella del povero, in maniera che ammessi vengano i più infimi plebei a partecipare della dolcezza del governo, dell’abbondanza del denaro, del profitto del Commercio. Sia pure un pessimo e necessario effetto della civile società l’odiosa a’ poveri disuguaglianza d’uomini. Devono però le Leggi rendere più sopportabile questa differenza, devono proteggere la plebe, ed animarla al travaglio colla speranza delle ricchezze e d’una vita più comoda. Deve anzi cosi bene esser regolata la macchina politica, che non v’abbia povero se non l’ozioso, cioè quegli ch’è affatto inutile, e solo a carico alla società. Per ottener questo fine pare indispensabile, che gli onori tutti, e le ricchezze siano un premio proposto all’industria, sicchè que’ soli possansi dal volgo distinguere, che o per virtù, o per commercio si resero utili alla patria. Io ben vedo che se volessi lasciar libero il corso alle mie idee, un ben vasto campo qui mi s’offre da trarne le più luminose conseguenze. Converrebbemi allora combattere molti pregiudizj non del popolo solo, ma d’alcuni uomini ancora creduti dotti, e certamente ragguardevoli pel loro sapere. Ma rimettiamo ad altro tempo le pur troppo infruttuose filosofiche speculazioni intorno agli onori, ed atteniamoci all’uso delle ricchezze, che per le sagge mire del Legislatore devono quanto si può, essere meno distribuite. Voglionsi dunque in un buon Governo libere lasciare le sostanze de’ Cittadini, perchè que’ che per trascuratezza le perdono, come que’ che per industria le ammassano, siano un forte stimolo a risvegliar gli animi de’ Cittadini dall’indolenza, e spingerli a far fiorire il commercio, sorgente unica delle ricchezze della Città non meno che de’ Privati. Noi per lo contrario siamo ormai giunti a segno, che ben poche sono le sostanze libere, e non v’e quasi fondo che vincolato non sia, e dalla massa comune de’ beni segregato, che al Commercio liberamente appartengono. Io so che non per i soli Fedecommessi vengono tolte le sostanze alla libera circolazione che dà vita e moto alla società; ma lascio ch’altri si prenda la briga di scoprire altre sorgenti del ristagno politico, che vassi accrescendo. Bastami l’asserire, che la decadenza del commercio, in gran parte devesi alla comune voga di fondar de’ Fedecommessi. È assioma evidente in politica, che acciocchè libero sia e florido il commercio, devesi da buone leggi provedere, che i Negozianti possano facilmente trovar imprestito del denaro, e con un discreto interesse, onde ne vengano col rigiro a cavarne profitto. Or come ottener questo, se non se coll’usar un sommo rigore perchè nissuno impunitamente fallisca, e così cauto sia il prestatore del suo capitale? Perciò alcuni savj Legislatori, trascurate le poziorità de’ crediti, e la loro forma legale, sono passati ad ordinare perfino, che colle opere, e con una limitata servitù del debitore compensassesi onninamente il creditore. Questo fine, che pur è necessario d’avere, non viene egli apertamente tolto da’ Fedecommessi? Chi m’assicura, che quegli che ricercami del denaro, e men offre per sicurezza l’ipoteca sopra i suoi fondi, non ne abbia che di sottoposti ad antichissimi vincoli di fedecommesso? Come mai potrà trovar sovvenitori un padre di famiglia che voglia migliorar la sua condizione col traffico, ed i cui poderi non siano liberi, essendone esso per la volontà d’un suo antenato un puro amministratore, ed usufruttuario? Come mai sarà scosso dall’indolenza, ed eccitato a trafficar quegli che abbia una mezzana rendita in fondi, che essendo suoi e non suoi, gli assicurano il sostentamento, e non gliene lascian temere la perdita? È certo che l’interesse, ossia la speranza d’arricchire e di procacciarsi maggiori piaceri è il deter-minativo di tutte le azioni mondane. E ugualmente certo che i costumi, e la maniera di pensare d’una Nazione dipendono dalle massime ricevute dalla gioventù, e radicate col crescer degli anni. Ciò posto un Figlio d’una famiglia, ove non sianvi fedecommessi, ancorché veda il Padre dovizioso, cercando però di vivere più indipendente da esso, e d’accertarsi un buono stato, dovrà scegliere una delle due: o coll’ubbidienza acquistarsi l’amore paterno, ed interessarlo a somministrargli del denaro ed a lasciargli una ricca sostanza, o pure rendersi intendente ed abile nel commercio, ed impetrando l’autorità di leggi provide farsi assegnare dal Padre una somma di denaro, col quale possa trafficare ed arricchirsi. Ma facciamo, che questa famiglia non abbia fondi, che non siano fedecommissarj: in questo caso il Figlio essendo sicuro che il Padre non potrà mai privarlo della pingue eredità, poco si cura di guadagnarsene l’affetto, ed all’ozio abbandonasi, più dannoso ancora al pubblico bene, che al privato. Ecco l’evidente ragione perchè gli uomini più attivi sorgano dagli stati intermedj; e perchè ben pochi sono que’ che avendo ricevuta una molle educazione, ed aspettandosi una immancabile facoltosa eredità, sian arrivati a distinguersi nelle scienze. Ecco una delle cagioni, che più influiscono nella si comune ignoranza de’ Nobili. Ma qual mai si è lo scopo de’ Fedecommessi, delle primogeniture, de’ majorascati? Quello, dirammisi, di conservar ricca ed illustre una famiglia. Che cosi si ragioni da un vecchio imbevuto di pregiudizj, che crede di rivivere nella sua discendenza, e pascesi nell’idea di veder perpetuata la sua linea, non deve far istupore; ma poco importa alla pubblica felicità, che la tal famiglia conservisi eternamente ricca, anzi molto importa che le ricchezze accumulate passino di mano in mano, circolino nello stato, e siano il premio dell’industria d’un Negoziante più utile alla società, che mille Nobili sfaccendati. Nella succession de’ Monarchi e giusto che le Provincie d’uno Stato siano riputate inalienabili dal Principe,