Num. 28 Francesco Grassi Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Bernhard Baumann Editor Angelika Hallegger Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 15.12.2016 o:mws.5504 Grassi, Francesco: Lo Spettatore italiano-piemontese. Torino: Giammichele Briolo 1786-1787, 255-280 Spettatore piemontese 1 28 1786 Italien Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Theater Literatur Kunst Teatro Letteratura Arte Theatre Literature Arts Teatro Literatura Arte Théâtre Littérature Art Italy 12.83333,42.83333

N.o 28.

O d’Altezza vaghi, per quinci al Monte salite:Per questa antica, nova ora fatta via!

27. Decembre 1786.

Proponendomi ora (per disimpegnare al fatta Promessa) o di ristabilire, o di ordinare Prosodiaco Sistema nella bellissima Italiana nostra Favella, comprendo assai bene, essermi d’uopo Evidenza di Ragioni, Chiarezza di Metodo, e (per quanto il Soggetto comportare lo possa) Brevità di Discorso, avendo a distruggere radicata Preoccupazione d’abituato Orecchio; e creare Razionale Armonía contro l’Apprensione del Senso! – Come infatti potrò io sostenere la Possibilità d’un Disegno, che tante, e sì poderose Ragioni arguiscono Chimerico? – È egli credibile, che una Lingua, già da quattro Secoli coltivata da eccellenti Ingegni sì studiosamente con pieno accrescimento d’Energía, Copia, Soavità, non avesse acquistato Prosodiaco Metro, se stata ne fosse suscettibile? – Nè questo puossi già dire essere da ciò provenuto, perchè non siansi fatti Tentativi. – Quando nel Novero dei zelanti Sperimentatori veggonsi a spiccare i Nomi illustri d’Annibal Caro, e di Tolomei, fa egli d’uopo di citarne altri? – Non sembra egli Temerità inescusabile pretendere d’effettuare quanto riuscì a que’dotti Personaggi impossibile? – Ma perchè valerci dell’Autorità per provare l’Insussistenza d’una Intrapresa, cui la Natura stessa della Cosa sembra ripugnare? – L’ammettere i vari Piedi nella Versificazione Italiana, dove la maggior Parte delle Sillabe non producono Quantità percettibile alla Pronuncia, non è calcolare senza Unità? determinare senza Modulo? misurare infine senza Misura? – Posto ancora che tale Quantità esista, con quai Regole determinarla? – Se poche, come potranno abbracciare i moltiplici Casi? – Se molte, chi sarà mai tanto ozioso da torsi la briga d’osservarle? – Inoltre chi potrà ancora avere stomaco da rimasticare quel Rancidume di Giambi, Spondei, Dattili, Anapesti, Anfimacri, Anfibrachi, Saffici, Proceleusmatici &c.? – Quanto per lo contrario è più agevole l’Endecasillabo nostro, che posa l’agiato respiro sull’undecima vocale senza l’imbarazzo d’incommodo Scandimento? – Non è la Natura stessa, che accorda l’Armonia del nostro Metro o distinguendo co’moltiplici Accenti le varie Divisioni del Ritmo nel nostro Eroico; o spartendo nel Lirico il composto Endecasillabo ne’suoi differenti parziali Ritmi, siano questi o Trisillabi, o Cinquesillabi, o Settesillabi, o qualunque altro semplice, od aggregato Trinciamento, con le Varietà inoltre d’Arresto, nel Tronco; di Scorrevolezza, nel Verso sdrucciolo? – Quale Compenso poi troveremo noi negli operosi Esametri, o Pentametri, o Giambici, o finalmente Lirici di qualunque Prosodiaco Scandimento, alla Soavità di nostra Rima, onde fioriscono e le nobili Stanze, e graziosi Sonetti, e l’armoniche Strofe, e le schiette Terzine? – Quale . . . . Non più! – Procediamo noi a fissare con chiarezza l’Italo Prosodiaco Sistema! – Le vane Obbiezioni finquì esposte (o se alle suddette altre ancora possonsi aggiungere) o cadranno da loro stesse nello scontro dell’evidente Esposizione; o, se qualcuna rimanga ancora in piedi, difficile non fia dopo (ove arriviamo ad intenderci bene) d’eluderne intieramente la Forza. – Il mio Lettore mi concederà senza contrasto, che ogni Parola (siccome occupa scritta sulla Carta certo Spazio determinato dalla Configurazione de’Caratteri) così pronunciata Suono produce di determinata Misura di Tempo nascente dalle Vibrazioni delle Sillabe proferite. – Ora egli è consecutivo al Dato concesso, che, come lo Spazio scritturale composto viene dai piccoli parziali Spazj d’ogni Lettera, così l’Intervallo Vocale sia un Tutto sonoro, ovvero una Vibrazione continuata, di cui le Vibrazioni d’ogni Sillaba sono le Parti. – Quel Tutto sonoro egli è la Quantità Verbale: la Sonorità parziale d’Ogni Sillaba Quantità appellasi Sillabica. Sia dunque o Greca, o Latina, o Italiana, od anche di qualunque altro Linguaggio la Parola pronunziata sempre delle duplice Quantità suddetta sarà (non v’è dubbio) produttrice. – Ora egli è da osservarsi circa la Comparativa Quantità tanto Sillabica, quanto Verbale, essere assai agevole a concepirsi, che que’Tutti sonori (nella Quantità Verbale), e quelle Sonorità, o Vibrazioni parziali (nella Quantità Sillabica) possano essere duplici gli uni degli altri. – Come ciò avvenisse nella Pronunzia loro, i Greci, e’Latini aveano prestabilite Regole: come ciò avvenir possa nella lor Lingua, difficilmente, per mio avviso, dimostrerebbonlo i Francesi, e gl’Inglesi: come ciò difatti avvenga nella Lingua nostra, egli è l’Oggetto del presente Foglio di stabilirlo. – L’Uso delle Vocali nelle Lingue è di distinguere il Suono della Bocca, ossia la Voce: l’Uso delle Consonanti si prova duplice secondochè o precedono, o seguitano la Vocale. – Nel primo Caso, risonando insieme, esprime la Consonante in Vibrazioni il Suono per se scolante delle Vocali: nel secondo Caso arresta le Vibrazioni dell’antecedente Vocale; ed in sua vece sottentra a riasumere le Vibrazioni della Vocale susseguente. – Questo avviene quando le Consonanti sono Semplici. – Quando sono esse Duplici, e (talor anco non di rado) Triplici, occorrono differenti Casi, i quali, come servir possono all’Intelligenza della seguente Teoria Prosodiaca, debbonsi quì spiegare assai distintamente. – Le Duplici Consonanti o sono Consonanti Geminate, vale a dire due T, due R, due S &c: ed allora, sempre collegate con le intermediarie Sillabe delle Parole, il duplicato Officio loro verso le due Sillabe, cui esse bipartite si prestano, egli è di sospendere il Suono, o le Vibrazioni dell’antecedente, ed eccitare le Vibrazioni della seguente Sillaba in modo doppiamente più sostenuto, e marcato, che quando Semplici le Consonanti sono: come ognuno può notarlo in Petto, Terra, Sesso &c. - Ovvero le Duplici Consonanti sono altra-mente raddoppiate, come RM, ST, NZ &c. – In tal Caso o cominciano la Parola recando ad effettuar la Risonanza, o Vibrazione della Sillaba una cotal Espressione mista d’ammendue, siccome puossi sentire pronunciando Stelo, Smemore, Spirito (il che però non avviene quasi che nell’occasione del S impura): o legate nel mezzo de’Vocaboli con ispartito Effetto chiude l’una la Sillaba, che precede; indi l’altra tosto batte, dirò così, la Sillaba che segue. Il quale doppio Officio consecutivo producendo un percettibile doppio arresto che connettendosi colla Quantità dell’antecedente Vocale, cui immediatamente succede, n’addoppia per sensibil modo il Valore, come Movonsi, Sdraiansi. – Finalmente le Duplici Consonanti, di cui la seconda sia Liquida, cioè o L, o R, o N, (solo però quando G la preceda), ed anco oserei aggiungere C, quando solamente, precedendo S, facciano o con I, o con E Sillaba, (GH, e CH sono nel medesimo Caso) queste sia che Iniziali, od Intermediarie alla Parola siano senza cagionare Arresto alcuno alla Precedente Sillaba, quasi fossero semplici Consonanti, non fanno che vibrare la Vocale seguente col Battimento d’ammendue misto. Atropo, Replica, Regno, Fa-scino, Ascetico, Preghiera, Achille possono servire d’Esempio. – Le Triplici Consonanti non occorrendo nella Lingua nostra in altri Casi, che quanto Consonante con Liquida accada d’essere annessa ad altra Consonante, resta indi chiaro dall’anzidetto, cader elleno sotto la Ragione medesima delle Duplici Consonanti senza Liquida. Antro, Amplo, Inchiostro &c. dimostrano l’Asserzione. – Parlando delle Consonanti Duplici, non ho giudicato dover fare menzione alcuna della Z, e della X, tenute, da tutti i Grammatici delle altre Lingue, doppie di lor propria Natura. La Ragione di questo è, perchè sono io d’avviso, che quanto alla prima Z, siachè cominci, oppur divida la Parola, nella Lingua nostra soltanto equivalga nel Suono ad un semplice S più dolcemente enonziato, solo allora considerandolo Lettera Doppia (in Riguardo delle Quantità) quando per Geminazione lo diventa di fatti, come in Dolcezza. – Quanto poi alla seconda X, ammettendola per Lettera Doppia di proprio Suono in tutti que’pochi Stranieri Vocaboli, ne’quali la nostra Lingua preservolla, come in Xanto, Xerse, in tutti gli altri Casi veggola raddolcita dall’Idioma nostro pur nella semplice S, siccome appare in Esercito, Eser-cizio &c. – Ma per affrettarmi a strigare i Piedi dallo Spinaio di coteste sì minute Ricerche necessarie però a passarsi per riuscire al chiaro del propostocì Soggetto, dee ‘l mio Lettore usar ancor meco la Pazienza d’osservare (quanto alle Vocali) non essere esse in verun’altra Lingua antica, o moderna così distinte, sostenute, sonore, musicali, uniformi (tranne l’U Toscano, e Lombardo; colla necessaria Distinzione dell’O chiuso, e dell’O aperto) e per questo stesso, ciò che quì si cerca, commisurabili: e (quanto alle Consonanti) siano dalle Labbra, o dal Palato, o dal Gorgozzule vibrate danno generalmente nella Lingua nostra alla Pronunzia Nerbo, non Asprezza; ed hanno un comodo, ed uniforme Proferimento, se tu n’eccettui l’H gutturalizzato dei Toscani, che non somministra praticabile Esempio. – Ma veniamo omai a qualche Cosa di più positivo pel Proposito nostro. Nel che io domando al mio Lettore la Permissione (in un Soggetto, che, come Parte dell’Armonía, appartiene alle Matematiche: e nella Necessità, ov’io sono, di costringere molte Cose in brevissimo Spazio; e d’esporle, trattandosi di Nuovo Sistema, colla maggior Precisione) di valermi appunto del succinto Metodo de’Matematici. –

Sistema prosodiaco italianonella pronunzia usitataposta per Base. Definizione I.

Quantità Verbale è la Misura del Tempo nella Pronunciazione usitata d’una Parola.

Definizione II.

Quantità Sillabica è la Misura del Tempo nella Pronunciazione usitata d’una Sillaba.

Scolio I.

Vedi quanto è detto sopra per Chiarezza di queste due Definizioni. – Le Parole composte sono di Sillabe: e le Sillabe o di sole Vocali; o di Vocali, e Consonanti.

Assioma I.

Un Suono, che duri doppio Tempo d’un altro, è duplice di quello.

Definizione III.

La Sillaba Lunga è quella, che nella Pronunciazione usitata dura doppio Tempo più della Breve.

Definizione IV.

La Sillaba Breve è quella, che nella Pronunciazione usitata dura la metà del Tempo meno della Lunga.

Definizione V.

Il Piede prosodiaco è composto di due, o più Sillabe, cioè il Piede Giambo, d’una Lunga, ed una Breve: lo Spondeo, di due Lunghe: il Dattilo, d’una Lunga seguita da due Brevi &c.

Assioma II.

La Quantità o Verbale, o Sillabica non deesi determinare che dalla Pronunzia usitata, o comune, unica Base della Prosodía d’una Lingua.

Assioma III.

Può ognuno a suo Arbitrio parlare o presto, o lento.

Corollario I.

Dunque la Quantità delle Sillabe (Definizione II.); o delle Parole (Definizione I.) purchè non siano Lunghe, o Brevi di Regola (Definizione III. e IV.) sarà Arbitraria in tutte le altre.

Lemma.

In ogni Tempo Perfetto Musicale, che abbia tre sole Note, il Doppio d’Una deve equivalere alla Somma delle altre Due.

Dimostrazione.

Il Tempo Perfetto è composto di quattro uguali Momenti, cioè due Battute, e due Levate. Dunque l’una delle tre Note dee durare (Assioma I:) quanto le altre due

Teorema I.

Propos. – Sonovi nella Lingua Italiana Sillabe Lunghe, e Brevi secondo tutte le Vocali.

Dimostrazione.

Se le seguenti Parole Trisillabe, Amara, Sedere, Ritiri, Onoro, Futuro pronunziate (Assioma II.) nel modo usitato, vengano applicate ad un Tempo Perfetto musicale di tre Note, di cui quella di mezzo equivalga a due, la comune Pronuncia di quelle non troverassi alterata in maniera alcuna (Esperienza fatta; e che ognuno può fare): Dunque le Sillabe medie dei sovradetti Trisillabi, ma, de, ti, no, tu, equivalgono nell’usitata Pronunzia alle due altre Sillabe laterali (Lemma); perciò saranno Lunghe (Definizione III.): e quindi le Laterali loro saranno Brevi (Definizione IV).

Scolio II.

Per infondere maggior Chiarezza al Principio fondamentale, se pronunciando l’uno dei Vocaboli suddetti (come Ritiri) diasi alla prima Sillaba Ri (Assioma III.) il Valore d’un’Oscillazioae (sic.) d’Orologio; ovvero d’un Battimento d’Arteria, vedrassi esser necessario per ritenere l’usitata Pronunzia del Vocabolo (Assioma II.) che alla seconda Sillaba Ti si dia il Valore di due Oscillazioni, o Battimenti d’Arteria. – Quand’anche non si dasse ciò esatto, basta solo a mantenere immobile il Principio, che tal Valore dar si possa esattamente (Assioma III.) senza punto alterare l’usitata Pronunzia.

Teorema II.

Prop. – L’usitata Enonciazione dell’Accento sopra le ultime Vocali dei Polisillabi allunga le Vocali sudette.

Dimostrazione.

Se, troncata l’ultima Sillaba alle parole Amara, Sedere, Ritiri, Onoro, Futuro, vogliasi ritenere l’usitata Pronuncia nelle rimanenti due Sillabe, (Assioma II.) converrà pronunciarle accentate in questa guisa Amà, Sedè, Ritì, Onò, Futù. Ora le suddette Vocali nell’usitata Pronuncia sono lunghe (Teorema I.): quindi l’Enonciazione dell’Accento è Lunga.

Problema I.

Conoscere, se una Sillaba Intermediaria di qualunque Parola (come l’U di Virtude, l’E d’Impero &c.) sia Lunga.

Risoluzione.

Consultisi l’usitata Pronunzia, (Assioma II.): se, troncate le Sillabe posteriori, per ritenere la detta usitata Pronuncia fia d’uopo d’accentare detta Sillaba, essa sarà Lunga (Teorema II).

Corollario II.

Dunque quella Sillaba in ogni Parola, su cui cade l’Accento, tuttochè non segnato, sempre sarà Lunga, come Amàva, Leggèvano, Udìrono, Vocàbolo, Prodìgio, Giudìzio, Pieghèvole, Immòbile &c.

Scolio III.

Nota che havvi Ragione sufficiente per due considerabili Eccezioni alla Regola Generale dell’Accento: la prima è dei Monosillabi accentati: perchè secondo i Grammatici nostri, non servono ad altro gli Accenti sopra essi, che a distinguerli da altri Monosillabi medesimi che portano Senso differente. Tali sono è, e; nè, ne; sì, si &c. i quali per Conseguenza potranno essere di Quantità Arbitraria (Corollario I.). L’altra Eccezione è dei Quattrosillabi (Nomi Sostantivi, od Aggettivi soltanto) come Prodigio, Indizio, Giudizio, Immobile, Indocile, Perpetuo &c: ne’ quali Vocaboli, o Somiglianti gli Autori antichi, che hanno o trattato del, o scritto nel Metro Prosodiaco Italiano (vedi Quadrio, Annibal Caro, Tolomei &c.) fanno quasi sempre breve la seconda Sillaba all’Esempio de’Latini: la quale per Regola di Pronuncia dovrebbe (Corollario II.) esser lunga. Dal che nasce Autorizzamento ad una bella Poetica Licenza nel Sistema novo di fare o lunga, o breve (come torni più a comodo) detta seconda Sillaba in quei Vocaboli: osservandosi, che, ove si faccia breve, segue Alterazione nella Pronuncia del ritrarsi l’Accento sulla prima dei detti Quattrosillabi: la qual Pronunciazione non è senza Esempio nella Lingua nostra, come appare in gìtosene, volàvesene &c.: mentre però il Sito ordinario dell’Italiano Accento è l’ultima, penultima, ed antepenultima Sillaba. – L’uso di questa seconda Licenza così bene fondata troverassi assai esteso, e quasi necessario nella nuova Versificazione.

Teorema III.

Propos. – Cadendo l’Accento sull’Antepenultima (come Oceanìtidi, Amàrono) la Penultima sempre sarà breve.

Dimostrazione.

L’Accento allunga la Sillaba (Teorema II.): ora la Sillaba lunga equivale ad una doppia Nota nel Tempo perfetto (Teorema I.). Dunque la Penultima (medesimo Teorema I.) sempre sarà breve.

Scolio IV.

La Ragione piana di questo è, che l’Arresto dell’Accento sull’Antepenultima producesi meramente a spese della Penultima: la qual Proporzione non potrassi mai alterare senzachè s’alteri la Pronuncia (Assioma II.).

Teorema IV.

Propos. – I Trisillabi accentati sull’Antepenultima, (come Gloria) hanno detta Sillaba ad arbitrio.

Dimostrazione.

Troncata l’Ultima, e Penultima, rimane il Monosillabo Glò (Problema I.): il quale può essere arbitrario (Scolio III.).

Teorema V.

Prop. e Dim. – Due Vocali coalentisi in una Sillaba, (come Orfeo) formano lunga detta Sillaba (Definizione III.).

Teorema VI.

Prop. e Dim. – due Vocali non coalentisi (come Orféo, Aere) seguono le ordinarie Regole primo Caso – (Problema I.) secondo Caso – (Teorema IV. e Corollario I.).

Definizione ultima.

Sistema Prosodiaco è l’Arte di determinare la Quantità d’ogni Sillaba d’una Lingua secondo la usitata sua Pronunzia col mezzo di stabilite Regole, affine di combinare le Sillabe nei varii Piedi, ed i Piedi nei varii Metri.

Teorema ultimo.

Propos. – La Lingua Italiana secondo l’usitate sua Pronunzia ha un vero, e genuino Sistema Prosodiaco.

Dimostrazione.

Tutte le Sillabe in detta Lingua, siano colligate con Consonanti (o Semplici, o Doppie, o Geminate, o Liquide) (vedi il Permesso al Sistema) sono, in Quantità determinabile per certe Regole, o Lunghe (Teorema I., Teorema II., Corollario II.) o Brevi (Teorema I., Teorema III.) od Arbitrarie (Assioma III., Corollario I.): oppure formate siano da Vocali sole, o coalentisi insieme (Teorema V.); o non coalentisi insieme (Teorema VI.) sempre per tal modo possono combinarsi in Piedi (Definizione V.) nella usitata Pronuncia (Assioma II.): Dunque la Lingua Italiana ha un genuino Sistema Prosodiaco (Definizione ultima) nella sua usitata Pronuncia.Altra Dimostrazione diventa oculare nella Tavola seguente: la quale offre epilogate in brevissimo Prospetto tutte le Regole dell’Italiana Prosodia agli Amatori d’una novella Via Parnasia secondo l’Invito d’Annibal Caro nell’Epigrafe citato. – Segue Egli

Sento soavi Lire! – vaghe Pistole! – Trombe sonore!

Odi Clio! – Senti Pane! – Sentile, bella Erato! –

Già già Ninfe sacre gite or tessendo onorati

Cerchi di verdi Rami! – Serti di Fiori vaghi! –

Oh che bella via vi si mostra! – or lieti per essa

Cantando al Sommo gitene, Apollo dice!

TavoladiProsodia Italiana.

Lung. per Cons. a, e, i. o, u Br. per Pos.

Labbio bb Sillaba aba

Sacco cc Sindaca aca

Abdome bd Smillace ace

Templo mpl Pallade &c. ade

Antro &c. ntr

Arbitrarie

Lung. per Voc. a, e, i. o, u

Abraamo a Capo a

Neo e Celo e

Aio i Dico i

Uovo o Movo o

Aura &c. u Duce &c. u

Per Eccettuazione

Lung. per Accento I monosil. è, nè, &c.

Farà à I trisil. gloria &c.

Leggèvano è Muta con liq. Madre &c.

Mefìtico ì Per licenza

Immòbile ò I quattrosill. Indizio &c.

Volùbile ù Simplificando

de-lo, o-presso &c.

Le Doglianze di Medea a Giasone forniranno Esempio dell’Elegiaco Metro: e la Sentimentale Simpatia dell’Intreccio divertirà forse il Lettore dalle stucchevoli grammaticali Sottigliezze.

MEDEA a GIASONE

Epistola.

D’ascoltarmi neghi? – pur io de’Colchi Regina

Te udii plorante Scampo da l’Arte mia! –

Allor, delle Vite dispensatrici Sorelle,

Doveste il nostro stame secare pie!

Ben miei gironi allora poteva finire Medea! –

Quanto indi di Vita trassi fu pena ria.

Perchè (lassa!) mai da Giovani spinto fatale

Tentò Conquista l’Albero Pelìaco?

Perchè Argo audace Colchi approdare vedemmo?

L’Onda o del Fasi bevve lo Stuolo Greco!

Ah! perchè troppo mi piacquero i biondi Capelli! –

Quel Brio! – L’Incanto della Favella tua! –

O (da che nuova Prora alle nostre credettesi Arene

Sbarcando ardita Schiera su nostro Lido)

Smemore Giasone non premunito negli atri

Alit’ ito fosse, dentro bovine Gole:

Sparso avesse i Semi; altrettanti trovato Nemìci

Cultor da Messe subito opresso sua!

Quanta, iniquo, fora Perfidia spentasi teco!

Smossi foran quanti dal mio Capo Mali!

L’Opere ad Ingrato nel rinfacciare è Diletto:

Vo’goderne. – sola Merce, che da te provo! –

Su Prora inesperta spedito in Colchide, i Fini

Tu pur entrasti del mio dolce Regno.

Ivi Medea fui, qual quì tua Druda novella:

Quanto ha quì ricco Padre; tanto ivi ricco m’era.

Questi ‘l bino Lido d’Epiro; là quegli le Piagge

Del Nero perfin dal Scita nevoso frena. –

Mio Padre ad Ospizio la Truppa Pelasga riceve;

Gli Strati dipinti l’Ospite Greco preme.

Ah là te vidi! – te allor là prima conobbi! –

Del mio Precipizio là fu l’Origo prima! –

Perduta ti vidi! – Tal Fiamma entroarsemi ignota,

Quale sugli Altari secca Facella sole! –

Ben ten’accorgesti, sagace! (chi cela l’amore? –

Con subiti indizii Fuoco prorompe fora.)

La Legge intanto propontisi: Bavi feroci

A Giogo insolito giunti domare devi.

Ben altro, che Corna, armava i Tori di Marte! –

Vampa da l’orrende Fauci atra Fiamma viva! –

Bronzo sona il Piede! – Bronzo arma il Ceffo tremendo,

Che nero dagli Aliti fatto sbranando tona! –

Armigeni poscia propontisi spargere Semi:

Morte su gli arati Solchi t’apresta Fato! –

Del Drago Custode le vigilanti Pupille

Poter con Arte spegnere, è l’ultim’Opra! –

Propose Oeta: tutti sorgete temanti:

Tosto da purpurei sparve la Mensa Strati. –

Dove di Creusa or avevi tu ‘l Regno Dotale? –

Dove Creonte era? – Dove l’Erede Sposa? –

Partisti mesto: l’Occhie lagrimando seguitti!

Invia Salute ‘l Cuore ferito teco. –

quando appartato (malsana!) accolsemi Letto,

La Notte in lagrime struggomi quanto dura.

Davanti e gli atroci Tori, e la Messe tremenda,

E ‘l Drago sta vigile delle Pupille mie.

Quando s’ama, temesi: cresce anco temendo l’Amore. –

Insul Mattino vien la Sorella da me.

Con Chiome sparse; sul Volto riversa bocone

Trovami: e di lagrime tutto bagnato vede.

Pe’ Minii intercede – prega; i concedere bramo! –

Quanto Ella esigea, perfido, a te si dava! –

Bosco tetro ombreggia di Pini, e d’Elci ramosi:

U’appena Raggio schizza di Luce Sole.

Tien quivi (ab antiquo) marmoreo Templo Diana:

Aurea Diva dove barbara mano pose. –

Rammenti? – o meco scordasti i Luoghi? – là gimmo:

Tu tale ordisti falsa Favella meco.

“Oh de’giorni miei, del nostro sola Arbitra Fato,

“In te, Donzella, sta mia Morte, o Vita! –

“Perdere tu puoi me: poichè salvare potresti! –

“Gloria salvato tutto divengo tua. –

“Te per i nostri Mali, cui tu Sollievo saresti! –

“Pel (che tutto vede) Nume de l’Avo tuo! –

“Per gli arcani Riti della triforme Diana;

“O, s’altro quivi forse s’adora, Dio! –

“Muovati mio Caso! – de’miei la Sorte ti muova! –

“Schiavo a tal Merto rendimi perpetuo! –

“Che se (ma come mai sperar sì prosperi Numi!)

“Non isdegnassi forse marito Greco;

“Prima lo Spirito mio dileguerebbesi in aura,

“Ch’altra in mio Talamo Sposa venisse mai! –

“Giuno appello (Diva de’Nuziali Arbitra Nodi?):

“E Lei, del sacro Templo ove siamo, Dea!

Tai cose (ma quante più ancora!) me schietta Zitella

Mossero! – la Destra giura a la Destra Fede. –

Non vidi tue lagrime? – può Frode celarsi con esse? –

In tale ah tosto Rete sedotta fui? –

I Tari bronzipedi soggioghi, il Corpo non arso:

E coll’imposto Vomero i Solchi righi! –

In vece di Semi tu spargi i Denti fatali:

Stuol fero con Spade, con Scudi uscendo freme! –

Io, che ‘l Rimedio porgeati, pallida caddi,

Quando i minacciosi scuotere l’arme vidi!

Fin che de’Terrigeni (deplorabile Crime) Fratelli

In se l’Ire truci concita l’Arte mia! –

Ecco Drago vigile irsuto di Squamme stridenti

Fischia: e col torto Ventre la terra rade! –

La Dote ora? – dove stassi or la Sposa Regale? –

O, i due che parte, vantabil Istmo, Mari? –

Quella io, ch’al fine sono or da te barbara detta! –

Povera ora! – tanto or da te creduta rea! –

Forzato Sonno alle fiammanti Pubille

Infusi: e al Ratto quel Velo sgombro feci! –

Tradisco ‘l Padre! – per te schivo Patria! – Regno! –

Girne in qualunque scelgo teco Esilio! –

Preda di straniero vilipendesi ‘l nostro Pudore! –

Te sol (Suora, Madre, tutto lasciando) segno!

Ah no! – pur troppo meco ‘l Germano sedussi! –

In questo solo mente la Lettra mia! –

Quando ardita fece, ah scriver la Destra non osa! –

Così (ma teco) da lacerarsi fui! –

Non ardisco meno (dopo ciò che temere dovetti?)

Fidarni al Mare Donna cotanto rea! –

Ah dove foste Numi! – dovevamo subire tra Flutti

di Frode tu; ed io di Credulitade, pena!

Perchè aggroppati le Simplegadi affogato

Non ci han? – L’ossa mie sfranto co l’ossa tue? –

O perchè esca a Cani non trasseci Scilla rapace? –

Forse mai ingrati Scilla Mariti vora?

Chi vomita i Futti sì spesso, e si spesso risorbe,

Noi pur nell’atro digerirebbe Speco! –

Salvo trionfando le Greche Spiagge rivedi:

Agli Dei patrii l’aureo Velo figi.

che de le Peliadi sol per pietade crudeli

Dirò? e lo Scempio di mano Verginea?

M’incusin gli altri: tu me lodare dovresti,

Per cui sì spesso fecemi Amore rea! –

Or tu osasti (pari non trova Dolore querele!)

Dirmi osasti: esci! – vanne di Casa mia? –

Accorata cedo, due Figli traendomi dietro!

Me pur (qual mai non staccasi) Amore segue!

Ah pur Speme nutro finchè novo Imene l’orecchio

Mi fere; e d’accese Lampadi brilla Face! –

Finchè Flauto sona per voi lietissimi Carmi;

Per me più flebili della lugubre Tuba!

Sospettava! – tale non anco credeva Delitto!

Pur gelido in petto l’Alma tremore scote!

Il Popolo affolla: viva! – viva gli Sposi! ripete:

Quanto più presso, tal grido più mì noce!

Piangono discosti i Servi svolgendo le Luci:

Chi vuol d’un ranto nuova recarmi male? –

Me ancor (checche fora) tutto ignorare spediva:

Pur quasi presaga l’Alma gemendo pave!

Di veder vago quando ‘l Fanciullo minore

Corre de la Porta sul limitare primo. –

Quà (dice) Madre vola! – Giason Padre, Pompa menando,

Da Cocchio aurato sferza Cavalli feri! –

Tosto mi percoto il Petto stracciando la Veste! –

Dall’unghie salva non è la Gota mia! –

Impeto consiglia di fendere irata le Turbe:

Strapparti ‘l Serto dal profumato Crine!

Sforzaimi appena dal non (sì sparsa le Chiome)

Afferrando dire: questi è Marito mio! –

Gioisci, o Padre! – Colchi gioite lasciati! –

Di tua Vendetta Ombra fraterna godi! –

Me schifa (perduti la Patria, il Regno, la Casa)

Ah me lo Sposo schifa, che solo Tutto m’era! –

Dunque ho Serpenti, ho Tori feroci potuto:

Non posso (misera!) rendere un uomo mite!

Io, che feci vani coll’Arte i Fuochi fatali,

Le proprie Fiamme spegnere non vaglio!

Incanti, Erbe, Arti, tutto perfin mi tradisce!

Nulla Ecate! – nulla d’Ecate i Riti sono!

Odio la Luce! – d’amarezza mi struggo le Notti! –

Del Cuor le Smanie niuno Sopore seda!

me (lassa!) non posso: potuto ho ‘l Drago sopire! –

Utile ad ognuno; per me mia Arte è vana!

Le da me serbate la Druda godesi, Membra:

E ‘l frutto inghiotte quella de l’Opra mia!

Forse, alla stolta vantarti volendo, procuri

D’ingrati ‘l Senso solleticare Sali!

Tu mio Volto! – i Modi motteggi! – ed ella ridendo

De’Difetti miei (oh sdegno!) lieta gode! –

Ma godasi: e’n Trono maestosa si segga ne l’Ostro! –

Ah fia che Fuoco più violento provi!

Mentre sarà Ferro, o Fiamma, o mortale Veleno,

Quale di Medea fia che Nemico rida! –

Se per sorte prego tuo Cuor ferrigno movesse,

Deh smemori ascolta Detti de l’Arte mia!

Supplice ti sono or, qual supplice spoesso mi fosti:

Piangere prostesa vedimi a Piedi tuoi! –

Etti la Madre vile? – risguarda la Prole comune! –

Fia che prma i Figli fiera madrigna miei?

Simili a te troppo! – troppo lor Imago mi muove! –

Mentre li remiro (ah!) pianto le Gote riga! –

Te per i Numi prego! – pei Raggi di Febo parente! –

Per gli Oblighi, e i Figli (Pegni d’Amore!) due!

Rendimi quel Talamo, a prezzo comprato sì caro! –

Serba i Detti! – pare prestami servigio!

Non io te imploro contro Tori, o Gente feroce:

Nè perchè Drago per te sopito sia. –

Chieggo Te, Merce mia! – Te, cui tu donasti a me sola! –

Con cui vero Padre vera divenni Madre!

Chiedi tu la Dote? – su quel numeraitela Campo,

Che ‘l Velo a produrre fendere doveasi! –

Quel Monton fu Dote, per aurea Lana famoso!

La qual s’i’dico, rendimi: certo neghi.

Tu mia salvo Dote: mia Dote la Greca Coorte! –

Di Sisifo, ingrato, or vanta l’Erede meco!

Ma dì! – s’anco vivi! s’hai Sposa! s’hai Socero grande!

Infin quanto sei, perfido, non mi devi?

I quai s’anco spiro! . . . ma che val gittare Minacce? –

Nel petto acceso gran mali l’Ira cova! –

Sdegno mi strascina! – seguirà Rimorso l’Evento:

Già, per un ingrato quanto adoprai, mi pesa!

Pensici (questo Seno qual m’agita) Nume furente! –

Non so a qual fiero scuotemi Prodigio!

Num. 28 1786 N.o 28. O d’Altezza vaghi, per quinci al Monte salite:Per questa antica, nova ora fatta via! 27. Decembre 1786. Proponendomi ora (per disimpegnare al fatta Promessa) o di ristabilire, o di ordinare Prosodiaco Sistema nella bellissima Italiana nostra Favella, comprendo assai bene, essermi d’uopo Evidenza di Ragioni, Chiarezza di Metodo, e (per quanto il Soggetto comportare lo possa) Brevità di Discorso, avendo a distruggere radicata Preoccupazione d’abituato Orecchio; e creare Razionale Armonía contro l’Apprensione del Senso! – Come infatti potrò io sostenere la Possibilità d’un Disegno, che tante, e sì poderose Ragioni arguiscono Chimerico? – È egli credibile, che una Lingua, già da quattro Secoli coltivata da eccellenti Ingegni sì studiosamente con pieno accrescimento d’Energía, Copia, Soavità, non avesse acquistato Prosodiaco Metro, se stata ne fosse suscettibile? – Nè questo puossi già dire essere da ciò provenuto, perchè non siansi fatti Tentativi. – Quando nel Novero dei zelanti Sperimentatori veggonsi a spiccare i Nomi illustri d’Annibal Caro~i, e di Tolomei~i, fa egli d’uopo di citarne altri? – Non sembra egli Temerità inescusabile pretendere d’effettuare quanto riuscì a que’dotti Personaggi impossibile? – Ma perchè valerci dell’Autorità per provare l’Insussistenza d’una Intrapresa, cui la Natura stessa della Cosa sembra ripugnare? – L’ammettere i vari Piedi nella Versificazione Italiana, dove la maggior Parte delle Sillabe non producono Quantità percettibile alla Pronuncia, non è calcolare senza Unità? determinare senza Modulo? misurare infine senza Misura? – Posto ancora che tale Quantità esista, con quai Regole determinarla? – Se poche, come potranno abbracciare i moltiplici Casi? – Se molte, chi sarà mai tanto ozioso da torsi la briga d’osservarle? – Inoltre chi potrà ancora avere stomaco da rimasticare quel Rancidume di Giambi, Spondei, Dattili, Anapesti, Anfimacri, Anfibrachi, Saffici, Proceleusmatici &c.? – Quanto per lo contrario è più agevole l’Endecasillabo nostro, che posa l’agiato respiro sull’undecima vocale senza l’imbarazzo d’incommodo Scandimento? – Non è la Natura stessa, che accorda l’Armonia del nostro Metro o distinguendo co’moltiplici Accenti le varie Divisioni del Ritmo nel nostro Eroico; o spartendo nel Lirico il composto Endecasillabo ne’suoi differenti parziali Ritmi, siano questi o Trisillabi, o Cinquesillabi, o Settesillabi, o qualunque altro semplice, od aggregato Trinciamento, con le Varietà inoltre d’Arresto, nel Tronco; di Scorrevolezza, nel Verso sdrucciolo? – Quale Compenso poi troveremo noi negli operosi Esametri, o Pentametri, o Giambici, o finalmente Lirici di qualunque Prosodiaco Scandimento, alla Soavità di nostra Rima, onde fioriscono e le nobili Stanze, e graziosi Sonetti, e l’armoniche Strofe, e le schiette Terzine? – Quale . . . . Non più! – Procediamo noi a fissare con chiarezza l’Italo Prosodiaco Sistema! – Le vane Obbiezioni finquì esposte (o se alle suddette altre ancora possonsi aggiungere) o cadranno da loro stesse nello scontro dell’evidente Esposizione; o, se qualcuna rimanga ancora in piedi, difficile non fia dopo (ove arriviamo ad intenderci bene) d’eluderne intieramente la Forza. – Il mio Lettore mi concederà senza contrasto, che ogni Parola (siccome occupa scritta sulla Carta certo Spazio determinato dalla Configurazione de’Caratteri) così pronunciata Suono produce di determinata Misura di Tempo nascente dalle Vibrazioni delle Sillabe proferite. – Ora egli è consecutivo al Dato concesso, che, come lo Spazio scritturale composto viene dai piccoli parziali Spazj d’ogni Lettera, così l’Intervallo Vocale sia un Tutto sonoro, ovvero una Vibrazione continuata, di cui le Vibrazioni d’ogni Sillaba sono le Parti. – Quel Tutto sonoro egli è la Quantità Verbale: la Sonorità parziale d’Ogni Sillaba Quantità appellasi Sillabica. Sia dunque o Greca, o Latina, o Italiana, od anche di qualunque altro Linguaggio la Parola pronunziata sempre delle duplice Quantità suddetta sarà (non v’è dubbio) produttrice. – Ora egli è da osservarsi circa la Comparativa Quantità tanto Sillabica, quanto Verbale, essere assai agevole a concepirsi, che que’Tutti sonori (nella Quantità Verbale), e quelle Sonorità, o Vibrazioni parziali (nella Quantità Sillabica) possano essere duplici gli uni degli altri. – Come ciò avvenisse nella Pronunzia loro, i Greci, e’Latini aveano prestabilite Regole: come ciò avvenir possa nella lor Lingua, difficilmente, per mio avviso, dimostrerebbonlo i Francesi, e gl’Inglesi: come ciò difatti avvenga nella Lingua nostra, egli è l’Oggetto del presente Foglio di stabilirlo. – L’Uso delle Vocali nelle Lingue è di distinguere il Suono della Bocca, ossia la Voce: l’Uso delle Consonanti si prova duplice secondochè o precedono, o seguitano la Vocale. – Nel primo Caso, risonando insieme, esprime la Consonante in Vibrazioni il Suono per se scolante delle Vocali: nel secondo Caso arresta le Vibrazioni dell’antecedente Vocale; ed in sua vece sottentra a riasumere le Vibrazioni della Vocale susseguente. – Questo avviene quando le Consonanti sono Semplici. – Quando sono esse Duplici, e (talor anco non di rado) Triplici, occorrono differenti Casi, i quali, come servir possono all’Intelligenza della seguente Teoria Prosodiaca, debbonsi quì spiegare assai distintamente. – Le Duplici Consonanti o sono Consonanti Geminate, vale a dire due T, due R, due S &c: ed allora, sempre collegate con le intermediarie Sillabe delle Parole, il duplicato Officio loro verso le due Sillabe, cui esse bipartite si prestano, egli è di sospendere il Suono, o le Vibrazioni dell’antecedente, ed eccitare le Vibrazioni della seguente Sillaba in modo doppiamente più sostenuto, e marcato, che quando Semplici le Consonanti sono: come ognuno può notarlo in Petto, Terra, Sesso &c. - Ovvero le Duplici Consonanti sono altra-mente raddoppiate, come RM, ST, NZ &c. – In tal Caso o cominciano la Parola recando ad effettuar la Risonanza, o Vibrazione della Sillaba una cotal Espressione mista d’ammendue, siccome puossi sentire pronunciando Stelo, Smemore, Spirito (il che però non avviene quasi che nell’occasione del S impura): o legate nel mezzo de’Vocaboli con ispartito Effetto chiude l’una la Sillaba, che precede; indi l’altra tosto batte, dirò così, la Sillaba che segue. Il quale doppio Officio consecutivo producendo un percettibile doppio arresto che connettendosi colla Quantità dell’antecedente Vocale, cui immediatamente succede, n’addoppia per sensibil modo il Valore, come Movonsi, Sdraiansi. – Finalmente le Duplici Consonanti, di cui la seconda sia Liquida, cioè o L, o R, o N, (solo però quando G la preceda), ed anco oserei aggiungere C, quando solamente, precedendo S, facciano o con I, o con E Sillaba, (GH, e CH sono nel medesimo Caso) queste sia che Iniziali, od Intermediarie alla Parola siano senza cagionare Arresto alcuno alla Precedente Sillaba, quasi fossero semplici Consonanti, non fanno che vibrare la Vocale seguente col Battimento d’ammendue misto. Atropo, Replica, Regno, Fa-scino, Ascetico, Preghiera, Achille possono servire d’Esempio. – Le Triplici Consonanti non occorrendo nella Lingua nostra in altri Casi, che quanto Consonante con Liquida accada d’essere annessa ad altra Consonante, resta indi chiaro dall’anzidetto, cader elleno sotto la Ragione medesima delle Duplici Consonanti senza Liquida. Antro, Amplo, Inchiostro &c. dimostrano l’Asserzione. – Parlando delle Consonanti Duplici, non ho giudicato dover fare menzione alcuna della Z, e della X, tenute, da tutti i Grammatici delle altre Lingue, doppie di lor propria Natura. La Ragione di questo è, perchè sono io d’avviso, che quanto alla prima Z, siachè cominci, oppur divida la Parola, nella Lingua nostra soltanto equivalga nel Suono ad un semplice S più dolcemente enonziato, solo allora considerandolo Lettera Doppia (in Riguardo delle Quantità) quando per Geminazione lo diventa di fatti, come in Dolcezza. – Quanto poi alla seconda X, ammettendola per Lettera Doppia di proprio Suono in tutti que’pochi Stranieri Vocaboli, ne’quali la nostra Lingua preservolla, come in Xanto, Xerse, in tutti gli altri Casi veggola raddolcita dall’Idioma nostro pur nella semplice S, siccome appare in Esercito, Eser-cizio &c. – Ma per affrettarmi a strigare i Piedi dallo Spinaio di coteste sì minute Ricerche necessarie però a passarsi per riuscire al chiaro del propostocì Soggetto, dee ‘l mio Lettore usar ancor meco la Pazienza d’osservare (quanto alle Vocali) non essere esse in verun’altra Lingua antica, o moderna così distinte, sostenute, sonore, musicali, uniformi (tranne l’U Toscano, e Lombardo; colla necessaria Distinzione dell’O chiuso, e dell’O aperto) e per questo stesso, ciò che quì si cerca, commisurabili: e (quanto alle Consonanti) siano dalle Labbra, o dal Palato, o dal Gorgozzule vibrate danno generalmente nella Lingua nostra alla Pronunzia Nerbo, non Asprezza; ed hanno un comodo, ed uniforme Proferimento, se tu n’eccettui l’H gutturalizzato dei Toscani, che non somministra praticabile Esempio. – Ma veniamo omai a qualche Cosa di più positivo pel Proposito nostro. Nel che io domando al mio Lettore la Permissione (in un Soggetto, che, come Parte dell’Armonía, appartiene alle Matematiche: e nella Necessità, ov’io sono, di costringere molte Cose in brevissimo Spazio; e d’esporle, trattandosi di Nuovo Sistema, colla maggior Precisione) di valermi appunto del succinto Metodo de’Matematici. – Sistema prosodiaco italianonella pronunzia usitataposta per Base. Definizione I. Quantità Verbale è la Misura del Tempo nella Pronunciazione usitata d’una Parola. Definizione II. Quantità Sillabica è la Misura del Tempo nella Pronunciazione usitata d’una Sillaba. Scolio I. Vedi quanto è detto sopra per Chiarezza di queste due Definizioni. – Le Parole composte sono di Sillabe: e le Sillabe o di sole Vocali; o di Vocali, e Consonanti. Assioma I. Un Suono, che duri doppio Tempo d’un altro, è duplice di quello. Definizione III. La Sillaba Lunga è quella, che nella Pronunciazione usitata dura doppio Tempo più della Breve. Definizione IV. La Sillaba Breve è quella, che nella Pronunciazione usitata dura la metà del Tempo meno della Lunga. Definizione V. Il Piede prosodiaco è composto di due, o più Sillabe, cioè il Piede Giambo, d’una Lunga, ed una Breve: lo Spondeo, di due Lunghe: il Dattilo, d’una Lunga seguita da due Brevi &c. Assioma II. La Quantità o Verbale, o Sillabica non deesi determinare che dalla Pronunzia usitata, o comune, unica Base della Prosodía d’una Lingua. Assioma III. Può ognuno a suo Arbitrio parlare o presto, o lento. Corollario I. Dunque la Quantità delle Sillabe (Definizione II.); o delle Parole (Definizione I.) purchè non siano Lunghe, o Brevi di Regola (Definizione III. e IV.) sarà Arbitraria in tutte le altre. Lemma. In ogni Tempo Perfetto Musicale, che abbia tre sole Note, il Doppio d’Una deve equivalere alla Somma delle altre Due. Dimostrazione. Il Tempo Perfetto è composto di quattro uguali Momenti, cioè due Battute, e due Levate. Dunque l’una delle tre Note dee durare (Assioma I:) quanto le altre due Teorema I. Propos. – Sonovi nella Lingua Italiana Sillabe Lunghe, e Brevi secondo tutte le Vocali. Dimostrazione. Se le seguenti Parole Trisillabe, Amara, Sedere, Ritiri, Onoro, Futuro pronunziate (Assioma II.) nel modo usitato, vengano applicate ad un Tempo Perfetto musicale di tre Note, di cui quella di mezzo equivalga a due, la comune Pronuncia di quelle non troverassi alterata in maniera alcuna (Esperienza fatta; e che ognuno può fare): Dunque le Sillabe medie dei sovradetti Trisillabi, ma, de, ti, no, tu, equivalgono nell’usitata Pronunzia alle due altre Sillabe laterali (Lemma); perciò saranno Lunghe (Definizione III.): e quindi le Laterali loro saranno Brevi (Definizione IV). Scolio II. Per infondere maggior Chiarezza al Principio fondamentale, se pronunciando l’uno dei Vocaboli suddetti (come Ritiri) diasi alla prima Sillaba Ri (Assioma III.) il Valore d’un’Oscillazioae (sic.) d’Orologio; ovvero d’un Battimento d’Arteria, vedrassi esser necessario per ritenere l’usitata Pronunzia del Vocabolo (Assioma II.) che alla seconda Sillaba Ti si dia il Valore di due Oscillazioni, o Battimenti d’Arteria. – Quand’anche non si dasse ciò esatto, basta solo a mantenere immobile il Principio, che tal Valore dar si possa esattamente (Assioma III.) senza punto alterare l’usitata Pronunzia. Teorema II. Prop. – L’usitata Enonciazione dell’Accento sopra le ultime Vocali dei Polisillabi allunga le Vocali sudette. Dimostrazione. Se, troncata l’ultima Sillaba alle parole Amara, Sedere, Ritiri, Onoro, Futuro, vogliasi ritenere l’usitata Pronuncia nelle rimanenti due Sillabe, (Assioma II.) converrà pronunciarle accentate in questa guisa Amà, Sedè, Ritì, Onò, Futù. Ora le suddette Vocali nell’usitata Pronuncia sono lunghe (Teorema I.): quindi l’Enonciazione dell’Accento è Lunga. Problema I. Conoscere, se una Sillaba Intermediaria di qualunque Parola (come l’U di Virtude, l’E d’Impero &c.) sia Lunga. Risoluzione. Consultisi l’usitata Pronunzia, (Assioma II.): se, troncate le Sillabe posteriori, per ritenere la detta usitata Pronuncia fia d’uopo d’accentare detta Sillaba, essa sarà Lunga (Teorema II). Corollario II. Dunque quella Sillaba in ogni Parola, su cui cade l’Accento, tuttochè non segnato, sempre sarà Lunga, come Amàva, Leggèvano, Udìrono, Vocàbolo, Prodìgio, Giudìzio, Pieghèvole, Immòbile &c. Scolio III. Nota che havvi Ragione sufficiente per due considerabili Eccezioni alla Regola Generale dell’Accento: la prima è dei Monosillabi accentati: perchè secondo i Grammatici nostri, non servono ad altro gli Accenti sopra essi, che a distinguerli da altri Monosillabi medesimi che portano Senso differente. Tali sono è, e; nè, ne; sì, si &c. i quali per Conseguenza potranno essere di Quantità Arbitraria (Corollario I.). L’altra Eccezione è dei Quattrosillabi (Nomi Sostantivi, od Aggettivi soltanto) come Prodigio, Indizio, Giudizio, Immobile, Indocile, Perpetuo &c: ne’ quali Vocaboli, o Somiglianti gli Autori antichi, che hanno o trattato del, o scritto nel Metro Prosodiaco Italiano (vedi Quadrio, Annibal Caro, Tolomei &c.) fanno quasi sempre breve la seconda Sillaba all’Esempio de’Latini: la quale per Regola di Pronuncia dovrebbe (Corollario II.) esser lunga. Dal che nasce Autorizzamento ad una bella Poetica Licenza nel Sistema novo di fare o lunga, o breve (come torni più a comodo) detta seconda Sillaba in quei Vocaboli: osservandosi, che, ove si faccia breve, segue Alterazione nella Pronuncia del ritrarsi l’Accento sulla prima dei detti Quattrosillabi: la qual Pronunciazione non è senza Esempio nella Lingua nostra, come appare in gìtosene, volàvesene &c.: mentre però il Sito ordinario dell’Italiano Accento è l’ultima, penultima, ed antepenultima Sillaba. – L’uso di questa seconda Licenza così bene fondata troverassi assai esteso, e quasi necessario nella nuova Versificazione. Teorema III. Propos. – Cadendo l’Accento sull’Antepenultima (come Oceanìtidi, Amàrono) la Penultima sempre sarà breve. Dimostrazione. L’Accento allunga la Sillaba (Teorema II.): ora la Sillaba lunga equivale ad una doppia Nota nel Tempo perfetto (Teorema I.). Dunque la Penultima (medesimo Teorema I.) sempre sarà breve. Scolio IV. La Ragione piana di questo è, che l’Arresto dell’Accento sull’Antepenultima producesi meramente a spese della Penultima: la qual Proporzione non potrassi mai alterare senzachè s’alteri la Pronuncia (Assioma II.). Teorema IV. Propos. – I Trisillabi accentati sull’Antepenultima, (come Gloria) hanno detta Sillaba ad arbitrio. Dimostrazione. Troncata l’Ultima, e Penultima, rimane il Monosillabo Glò (Problema I.): il quale può essere arbitrario (Scolio III.). Teorema V. Prop. e Dim. – Due Vocali coalentisi in una Sillaba, (come Orfeo) formano lunga detta Sillaba (Definizione III.). Teorema VI. Prop. e Dim. – due Vocali non coalentisi (come Orféo, Aere) seguono le ordinarie Regole primo Caso – (Problema I.) secondo Caso – (Teorema IV. e Corollario I.). Definizione ultima. Sistema Prosodiaco è l’Arte di determinare la Quantità d’ogni Sillaba d’una Lingua secondo la usitata sua Pronunzia col mezzo di stabilite Regole, affine di combinare le Sillabe nei varii Piedi, ed i Piedi nei varii Metri. Teorema ultimo. Propos. – La Lingua Italiana secondo l’usitate sua Pronunzia ha un vero, e genuino Sistema Prosodiaco. Dimostrazione. Tutte le Sillabe in detta Lingua, siano colligate con Consonanti (o Semplici, o Doppie, o Geminate, o Liquide) (vedi il Permesso al Sistema) sono, in Quantità determinabile per certe Regole, o Lunghe (Teorema I., Teorema II., Corollario II.) o Brevi (Teorema I., Teorema III.) od Arbitrarie (Assioma III., Corollario I.): oppure formate siano da Vocali sole, o coalentisi insieme (Teorema V.); o non coalentisi insieme (Teorema VI.) sempre per tal modo possono combinarsi in Piedi (Definizione V.) nella usitata Pronuncia (Assioma II.): Dunque la Lingua Italiana ha un genuino Sistema Prosodiaco (Definizione ultima) nella sua usitata Pronuncia. – Altra Dimostrazione diventa oculare nella Tavola seguente: la quale offre epilogate in brevissimo Prospetto tutte le Regole dell’Italiana Prosodia agli Amatori d’una novella Via Parnasia secondo l’Invito d’Annibal Caro nell’Epigrafe citato. – Segue Egli Sento soavi Lire! – vaghe Pistole! – Trombe sonore! Odi Clio! – Senti Pane! – Sentile, bella Erato! – Già già Ninfe sacre gite or tessendo onorati Cerchi di verdi Rami! – Serti di Fiori vaghi! – Oh che bella via vi si mostra! – or lieti per essa Cantando al Sommo gitene, Apollo dice! TavoladiProsodia Italiana. Lung. per Cons. a, e, i. o, u Br. per Pos. Labbio bb Sillaba aba Sacco cc Sindaca aca Abdome bd Smillace ace Templo mpl Pallade &c. ade Antro &c. ntr Arbitrarie Lung. per Voc. a, e, i. o, u Abraamo a Capo a Neo e Celo e Aio i Dico i Uovo o Movo o Aura &c. u Duce &c. u Per Eccettuazione Lung. per Accento I monosil. è, nè, &c. Farà à I trisil. gloria &c. Leggèvano è Muta con liq. Madre &c. Mefìtico ì Per licenza Immòbile ò I quattrosill. Indizio &c. Volùbile ù Simplificando de-lo, o-presso &c. Le Doglianze di Medea a Giasone forniranno Esempio dell’Elegiaco Metro: e la Sentimentale Simpatia dell’Intreccio divertirà forse il Lettore dalle stucchevoli grammaticali Sottigliezze. MEDEA a GIASONE Epistola. D’ascoltarmi neghi? – pur io de’Colchi Regina Te udii plorante Scampo da l’Arte mia! – Allor, delle Vite dispensatrici Sorelle, Doveste il nostro stame secare pie! Ben miei gironi allora poteva finire Medea~i! – Quanto indi di Vita trassi fu pena ria. Perchè (lassa!) mai da Giovani spinto fatale Tentò Conquista l’Albero Pelìaco? Perchè Argo audace Colchi approdare vedemmo? L’Onda o del Fasi bevve lo Stuolo Greco! Ah! perchè troppo mi piacquero i biondi Capelli! – Quel Brio! – L’Incanto della Favella tua! – O (da che nuova Prora alle nostre credettesi Arene Sbarcando ardita Schiera su nostro Lido) Smemore Giasone non premunito negli atri Alit’ ito fosse, dentro bovine Gole: Sparso avesse i Semi; altrettanti trovato Nemìci Cultor da Messe subito opresso sua! Quanta, iniquo, fora Perfidia spentasi teco! Smossi foran quanti dal mio Capo Mali! L’Opere ad Ingrato nel rinfacciare è Diletto: Vo’goderne. – sola Merce, che da te provo! – Su Prora inesperta spedito in Colchide, i Fini Tu pur entrasti del mio dolce Regno. Ivi Medea~i fui, qual quì tua Druda novella: Quanto ha quì ricco Padre; tanto ivi ricco m’era. Questi ‘l bino Lido d’Epiro; là quegli le Piagge Del Nero perfin dal Scita nevoso frena. – Mio Padre ad Ospizio la Truppa Pelasga riceve; Gli Strati dipinti l’Ospite Greco preme. Ah là te vidi! – te allor là prima conobbi! – Del mio Precipizio là fu l’Origo prima! – Perduta ti vidi! – Tal Fiamma entroarsemi ignota, Quale sugli Altari secca Facella sole! – Ben ten’accorgesti, sagace! (chi cela l’amore? – Con subiti indizii Fuoco prorompe fora.) La Legge intanto propontisi: Bavi feroci A Giogo insolito giunti domare devi. Ben altro, che Corna, armava i Tori di Marte~i! – Vampa da l’orrende Fauci atra Fiamma viva! – Bronzo sona il Piede! – Bronzo arma il Ceffo tremendo, Che nero dagli Aliti fatto sbranando tona! – Armigeni poscia propontisi spargere Semi: Morte su gli arati Solchi t’apresta Fato! – Del Drago Custode le vigilanti Pupille Poter con Arte spegnere, è l’ultim’Opra! – Propose Oeta: tutti sorgete temanti: Tosto da purpurei sparve la Mensa Strati. – Dove di Creusa or avevi tu ‘l Regno Dotale? – Dove Creonte~i era? – Dove l’Erede Sposa? – Partisti mesto: l’Occhie lagrimando seguitti! Invia Salute ‘l Cuore ferito teco. – quando appartato (malsana!) accolsemi Letto, La Notte in lagrime struggomi quanto dura. Davanti e gli atroci Tori, e la Messe tremenda, E ‘l Drago sta vigile delle Pupille mie. Quando s’ama, temesi: cresce anco temendo l’Amore. – Insul Mattino vien la Sorella da me. Con Chiome sparse; sul Volto riversa bocone Trovami: e di lagrime tutto bagnato vede. Pe’ Minii intercede – prega; i concedere bramo! – Quanto Ella esigea, perfido, a te si dava! – Bosco tetro ombreggia di Pini, e d’Elci ramosi: U’appena Raggio schizza di Luce Sole. Tien quivi (ab antiquo) marmoreo Templo Diana: Aurea Diva dove barbara mano pose. – Rammenti? – o meco scordasti i Luoghi? – là gimmo: Tu tale ordisti falsa Favella meco. “Oh de’giorni miei, del nostro sola Arbitra Fato, “In te, Donzella, sta mia Morte, o Vita! – “Perdere tu puoi me: poichè salvare potresti! – “Gloria salvato tutto divengo tua. – “Te per i nostri Mali, cui tu Sollievo saresti! – “Pel (che tutto vede) Nume de l’Avo tuo! – “Per gli arcani Riti della triforme Diana; “O, s’altro quivi forse s’adora, Dio! – “Muovati mio Caso! – de’miei la Sorte ti muova! – “Schiavo a tal Merto rendimi perpetuo! – “Che se (ma come mai sperar sì prosperi Numi!) “Non isdegnassi forse marito Greco; “Prima lo Spirito mio dileguerebbesi in aura, “Ch’altra in mio Talamo Sposa venisse mai! – “Giuno appello (Diva de’Nuziali Arbitra Nodi?): “E Lei, del sacro Templo ove siamo, Dea! Tai cose (ma quante più ancora!) me schietta Zitella Mossero! – la Destra giura a la Destra Fede. – Non vidi tue lagrime? – può Frode celarsi con esse? – In tale ah tosto Rete sedotta fui? – I Tari bronzipedi soggioghi, il Corpo non arso: E coll’imposto Vomero i Solchi righi! – In vece di Semi tu spargi i Denti fatali: Stuol fero con Spade, con Scudi uscendo freme! – Io, che ‘l Rimedio porgeati, pallida caddi, Quando i minacciosi scuotere l’arme vidi! Fin che de’Terrigeni (deplorabile Crime) Fratelli In se l’Ire truci concita l’Arte mia! – Ecco Drago vigile irsuto di Squamme stridenti Fischia: e col torto Ventre la terra rade! – La Dote ora? – dove stassi or la Sposa Regale? – O, i due che parte, vantabil Istmo, Mari? – Quella io, ch’al fine sono or da te barbara detta! – Povera ora! – tanto or da te creduta rea! – Forzato Sonno alle fiammanti Pubille Infusi: e al Ratto quel Velo sgombro feci! – Tradisco ‘l Padre! – per te schivo Patria! – Regno! – Girne in qualunque scelgo teco Esilio! – Preda di straniero vilipendesi ‘l nostro Pudore! – Te sol (Suora, Madre, tutto lasciando) segno! Ah no! – pur troppo meco ‘l Germano sedussi! – In questo solo mente la Lettra mia! – Quando ardita fece, ah scriver la Destra non osa! – Così (ma teco) da lacerarsi fui! – Non ardisco meno (dopo ciò che temere dovetti?) Fidarni al Mare Donna cotanto rea! – Ah dove foste Numi! – dovevamo subire tra Flutti di Frode tu; ed io di Credulitade, pena! Perchè aggroppati le Simplegadi affogato Non ci han? – L’ossa mie sfranto co l’ossa tue? – O perchè esca a Cani non trasseci Scilla rapace? – Forse mai ingrati Scilla Mariti vora? Chi vomita i Futti sì spesso, e si spesso risorbe, Noi pur nell’atro digerirebbe Speco! – Salvo trionfando le Greche Spiagge rivedi: Agli Dei patrii l’aureo Velo figi. che de le Peliadi sol per pietade crudeli Dirò? e lo Scempio di mano Verginea? M’incusin gli altri: tu me lodare dovresti, Per cui sì spesso fecemi Amore rea! – Or tu osasti (pari non trova Dolore querele!) Dirmi osasti: esci! – vanne di Casa mia? – Accorata cedo, due Figli traendomi dietro! Me pur (qual mai non staccasi) Amore segue! Ah pur Speme nutro finchè novo Imene l’orecchio Mi fere; e d’accese Lampadi brilla Face! – Finchè Flauto sona per voi lietissimi Carmi; Per me più flebili della lugubre Tuba! Sospettava! – tale non anco credeva Delitto! Pur gelido in petto l’Alma tremore scote! Il Popolo affolla: viva! – viva gli Sposi! ripete: Quanto più presso, tal grido più mì noce! Piangono discosti i Servi svolgendo le Luci: Chi vuol d’un ranto nuova recarmi male? – Me ancor (checche fora) tutto ignorare spediva: Pur quasi presaga l’Alma gemendo pave! Di veder vago quando ‘l Fanciullo minore Corre de la Porta sul limitare primo. – Quà (dice) Madre vola! – Giason Padre, Pompa menando, Da Cocchio aurato sferza Cavalli feri! – Tosto mi percoto il Petto stracciando la Veste! – Dall’unghie salva non è la Gota mia! – Impeto consiglia di fendere irata le Turbe: Strapparti ‘l Serto dal profumato Crine! Sforzaimi appena dal non (sì sparsa le Chiome) Afferrando dire: questi è Marito mio! – Gioisci, o Padre! – Colchi gioite lasciati! – Di tua Vendetta Ombra fraterna godi! – Me schifa (perduti la Patria, il Regno, la Casa) Ah me lo Sposo schifa, che solo Tutto m’era! – Dunque ho Serpenti, ho Tori feroci potuto: Non posso (misera!) rendere un uomo mite! Io, che feci vani coll’Arte i Fuochi fatali, Le proprie Fiamme spegnere non vaglio! Incanti, Erbe, Arti, tutto perfin mi tradisce! Nulla Ecate! – nulla d’Ecate i Riti sono! Odio la Luce! – d’amarezza mi struggo le Notti! – Del Cuor le Smanie niuno Sopore seda! me (lassa!) non posso: potuto ho ‘l Drago sopire! – Utile ad ognuno; per me mia Arte è vana! Le da me serbate la Druda godesi, Membra: E ‘l frutto inghiotte quella de l’Opra mia! Forse, alla stolta vantarti volendo, procuri D’ingrati ‘l Senso solleticare Sali! Tu mio Volto! – i Modi motteggi! – ed ella ridendo De’Difetti miei (oh sdegno!) lieta gode! – Ma godasi: e’n Trono maestosa si segga ne l’Ostro! – Ah fia che Fuoco più violento provi! Mentre sarà Ferro, o Fiamma, o mortale Veleno, Quale di Medea fia che Nemico rida! – Se per sorte prego tuo Cuor ferrigno movesse, Deh smemori ascolta Detti de l’Arte mia! Supplice ti sono or, qual supplice spoesso mi fosti: Piangere prostesa vedimi a Piedi tuoi! – Etti la Madre vile? – risguarda la Prole comune! – Fia che prma i Figli fiera madrigna miei? Simili a te troppo! – troppo lor Imago mi muove! – Mentre li remiro (ah!) pianto le Gote riga! – Te per i Numi prego! – pei Raggi di Febo parente! – Per gli Oblighi, e i Figli (Pegni d’Amore!) due! Rendimi quel Talamo, a prezzo comprato sì caro! – Serba i Detti! – pare prestami servigio! Non io te imploro contro Tori, o Gente feroce: Nè perchè Drago per te sopito sia. – Chieggo Te, Merce mia! – Te, cui tu donasti a me sola! – Con cui vero Padre vera divenni Madre! Chiedi tu la Dote? – su quel numeraitela Campo, Che ‘l Velo a produrre fendere doveasi! – Quel Monton fu Dote, per aurea Lana famoso! La qual s’i’dico, rendimi: certo neghi. Tu mia salvo Dote: mia Dote la Greca Coorte! – Di Sisifo, ingrato, or vanta l’Erede meco! Ma dì! – s’anco vivi! s’hai Sposa! s’hai Socero grande! Infin quanto sei, perfido, non mi devi? I quai s’anco spiro! . . . ma che val gittare Minacce? – Nel petto acceso gran mali l’Ira cova! – Sdegno mi strascina! – seguirà Rimorso l’Evento: Già, per un ingrato quanto adoprai, mi pesa! Pensici (questo Seno qual m’agita) Nume furente! – Non so a qual fiero scuotemi Prodigio!