Numero XX Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Angelika Hallegger Mitarbeiter Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 16.04.2019

o:mws.5454

Gozzi, Gasparo: Gli Osservatori veneti. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1762], 516-520 Gli Osservatori veneti 1 20 1761-04-10 Italien
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No XX.

A dì 10 aprile 1762.

Similemente al fumo degl’incensiChe v’era immaginato, e gli occhi e ‘l naso Ed al sì ed al no discordi fénsi.

Dante, Purg., c. X.

Aristofane e il Mantegna pittore.

Aristofane. Tu solo, o valent’uomo, potresti nelle occorrenze mie aiutarmi; e perciò io vengo a te, acciocchè con la tua intelligenza provvegga me di quel lume che non potrei avere da me solo.

Il Mantegna. Tu sai, o Aristofane, quale sia stato sempre il legame fra l’arte tua e la mia. Tu fosti nel mondo poeta, io pittore. Queste arti sono sorelle, ond’è nata di ciò fratellanza fra noi. Chiedi ad ogni modo, chè tu mi ritroverai sempre pronto a’tuoi cenni.

Aristofane. Ti ringrazio. In breve, ecco il bisogno mio. Ho ricevuto questa lettera dal mondo. Me la scrive Poesia. Ascolta.

“Amatissimo figliuolo.

Tu avesti sempre uno squisito sapore nell’arte mia. Ricordomi di quel tempo in cui facesti con sì bella e nuova invenzione discendere costaggiù, in una tua commedia, Bacco, a fare un’egregia e veramente saporita censura de’poeti tragici d’Atene. Il tuo giudizio da quel tempo in poi venne grandemente stimato sul monte di Parnaso. Ora io mi raccomando a te. Aggírati fra le conversazioni delle poetiche ombre, e vedi se tu ne potessi rimandare al mondo alcuna delle più massicce. Ti direi che tu procurassi di rimandarci Omero, o il Milton; ma l’uno fu greco, e l’altro inglese, e la mia intenzione si è che quello che tu rimanderai, sia italiano, volendo io che l’Italia ne sia rifornita: vedi qual di loro sarebbe più al caso. Egli è il vero che potrei eleggere io medesima; ma le varie opinioni ch’io odo quassù, m’hanno così conturbato e posto sozzopra il cervello, che non ho più fiducia nel mio discernimento. Chi vuole che l’arte mia sia ad un modo, chi ad un altro. Chi viene al mio tempio ad offerirmi ciondoli, liscio, nèi, ghirlande di fiori, mazzolini d’erbe e altre chiappolerie da fanciulli, e di questi ho io il tempio ripieno, che cantano sempre canzonette, madrigali, sonettini, de’quali ho sì pieni gli orecchi, che n’ho intronato l’intelletto. Alcuni fanno una gargagliata di materie di nessuna importanza, tirate in alto con le carrucole di certi paroloni che non hanno altro che suono e romore, i quali tolti via dall’argomento, ne rimane una cesta d’ossicini senza midollo, ch’io non so come poteano starsi l’uno all’altro congiunti; anzi una nebbia leggerissima che se ne va in aria. La somma è, ch’io sono stordita e quasi impazzata, nè da me certamente sono più atta a giudicare il bene e il male. Quanto io ancora conosco, si è che a questo modo l’Italia non si fa più onore appetto all’altre nazioni: e quello di che ti maraviglierai grandemente, si è che nella Germania, in que’freddi e rigidi climi, dove gl’impetuosi venti soffiano continue procelle, e nuvole che rovesciano nevi e pruine, si sono oggidì innalzati gl’ingegni, e hanno adattato quel loro faticoso idioma alle dolcezze dell’arte mia, sicchè escono prelibati poemi, i quali vengono dall’altre nazioni ne’loro linguaggi trasferiti. Io non posso dimenticarmi di quel grande amore che portai sempre all’Italia, dalla quale venni per lungo tempo onorata; e mi duole grandemente di vedere che le Muse a poco a poco l’abbandonano, e se ne vanno ad abitare fra le altissime montagne settentrionali, scherzando più volentieri per tutto altrove che ne’lieti e fioriti italici giardini, dove parea già che avessero posta la sede loro. Fratel mio, mi ti raccomando: fa’elezione costaggiù a tuo piacere d’alcuno; esamina un certo antico Dante, un certo meno antico Petrarca; vi troverai un Ariosto, un Tasso, che furono già colonne dell’arte mia. Pensa qual d’essi potesse giovar meglio alla mia intenzione. Bilancia, misura, e fa’quello che credi meglio. Mi ti raccomando. Addio.”

Il Mantegna. Poesia, fratel mio, in questa così lunga lettera t’ha dato una gran faccenda.

Aristofane. Egli è appunto per questo ch’io ti domando in ciò l’opera tua.

Il Mantegna. Buono! Fui fors’io poeta?

Aristofane. No, ma tu fosti pittore; e sendo stato tale, sei anche obbligato a riconoscere quali sieno le belle e le buone parti della poesia, sorella carnale della tua arte.

Il Mantegna. Oh! questo vorrei io ben sapere, che un pittore fosse obbligato ad essere poeta.

Aristofane. Non ti dico questo io, ma dicoti solamente che tu se’obbligato a sapere quali sieno i buoni poeti e quali i non buoni.

Il Mantegna. In qual forma?

Aristofane. In questa. Odimi; e rispondi. Quali cose dipingevi tu quando eri al mondo?

Il Mantegna. Tutte quelle che mi cadevano sotto agli occhi: case, castella, alberi, uomini, donne, animali, uccelli, aria, sole, stelle.

Aristofane. E donde traevi tu tutte queste cose?

Il Mantegna. Da natura, dov’io le vedea.

Aristofane. E con quale artifizio le traevi tu, per così dire, di mano a natura, per riporle sopra una muraglia, o sopra una tavola?

Il Mantegna. Stemperava certi colori principali, e di poi gli accozzava insieme, e ne facea riuscire tutto quello c’hai udito.

Aristofane. E sai tu che tu non facesti altro, fuorchè quello che fanno i poeti? Eglino ancora altro non fanno che dipingere quelle stesse immagini che tu solevi; se non che in iscambio dell’accozzare insieme colori, hanno la tavolozza dell’abbiccì, e tante volte e così diversamente accozzano le lettere di quello, che dipingono, come i pittori con le loro terre; e fanno quadri a parole. Ti ricordi d’aver mai letto Dante?

Il Mantegna. Sì, io lessi l’opere sue, e me ne ricordo benissimo.

Aristofane. Or bene, poichè te ne ricordi, considera il poema di lui, secondo l’intenzione della pittura, e dimmi s’egli fu buon pittore.

Il Mantegna. Lasciami un poco rientrare in me medesimo, sicchè concentrato ne’pensieri miei, io stia così un pochetto rugumando ed esaminando da me e me.

Aristofane. Sì: fa’pure. Oh! quali atti fai tu? Egli mi pare che tu abbia appunto innanzi a te una tela, e che tu faccia quegli stessi cenni che faresti se tu dipingessi. Ah! ah! tu aggrotti le ciglia, e pigni il viso in fuori! Questo è buono indizio. Egli ti par di vedere.

Il Mantegna. Aristofane, io ti ringrazio di cuore: tu m’hai fatto avvedere di cosa della quale non mi sarei avveduto giammai. Costui fu uno de’più massicci, vigorosi e nerboruti pittori che fossero al mondo. Oh che colpi maestri! Oh che tratti da grande uomo! baldanzosi, maschi, sicuri, senza timore! Dante, benedette ti sieno le mani e la fantasia.

Aristofane. Trovi tu dunque che la fantasia sua sia capace?

Il Mantegna. Più di qualunque altra ne avesse mai l’Italia. Ti par poco ch’egli l’avesse di tanta forza, che sdegnando una comune e dozzinale invenzione, immaginasse di spiccarsi dal mondo in cui viveva, per discendere colla mente in Inferno, entrare nel Purgatorio, e salire in Paradiso? Non vedi tu quanto vigore egli dovea sentirsi a bollire nel sangue, e quanta attitudine egli dovea avere ad ogni genere di pittura, dappoi ch’egli intraprese di ritrarre orribilità maggiori di tutte l’altre, di far quadri compassionevoli, e finalmente di dipingere bellezze tali, che ogni altro occhio d’uomo non avrebbe potuto durare in faccia a quelle. Vedi tu quanta varietà? Egli si suol pur dire che ogni uomo ha la sua attività particolare; per modo che alcuni riescono felicemente a dipingere animali, chi selve, chi paeselli, chi uomini; costui fu sì valente uomo, che seppe dipingere ogni cosa, e tale, che non di leggere, ma di vedere ti sembra quello che leggi, anzi di veder l’anima a vivificar le sue pitture; sì che tutto è movimento e vita.

Aristofane. Tutto è movimento, è vita? In qual modo? Dimostrami.

Il Mantegna. Che vuoi tu ch’io dica? Egli è tutto pittura. Io te ne posso addurre un picciolo esempio del suo libro. Come avresti detto: Io avea trentacinque anni; mi ritrovava avviluppato ne’vizi, vedeva la virtù, volea seguirla: lussuria, superbia, avarizia mi contrastavano; mi valsi della ragione per fuggire da’vizi e divenire virtuoso?

Aristofane. Che ne so io? Appena la mi sembra materia da pittura a me.

Il Mantegna. E tuttavia di questa materia semplice e morale egli si formò l’invenzione d’un quadro di strade, di selve, di monte e d’animali, così bene regolato, e con tanta vivacità dipinto, che pare piuttosto cosa viva che pennelleggiata. Eccoti. La metà della sua vita nella sua fantasia è divenuta un cammino, i vizi un bosco intralciato, la virtù è uno splendore di sole che veste co’suoi raggi un alpestre colle, la lussuria è una lonza, la superbia un lione, l’avarizia una lupa, la ragione Virgilio. Vedi quadro ch’è questo! Com’è tutto animato! Immaginalo: due figure d’uomini quivi sono le principali, uno combattuto da tre fiere, impacciato dalla selva, spaventato dal timore di vicina morte; un altro che con atto di cortesia gli promette aiuto, uno splendore di sole che un dirupato monte illumina co’suoi raggi. Qual altro quadro vorresti che meglio ti movesse il timore, la compassione, e destasse in te la speranza? E sappi ch’io non t’ho detto a mezzo la sostanza d’esso quadro, la quale non si può dipingere con altre parole, che con le sue proprie, e non si può bene scoprire, chi non la vede quale è uscita del suo proprio cervello.

Aristofane. A quello che tu brevemente mi narri, egli mi pare di comprendere in questo poeta quel cervello ch’ebbe già il nostro Omero, il quale vestiva le passioni e gli affetti naturali con nuove e mirabili figure, dando loro corpo e attitudini varie e piene di magnificenza: nel che veramente io stimai sempre che stesse riposta la vera poesia. Anzi io medesimo tenni sempre questo modo, come potresti vedere se tu leggessi le mie commedie; ma non trattandosi ora di me, lasciamo andare quel che fec’io, e ragioniamo di Dante. Quasi quasi indovinerei qual fosse la qualità del suo cervello.

Il Mantegna. Dimmelo, e io ti dirò poi se tu avrai dato nel segno.

Aristofane. Egli, per quanto ne posso giudicare, dovette essere una di quelle teste che se ne vanno tutte in fantasia ed in immaginazione, di quelle che ritrovano certi loro idoli co’quali vestono tutti quegli oggetti che s’appresentano innanzi a loro; i quali idoli divengono, per così dire, corpo delle pensate che fanno, e toccano più gagliardamente l’animo degli ascoltatori; essendo egli certo che molto più di movimento, di vita e d’azione può ricevere una figura corporea dall’imitazione, che le cose astratte ed intellettive, per quanto sieno belle ed ingegnose. Per la qual cosa non potrà mai essere perfetto poeta colui il quale non avrà tale fantasia, e così atta a ridurgli a corpi dinanzi tutte le sue intenzioni; imperciocchè dovendo egli principalmente dilettare, non potrebbe mai pervenire a questo grado, se non alletta e non incatena i sensi, i quali non saranno mai arrestati altro che da oggetti visibili, palpabili e soggetti finalmente alla facoltà de’sensi. La fantasia di Dante avea questo bellissimo dono; e andò per quella medesima via che fu calcata da’maggiori poeti, i quali, seguendo il principio da me detto, diedero membra e corpo ad ogni cosa. Può, è vero, l’armonia de’versi confortare l’orecchio, se essa descriverà le limpide acque d’un fiume che scorre, o il soffio de’venti che mormora tra le selve; ma darà bene altro diletto la pittura d’una Naiade appoggiatasi all’urna, dond’escono l’acque di quel fiume, e d’Eolo che, spalancata una prigione, lasci andare in libertà i venti, i quali in figura di Geni o Demoni mettano sossopra il mondo co’soffi loro. Dimmi, dico io il vero? Fu di questo genere la fantasia di Dante?

Il Mantegna. Sì, fu: e tu di’bene. Nelle sue mani ogni cosa prendeva nervi, polpe, ossa e sangue. E quello che più ti farebbe maravigliare, si è che le parole sue medesime hanno un colorito pieno di tanta forza, che tu diresti le cose sue essere più presto scolpite, che dipinte.

Aristofane. Quanto è alle parole, io ho sentito a dire che le sono dure, stiracchiate, e di quelle che non sono mai state al mondo altro che in sua bocca.

Il Mantegna. Tu l’avrai sentito a dire a certi novellini poeti, i quali con cento vocaboli d’erbe, di fiori, d’acque e d’altre coselline scrivono ogni loro argomento. Egli è il vero che le voci usate da lui sono oggidì antiche, ma non lo erano a’tempi suoi, ne’quali ogni scrittore contemporaneo le usava.

Aristofane. Orsù, non altro. Vediamo un poco quali siano gli altri poeti.

No XX. A dì 10 aprile 1762. Similemente al fumo degl’incensiChe v’era immaginato, e gli occhi e ‘l naso Ed al sì ed al no discordi fénsi. Dante, Purg., c. X. Aristofane e il Mantegna pittore. Aristofane. Tu solo, o valent’uomo, potresti nelle occorrenze mie aiutarmi; e perciò io vengo a te, acciocchè con la tua intelligenza provvegga me di quel lume che non potrei avere da me solo. Il Mantegna. Tu sai, o Aristofane, quale sia stato sempre il legame fra l’arte tua e la mia. Tu fosti nel mondo poeta, io pittore. Queste arti sono sorelle, ond’è nata di ciò fratellanza fra noi. Chiedi ad ogni modo, chè tu mi ritroverai sempre pronto a’tuoi cenni. Aristofane. Ti ringrazio. In breve, ecco il bisogno mio. Ho ricevuto questa lettera dal mondo. Me la scrive Poesia. Ascolta. “Amatissimo figliuolo. Tu avesti sempre uno squisito sapore nell’arte mia. Ricordomi di quel tempo in cui facesti con sì bella e nuova invenzione discendere costaggiù, in una tua commedia, Bacco, a fare un’egregia e veramente saporita censura de’poeti tragici d’Atene. Il tuo giudizio da quel tempo in poi venne grandemente stimato sul monte di Parnaso. Ora io mi raccomando a te. Aggírati fra le conversazioni delle poetiche ombre, e vedi se tu ne potessi rimandare al mondo alcuna delle più massicce. Ti direi che tu procurassi di rimandarci Omero, o il Milton; ma l’uno fu greco, e l’altro inglese, e la mia intenzione si è che quello che tu rimanderai, sia italiano, volendo io che l’Italia ne sia rifornita: vedi qual di loro sarebbe più al caso. Egli è il vero che potrei eleggere io medesima; ma le varie opinioni ch’io odo quassù, m’hanno così conturbato e posto sozzopra il cervello, che non ho più fiducia nel mio discernimento. Chi vuole che l’arte mia sia ad un modo, chi ad un altro. Chi viene al mio tempio ad offerirmi ciondoli, liscio, nèi, ghirlande di fiori, mazzolini d’erbe e altre chiappolerie da fanciulli, e di questi ho io il tempio ripieno, che cantano sempre canzonette, madrigali, sonettini, de’quali ho sì pieni gli orecchi, che n’ho intronato l’intelletto. Alcuni fanno una gargagliata di materie di nessuna importanza, tirate in alto con le carrucole di certi paroloni che non hanno altro che suono e romore, i quali tolti via dall’argomento, ne rimane una cesta d’ossicini senza midollo, ch’io non so come poteano starsi l’uno all’altro congiunti; anzi una nebbia leggerissima che se ne va in aria. La somma è, ch’io sono stordita e quasi impazzata, nè da me certamente sono più atta a giudicare il bene e il male. Quanto io ancora conosco, si è che a questo modo l’Italia non si fa più onore appetto all’altre nazioni: e quello di che ti maraviglierai grandemente, si è che nella Germania, in que’freddi e rigidi climi, dove gl’impetuosi venti soffiano continue procelle, e nuvole che rovesciano nevi e pruine, si sono oggidì innalzati gl’ingegni, e hanno adattato quel loro faticoso idioma alle dolcezze dell’arte mia, sicchè escono prelibati poemi, i quali vengono dall’altre nazioni ne’loro linguaggi trasferiti. Io non posso dimenticarmi di quel grande amore che portai sempre all’Italia, dalla quale venni per lungo tempo onorata; e mi duole grandemente di vedere che le Muse a poco a poco l’abbandonano, e se ne vanno ad abitare fra le altissime montagne settentrionali, scherzando più volentieri per tutto altrove che ne’lieti e fioriti italici giardini, dove parea già che avessero posta la sede loro. Fratel mio, mi ti raccomando: fa’elezione costaggiù a tuo piacere d’alcuno; esamina un certo antico Dante, un certo meno antico Petrarca; vi troverai un Ariosto, un Tasso, che furono già colonne dell’arte mia. Pensa qual d’essi potesse giovar meglio alla mia intenzione. Bilancia, misura, e fa’quello che credi meglio. Mi ti raccomando. Addio.” Il Mantegna. Poesia, fratel mio, in questa così lunga lettera t’ha dato una gran faccenda. Aristofane. Egli è appunto per questo ch’io ti domando in ciò l’opera tua. Il Mantegna. Buono! Fui fors’io poeta? Aristofane. No, ma tu fosti pittore; e sendo stato tale, sei anche obbligato a riconoscere quali sieno le belle e le buone parti della poesia, sorella carnale della tua arte. Il Mantegna. Oh! questo vorrei io ben sapere, che un pittore fosse obbligato ad essere poeta. Aristofane. Non ti dico questo io, ma dicoti solamente che tu se’obbligato a sapere quali sieno i buoni poeti e quali i non buoni. Il Mantegna. In qual forma? Aristofane. In questa. Odimi; e rispondi. Quali cose dipingevi tu quando eri al mondo? Il Mantegna. Tutte quelle che mi cadevano sotto agli occhi: case, castella, alberi, uomini, donne, animali, uccelli, aria, sole, stelle. Aristofane. E donde traevi tu tutte queste cose? Il Mantegna. Da natura, dov’io le vedea. Aristofane. E con quale artifizio le traevi tu, per così dire, di mano a natura, per riporle sopra una muraglia, o sopra una tavola? Il Mantegna. Stemperava certi colori principali, e di poi gli accozzava insieme, e ne facea riuscire tutto quello c’hai udito. Aristofane. E sai tu che tu non facesti altro, fuorchè quello che fanno i poeti? Eglino ancora altro non fanno che dipingere quelle stesse immagini che tu solevi; se non che in iscambio dell’accozzare insieme colori, hanno la tavolozza dell’abbiccì, e tante volte e così diversamente accozzano le lettere di quello, che dipingono, come i pittori con le loro terre; e fanno quadri a parole. Ti ricordi d’aver mai letto Dante? Il Mantegna. Sì, io lessi l’opere sue, e me ne ricordo benissimo. Aristofane. Or bene, poichè te ne ricordi, considera il poema di lui, secondo l’intenzione della pittura, e dimmi s’egli fu buon pittore. Il Mantegna. Lasciami un poco rientrare in me medesimo, sicchè concentrato ne’pensieri miei, io stia così un pochetto rugumando ed esaminando da me e me. Aristofane. Sì: fa’pure. Oh! quali atti fai tu? Egli mi pare che tu abbia appunto innanzi a te una tela, e che tu faccia quegli stessi cenni che faresti se tu dipingessi. Ah! ah! tu aggrotti le ciglia, e pigni il viso in fuori! Questo è buono indizio. Egli ti par di vedere. Il Mantegna. Aristofane, io ti ringrazio di cuore: tu m’hai fatto avvedere di cosa della quale non mi sarei avveduto giammai. Costui fu uno de’più massicci, vigorosi e nerboruti pittori che fossero al mondo. Oh che colpi maestri! Oh che tratti da grande uomo! baldanzosi, maschi, sicuri, senza timore! Dante, benedette ti sieno le mani e la fantasia. Aristofane. Trovi tu dunque che la fantasia sua sia capace? Il Mantegna. Più di qualunque altra ne avesse mai l’Italia. Ti par poco ch’egli l’avesse di tanta forza, che sdegnando una comune e dozzinale invenzione, immaginasse di spiccarsi dal mondo in cui viveva, per discendere colla mente in Inferno, entrare nel Purgatorio, e salire in Paradiso? Non vedi tu quanto vigore egli dovea sentirsi a bollire nel sangue, e quanta attitudine egli dovea avere ad ogni genere di pittura, dappoi ch’egli intraprese di ritrarre orribilità maggiori di tutte l’altre, di far quadri compassionevoli, e finalmente di dipingere bellezze tali, che ogni altro occhio d’uomo non avrebbe potuto durare in faccia a quelle. Vedi tu quanta varietà? Egli si suol pur dire che ogni uomo ha la sua attività particolare; per modo che alcuni riescono felicemente a dipingere animali, chi selve, chi paeselli, chi uomini; costui fu sì valente uomo, che seppe dipingere ogni cosa, e tale, che non di leggere, ma di vedere ti sembra quello che leggi, anzi di veder l’anima a vivificar le sue pitture; sì che tutto è movimento e vita. Aristofane. Tutto è movimento, è vita? In qual modo? Dimostrami. Il Mantegna. Che vuoi tu ch’io dica? Egli è tutto pittura. Io te ne posso addurre un picciolo esempio del suo libro. Come avresti detto: Io avea trentacinque anni; mi ritrovava avviluppato ne’vizi, vedeva la virtù, volea seguirla: lussuria, superbia, avarizia mi contrastavano; mi valsi della ragione per fuggire da’vizi e divenire virtuoso? Aristofane. Che ne so io? Appena la mi sembra materia da pittura a me. Il Mantegna. E tuttavia di questa materia semplice e morale egli si formò l’invenzione d’un quadro di strade, di selve, di monte e d’animali, così bene regolato, e con tanta vivacità dipinto, che pare piuttosto cosa viva che pennelleggiata. Eccoti. La metà della sua vita nella sua fantasia è divenuta un cammino, i vizi un bosco intralciato, la virtù è uno splendore di sole che veste co’suoi raggi un alpestre colle, la lussuria è una lonza, la superbia un lione, l’avarizia una lupa, la ragione Virgilio. Vedi quadro ch’è questo! Com’è tutto animato! Immaginalo: due figure d’uomini quivi sono le principali, uno combattuto da tre fiere, impacciato dalla selva, spaventato dal timore di vicina morte; un altro che con atto di cortesia gli promette aiuto, uno splendore di sole che un dirupato monte illumina co’suoi raggi. Qual altro quadro vorresti che meglio ti movesse il timore, la compassione, e destasse in te la speranza? E sappi ch’io non t’ho detto a mezzo la sostanza d’esso quadro, la quale non si può dipingere con altre parole, che con le sue proprie, e non si può bene scoprire, chi non la vede quale è uscita del suo proprio cervello. Aristofane. A quello che tu brevemente mi narri, egli mi pare di comprendere in questo poeta quel cervello ch’ebbe già il nostro Omero, il quale vestiva le passioni e gli affetti naturali con nuove e mirabili figure, dando loro corpo e attitudini varie e piene di magnificenza: nel che veramente io stimai sempre che stesse riposta la vera poesia. Anzi io medesimo tenni sempre questo modo, come potresti vedere se tu leggessi le mie commedie; ma non trattandosi ora di me, lasciamo andare quel che fec’io, e ragioniamo di Dante. Quasi quasi indovinerei qual fosse la qualità del suo cervello. Il Mantegna. Dimmelo, e io ti dirò poi se tu avrai dato nel segno. Aristofane. Egli, per quanto ne posso giudicare, dovette essere una di quelle teste che se ne vanno tutte in fantasia ed in immaginazione, di quelle che ritrovano certi loro idoli co’quali vestono tutti quegli oggetti che s’appresentano innanzi a loro; i quali idoli divengono, per così dire, corpo delle pensate che fanno, e toccano più gagliardamente l’animo degli ascoltatori; essendo egli certo che molto più di movimento, di vita e d’azione può ricevere una figura corporea dall’imitazione, che le cose astratte ed intellettive, per quanto sieno belle ed ingegnose. Per la qual cosa non potrà mai essere perfetto poeta colui il quale non avrà tale fantasia, e così atta a ridurgli a corpi dinanzi tutte le sue intenzioni; imperciocchè dovendo egli principalmente dilettare, non potrebbe mai pervenire a questo grado, se non alletta e non incatena i sensi, i quali non saranno mai arrestati altro che da oggetti visibili, palpabili e soggetti finalmente alla facoltà de’sensi. La fantasia di Dante avea questo bellissimo dono; e andò per quella medesima via che fu calcata da’maggiori poeti, i quali, seguendo il principio da me detto, diedero membra e corpo ad ogni cosa. Può, è vero, l’armonia de’versi confortare l’orecchio, se essa descriverà le limpide acque d’un fiume che scorre, o il soffio de’venti che mormora tra le selve; ma darà bene altro diletto la pittura d’una Naiade appoggiatasi all’urna, dond’escono l’acque di quel fiume, e d’Eolo che, spalancata una prigione, lasci andare in libertà i venti, i quali in figura di Geni o Demoni mettano sossopra il mondo co’soffi loro. Dimmi, dico io il vero? Fu di questo genere la fantasia di Dante? Il Mantegna. Sì, fu: e tu di’bene. Nelle sue mani ogni cosa prendeva nervi, polpe, ossa e sangue. E quello che più ti farebbe maravigliare, si è che le parole sue medesime hanno un colorito pieno di tanta forza, che tu diresti le cose sue essere più presto scolpite, che dipinte. Aristofane. Quanto è alle parole, io ho sentito a dire che le sono dure, stiracchiate, e di quelle che non sono mai state al mondo altro che in sua bocca. Il Mantegna. Tu l’avrai sentito a dire a certi novellini poeti, i quali con cento vocaboli d’erbe, di fiori, d’acque e d’altre coselline scrivono ogni loro argomento. Egli è il vero che le voci usate da lui sono oggidì antiche, ma non lo erano a’tempi suoi, ne’quali ogni scrittore contemporaneo le usava. Aristofane. Orsù, non altro. Vediamo un poco quali siano gli altri poeti.