Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero XIII", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\13 (1761-03-17), S. 487-491, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3574 [aufgerufen am: ].


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No XIII.

A dì 17 marzo 1762.

Ebene 2► Ebene 3► Allegorie► Dialog► Talía. Attendi tu ch’io ti faccia vedere ancora dall’altezza di questo monte altre nuove maraviglie; o ti se’forse certificato a bastanza delle vanità di que’nuvoloni che senza l’aiuto nostro avresti prese per effettive e ben fondate castella? Immagina, immagina qual vuoi più di que’beni a’quali vedi tutti gli uomini correre avidamente incontra; e se pago non sei di quanto hai fin ora veduto, chiedi liberamente, ch’io dimostrerò che tutti altro non sono che apparizioni e muraglie in aria, le quali ad un picciolo soffio si disfanno e rientrano in nonnulla.

Poeta. Fa’tuo conto che per ora io ti presterò fede che così sia come tu m’hai detto. Sì, tutto è vanità, tutto è fumo ed ombra quel bene che cupidamente viene da’mortali richiesto; ma io vorrei però sapere allo incontro quali delizie e quali facoltà sono quelle che possiede chi segue i vostri vestigi, e, lasciate tutte l’altre cose, abbraccia l’arti vostre come le più belle e care cose che sieno al mondo. Qui sta il punto. Voi dite che quanto s’apprezza, è castello in aria, e parte [488] m’avete fatto vedere che così sia: ma questo vostro Parnaso, queste solitudini, questi boschetti, infine infine, che cosa sono?

Talía. Sono quella vera e solida beatitudine che può avere uomo fino a tanto ch’egli dimora sopra la terra; e credimi che, in qualunque parte egli s’aggiri, non potrà mai ritrovare maggiore, nè più massiccio bene di questo. Ma perchè non giovano punto le parole dove s’ha a fare con animi ostinati, i quali a stento prestano fede alla verità, io voglio che tu vegga con gli occhi tuoi propri quello che non avresti creduto giammai, fino a tanto che la caligine delle passioni e de’desiderii t’avesse occupata la vista. Attendi. O divino Apollo, i cui lucenti raggi sgombrano dalla faccia della terra le notturne tenebre, io ti prego, se mai ti fu grata ne’ boschi di Cirra e d’Aracinto la compagnia delle figliuole di Giove e di Memoria, togli ogni velo dagli occhi di costui, il quale con indicibile ingratitudine i nostri buoni uffizi verso di lui non apprezza, e con ribellante animo ci avea poco fa vergognosamente vituperate. Fa’con l’opera tua ch’egli vegga a qual vita era stato eletto; e qual vita sarà da qui in poi la sua, s’egli, rientrato in sè medesimo, non cancellerà con opportuno pentimento i suoi malvagi pensieri, e condannerà le bestemmie ch’egli ha dette contro di noi. E voi venite, o belle abitatrici d’Elicona, e col vostro dolcissimo canto apparecchiategli l’animo a contemplare le nobili apparenze che dinanzi a lui si debbono discoprire tra poco.

Non sì tosto ebbe la divina Talía compiuta questa breve preghiera, che l’aria divenne intorno al poeta molto più serena che prima non era: le finissime acque che in diversi rivoli qua e colà trascorrevano, parvero purissimo argento; i fiori più vivi e più coloriti apparirono, e in breve non vi fu cosa che maggior dignità e splendore non acquistasse. Uscirono fuori de’verdi boschetti le Muse, e con que’loro celesti visi, più belli che mai fossero, aggiuntesi a Talía, fecero tutto il luogo non altrimenti risplendere, di quello che descriva Ovidio l’abitazione del Sole, quando il figliuolo Fetonte andò a chiedergli per testimonio di sua figliolanza il carro della luce. Finalmente aprendo a coro le dolcissime labbra, cantarono quello che segue:

Qual ebber tempo più felice in terra

Umane genti di quegli anni primi

In cui novo era e semplicetto il mondo?

Chiuso era allor nelle profonde cave

Nemico ferro, e il più nimico ancora

Metallo, che scacciò Numi veraci

Dall’are, e in loco lor Nume si fece.

All’apparir del mattutino lume

Sorgean le genti; e a sè vedendo intorno

[489] Di natura i tesori, inni e canzoni

Grate volgeano alle celesti sfere,

Donde riconoscean di frutte e d’erbe

A temprato desio larghi conviti.

Povertà santa! cui facean poi lieta

Viva amistade, amor puro e verace,

E il vôto mondo di pensieri e cure.

In queste selve e alle nostre acque in riva

Or si ricovra, e qui ritrova asilo

Quel primo ben che invan si cerca altrove.

Stavasi attento il poeta alla canzone delle Muse, e diceva fra sè: “Bella felicità invero mi promettono costoro; ch’esse mi vogliono ridurre a pascermi di ravanelli e di carote, e a bere con le giumelle al fiume. Io non nego che quanto ho veduto fino a qui non sia aria e fumo; ma avrò però a dire che queste loro belle promesse sieno cose di grande sostanza? Ad ogni modo io son qui, e ne voglio veder la fine. Sia che si voglia, io avrò sempre veduto qualche novità che mi darà diletto a ricordarmene e a narrarla agli amici miei, se non mi romperò il collo nello scendere da questo monte.” Mentre che egli facea così fatte considerazioni, come se una tela gli si fosse dagli occhi levata, vide dinanzi a sè un nuovo aspetto di cose, le quali egli non avrebbe da sè solo mai conosciuto che fossero, se la sua fedele maestra Talía non ne l’avesse renduto capace.

Talía. Che ti pare? Vedesti tu poco fa que’maligni spiriti, i quali, con le loro forate canne soffiando ne’pantani e nelle pozzanghere, rizzavano que’castelli in aria? All’incontro che vedi tu ora? Dillomi.

Poeta. Io veggo migliaia di fanciulletti, i quali qua e colà svolazzando e scherzando, fanno diversi uffici o giuochi, ch’io non so quel che significhino in effetto.

Talía. Questi sono que’semplici ed innocenti Geni, i quali erano stati mandati da Giove a custodia del mondo, prima che le immoderate passioni gli discacciassero da quello. Non poterono più gl’innocenti comportare la furia dell’avarizia, della licenziosità e degli altri mostri che ingombrarono la terra, e che fecero apparire que’castelli in aria che tu hai poco fa da questo luogo veduti. Laonde essi, volando sopra le cime di questa nostra montagna, esercitano in essa in pace quell’ufficio che aveano ricevuto da Giove. Vedi tu colà quella brigatella che intorno a que’fiori è occupata? Essa quella bella vivacità ad essi fiori comunica, e quel colorito vario e sì durevole, che mai nè verno nè altra intemperie 1o dannifica punto. Quegli altri trascorrono per l’aria, e qua e colà aggirandosi e soffiando, accozzano insieme certi pochi e leggieri vapori, mandati allo insù da certi altri fanciulletti che si diguazzano nel fiume; e formano a tempo ora una sottilissima rugiada, ora una minuta pioggia che discende ad irrorare l’erbe con leggiera spruzzaglia, senza romore di tuoni, nè rabbia di gragnuole. Vedine molti affaticarsi intorno agli alberi, per mantenere ad essi una perpetua verdura. Che bell’ordine! Qual assidua varietà d’operazioni! Questi portano i vivificativi raggi della luce, quelli allargano e dispiegano sotto alle folte piante la freschezza dell’ombre; [490] e da questo così diverso e continuo movimento nasce la serenità dell’aria, la molta grazia e la bellezza della terra, e il garbo e la luce di quante cose ti circondano. Ora che vedi in effetto queste maraviglie, ti pare ancora una mala abitazione la nostra, e ti sdegnerai tu d’essere stato eletto a dimorare con esso noi? Ti par egli d’essere veramente povero e solitario, ora che vedi quanti hai da ogni lato spiritelli da te non veduti prima, de’quali ognuno esercita qualche uffizio in tuo pro, e sono tutti occupati nel farti ad ogni loro possa piacere? Che ti chiedono essi de’benefizi che ti fanno? Vedi tu in verun luogo nè la Fortuna che ti chiuda in faccia l’uscio di queste ricchezze, nè ingannevoli donzelle che con le incantate tazze ti tolgano il cervello? Qui è tutto semplicità ed innocenza, ed è veramente beato quegli a cui la clemenza di Febo concede di poter fare dimora in questi luoghi. Che ti pare?

Poeta. Bene; poichè tu mi fai vedere con gli occhi propri quelle cose che la mia immaginativa non avrebbe potuto mai per sè ritrovare. Ma dall’altro canto, come potresti tu darmi il torto, se vivendo al buio, e pieno di quelle passioni le quali riscaldano tutti gli uomini, io era sdegnato teco e con le tue sorelle? Io vedea intorno a me una torma di genti a trionfare, mentre che tribulando mi trovava in una picciola cameretta involto in mille molesti pensieri; e avendo sperato per lungo tempo che gli ammaestramenti vostri mi conducessero a vivere spensierato, e vedendo essermi avvenuto il contrario, non è maraviglia s’io mi dolsi agramente contro di voi.

Talía. Che tu abbia l’animo ripieno di quelle passioni c’hanno tutti gli altri uomini, questo è vero troppo, e lo sappiamo. Ma tu dovresti però sapere anche i tentativi che furono fatti da noi per avviarle ad un buon fine. Tu sai pure quante volte ti facemmo apparire dinanzi alla fantasia la splendida faccia della gloria, acciocchè quella attraesse a sè tutto l’animo tuo, e, per così dire, lo si beesse in modo, che posta ogni altra cosa in dimenticanza, tutti a lei rivolgessi i tuoi desiderii. Non t’avvedesti tu mai che l’amore d’essa gloria appariva in te, fino nel linguaggio che ti demmo diverso dal comune degli altri uomini, col quale, quasi disdegnoso fossi di parlare secondo l’usanza universale e volgare, cercasti di profferire i tuoi pensieri con parole armonizzate da accenti, che di quando in quando le rendessero soavi agli’orecchi, e terminate da quella dolce capestreria delle rime? Se vedesti mai donna che piacesse agli occhi tuoi, lodasti tu forse la sua bellezza con quelle poche e consuete parole, con le quali lodano tutti gli altri uomini bellezza terrena? Tu mi fai quasi ridere a vederti con quella faccia, mentre ch’io sto teco ragionando di tali cose, ma si dee pur dire il vero; e tu puoi rileggere ancora quello che scrivesti in quel tempo, e vedere ch’anche la più veemente di tutte l’altre passioni era per opera nostra nell’animo tuo uno stimolo alla gloria e all’onore. A questo, a questo ti conducevano i nostri ammaestramenti; e se tu pensavi che ti guidassero ad acquistare altre utilità, ti sei grandemente ingannato, e ti dolesti di noi contra ogni ragione.

Poeta. Io ti concedo che quanto m’hai detto sia vero; ma a qual fine m’ha un giorno a condurre l’esser vostro seguace, dimenticandomi d’ogni altra cosa nel mondo?

[491] Talía. Ad altro fine diverso da tutti gli altri, i quali vivono fra castelli in aria, in continui travagli. Quando verrà il giorno in cui tu avrai a partirti dalla terra, io ti so dire che non t’aggraverà punto di travagliosi pensieri l’avere amato le selve, l’essere andato a diporto sulle rive de’fiumi, l’avere lodata e ammirata la virtù dovunque dinanzi agli occhi tuoi apparisse. Tieni per certo che la vita tua s’ammorzerà in quiete, non da torbidi venti soffiata a forza. Oltre di che io ti prometto non una fama immortale, dono a pochi dato, ma che il nome tuo non pericolerà affatto negli eterni abissi dell’obblivione. Di tempo in tempo verrà ricordato fra’viventi, e se non chiaro, almeno non sarà ignoto del tutto; e si conoscerà che, vincendo ogni desiderio, rivolgesti il tuo cuore alle buone arti, non cessando mai di coltivarle fino all’estremo punto della tua vita; di che avrai da chi leggerà il nome tuo, se non lode, almeno affettuosa compassione. Non ti rammaricar dunque, o caro e fedele nostro compagno, se la brevità del tuo vivere non è assecondata da quella che tu stimi fortuna, e appágati di questa semplice vita che t’abbiamo fin da’primi tuoi anni apparecchiata.

Poeta. Che fai tu? Perchè mi soffiasti ora nella faccia? Qual subitaneo calore è questo che mi sento ora nelle vene? Non posso più. Mi gorgogliano nella gola i versi. Questa è opera tua.

Monte beato, e solitario bosco,

Ove un tempo i’vivea pago e contento,

A te rivolgo il piè, cui facean lento

Novi desiri, e i miei danni conosco.

Dall’aere fuggo tenebroso e fosco,

Che avea l’ingegno mio presso che spento;

Ritorni l’alma al suo primo ardimento,

E i Cigni imiti del bel fiume Tosco.

Voi felici virtù, lumi del cielo,

De’versi miei materia ancor sarete,

Finch’io chiuso sarò nel mortal velo.

E voi beate, che il mio cor vedete,

Voi l’ispirate, e in esso il pigro gelo

Con lo splendor de’rai vostri rompete. ◀Dialog ◀Allegorie ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1