Sabbato 24 Ottobre 1789.
Treviso 19 Ottobre 1789.
Jeri sera si è rappresentata l’indicata Opera Gernando, e Rosimonda. Credo di farle cosa grata coll’avanzarle le più
imparziali notizie. Il Sig. Violani primo Soprano incontra moltissimo, ha
bellissima voce, agilità, ed azione, e si distingue moltissimo nell’aria del primo Atto, che ha
replicata riscuotendo gli applausi, degl’intendenti di Musica, e di tutti gli spettatori. Il Sig.
Franchi Tenore è passabile. La prima donna non piace. La Musica dell’Opera
sarà buona, ma non incontra per niente. Il primo Ballo è un pò lungo, ma piacque moltissimo. Il Sig.
Beretti che n’è l’inventore è stato molto applaudito, così la Sig. Villeneuve
che sono stati ambidue chiamati al fine del Ballo a comparire per ricevere gli applausi dei
Spettatori. Così del secondo Ballo ch’è graziosissimo. Il Scenario bello. Il Vestiario nuovo e
magnifico, e senza risparmio, tanto dell’Opera che dei Balli. Scarsa l’illuminazione. L’orchestra và
poco bene.
Eccole la verità, che le verrà ripetuta anche a voce.
Un leggitore della sua Gazzetta.
Furon scolpite sulla sepoltura d’un infermiccio queste poche parole: Io stava bene,
ma per istar meglio mi trovo qui.
È certo che il timor della morte non di rado è mortale, e ci obbliga a prendere, per conservare
la nostra vita, delle misure, che non servono che a rapircela. La riflessione d’alcuni Istorici, che
si uccide più gente in una fuga, che in una battaglia regolata, può applicarsi a quell’infinito
numero d’ammalati immaginarj, che rovinano la loro costituzione co’rimedj che prendono, e che per
iscappar dalla Morte si gettano nelle sue braccia. Non è biasimevole un uomo, che si prenda una cura
legittima della sua salute: ma non pensare che alla conservazione della sua vita, non aver in capo
che de’rimedj, e delle regole per ben usarne, queste son basse viste indegne della nobiltà del
nostro essere. Una continua inquietudine per la vita ne toglie tutto
Signor Gazzettiere.
“Io son del numero di quella fragile tribù, che comunemente si chiama de’malatticcj, e
vi confesso che ho contratto questa cattiva abitudine del corpo, o piuttosto dello spirito, dallo
studio della Medicina. Dacchè m’applicai alla lettura de’Libri che d’essa trattano, ho sentito che
il mio polso alteravasi: non leggeva quasi mai la descrizione d’una malattia, senza che mi paresse
d’esserne travagliato. L’erudito trattato sulle febbri del Dottore Sydenham
mi produsse una febbre languida che non m’abbandonò mai in tutto il tempo da me impiegato su questa
eccellente Opera. Mi sono poi rivolto alla lettura di diversi Autori, ch’hanno scritto sulla
tisichezza, e mi credei subito attaccato dalla consunzione; ma essendo divenuto molto grasso una
spezia di vergogna mi guarì in certo modo da questa trista immaginazione. In appresso mi vidi
assalito da tutti i sintomi della gotta, eccettuandone il dolore; ma fui guarito dalla lettura d’un
trattato sulla Renella, scritto da un ingegnosissimo Autore, che secondo la pratica de’Medici,
avvezzi ad iscacciare un male coll’altro, mi diede la pietra per liberarmi dalla gotta. In fine ho
studiato tanto, che mi tirai addosso una complicazione di malattie; ma dopo aver letto l’eccellente
Discorso del Santorio, che mi venne accidentalmente alle mani, risolsi di
seguire il suo metodo, e d’osservare tutte le sue regole, che aveva raccolte colla maggior
diligenza.
Tutti gli uomini di Lettere sanno che questo abile Autore per meglio fare le sue esperienze, aveva inventato una seggiola matematica, sì artifiziosamente sospesa in aria con delle molle, che si poteva pesar tutto come nelle bilancie. In questa maniera egli sapeva quante oncie del suo nutrimento dissipavasi dalla traspirazione, quale quantità convertivasi in sua propria sostanza, e ciò che andava per l’altre vie della natura.
Dopo essermi munito d’una di queste sedie m’accostumai a studiarvi, mangiare, bere, e dormire, di
modo che si può dire, che da tre anni vivo in un pajo di bilancie. Secondo il mio calcolo, quando
sono in perfetta salute, io peso esattamente duecento libbre; ne perdo una o due appresso poco per
il digiuno d’un giorno, e ne acquisto una di più dopo un buon pasto; cosi m’occupo incessantemente a
tener la bilancia eguale tra queste due libbre volatili della mia costituzione. Ne’miei pasti
ordinarj aumento il mio peso sino a duecento libbre e mezza; e se dopo aver desinato mancavi qualche
oncia bevo, o mangio tanto pane che basti a farmi giungere a questo peso. Ne’miei maggiori eccessi,
io non vi aggiungo che l’altra mezza libbra; il che fò per la mia salute tutti i primi lunedì d’ogni
mese. Quando dopo il pranzo mi trovo ben bilanciato passeggio sino a tanto ch’io abbia traspirato il
valore di cinque oncie e quattro scrupoli. Ridotto a questo punto mi attacco a’miei libri e ne
consumo tre oncie e mezza di più studiando. Per il resto della libbra non ne tengo conto. Non ho mai
ore determinate per il pranzo, o per
La mia dose di sonno, nel computo periodico di molte notti, è d’un quarto di libbra soggetto a qualche diminuzione, od aumento d’alcuni grani; e se al levarmi trovo di non aver consumata questa porzione, io perdo il resto sulla mia seggiola. Da un calcolo esatto di ciò che ho perduto o acquistato nell’anno scorso riguardo al peso, registrato in un libro che tengo a bella posta per questo, mi si mostra ch’è ritornato all’ordinario delle libbre duecento, di modo che non credo che la mia salute si sia diminuita d’un’oncia, durante questo intervallo. Comunque ciò sia, malgrado tutte le cure che io mi prendo di tenere il mio corpo in un giusto equilibrio, mi veggo ridotto ad uno stato languente e debole; son divenuto pallido, ho il polso ineguale, e son minnacciato d’idropisia. Abbiate dunque la bontà, caro Signor Gazzettiere, di ricevermi nel numero de’vostri pazienti, e di comunicarmi, o tentare di farmi comunicare per mezzo del vostro Foglio delle regole più certe di quelle che osservai sino ad ora. Voi obblighererete molto in tal modo chi si protesta di essere”
Vostro affezionatissimo ec.
Domenica 18 corr. fui a Vicenza, e restai
sorpreso dal grandioso spettacolo del Teatro Olimpico magnificamente illuminato. Viddi l’abbondanza
d’un ben diretto Rinfresco per quella Nobiltà, ed ascoltai una letteraria Accademia in onore del N.
H. Pindemonte che terminò gloriosamente la sua Pretura. Senza dar giudizio a
colpo d’orecchia di que’varj Componimenti, che quanto prima stampati subiranno la corrispondente
Censura, senza secondi fini, ma innocentemente rifletto, che quanto fu recitato in versi ebbe la sorte d’esser sentito senza confusione, e bisbiglio, e niente impazientò, e
seccò quella immensa mista folla di Spettatori.
E Martedì stando per accidente sulla porta della mia Casa fui con sommo piacere
presente all’arrivo d’una lietissima Compagnia di Signori diretta all’Almisan
ad un Pranzo destinatogli dal Nobile Proprietario di quel luogo. Precedeva un bel Sterzo, in cui v’era una giovine Dama, bella, e graziosa, e tre Gentiluomini, e seguivano
altri quattro Sterzi tutti a quatro Cavalli con quattro persone in ciascheduno. Smontarono questi
venti Signori al nostro Caffè, dove all’improvviso s’udì l’armonia di cinque straordinarii stromenti
a fiato, che pose in moto tutto il Paese. Dopo mezz’ora partirono colla dilettevolissima Banda
de’Suonatori, e s’avviarono al sito del Pranzo. Le relazioni, ch’ebbi esternamente, mi resero nota
la finitissima lautezza del pranzo, l’allegria del suono, la giocondità della conversazione, ed il
passaggio troppo sollecito d’una giornata la più felice. Ho saputo che quella Dama, e que’Signori
erano gente di spirito, e di ottimo gu-sto, e venni a rilevare,
che la maggior parte d’essi compongono una brillantissima Società senza invidiosi e senza nemici,
che in Vicenza rende celebre, e riguardevole una Bottega da Cioccolata, ove si raduna la sera; e che
in quella Radunanza, nella quale non può entrare nè la Etichetta de’Magnati Analfabetici, nè la insensatezza delle Menti Alpine,
nè il contrabbando de’Sali Licambici, con naturale prudenza si parla d’ogni
cosa, con bellissimo artifizio d’ogni cosa si ride, e d’ogni cosa senza pregiudizio si sà dire la
verità.
Ab. D. G. B. G.
Figlia, e moglie d’artigiani, ma ricca per una recente eredità, si trova ad una certa
villeggiatura una donna, che al vedersi trattata con rispetto dagli uomini di condizione, e con
amorevolezza dalle Signore considerabili non meno per nascita che per dovizie, s’è riscaldata a
segno di credersi qualche cosa di grande, e vuole gareggiare con loro. Amando il giuoco, e potendo
perdere, e pagare non è stupore se venga a braccia aperte ricevuta per tutto. Vuole da chi la serve
dell’Illustrissima, e se la gente di Villa scorre talvota coll’Eccellenza non se n’ha a male. La
compagnia di suo marito è per lei intollerabile. Non la soffre che in Città ed in casa, e si
vergognerebbe di farsi vedere al suo fianco, perch’è di brutta figura, triviale di portamento, di
maniere ingenuamente grossolane, e và vestito con decente semplicità prescritta dalla sua
condizione. Egli la tratta come una sua padrona, e basterebbe ch’ella il volesse per istarle dietro
come un vero Servitore. Ha seco un di lei Cugino, che non ha al Mondo altri beni che la sua grazia
onde se la coltiva con tutto l’impegno per viver bene a sue spese. Le piace di essere adulata, e non
potrebbe trovare un uomo a proposito più di quello da secondarla in tutte le sue stravaganze, e da
lodare tutto ciò ch’ella pensa ed opera. Non è nè bella, nè brutta, nè vecchia, nè giovine, vuol
dire quel che non sà, e per mostrar dello spirito si fa ridicola. Per darsi l’aria di donna di
qualità studia i modi di parlare, i gesti, i complimenti, i comandi, le grazie, gli scherzi delle
più distinte di quelle Signore, e l’affettazione nell’imitarle, o gli sbaglj che prende nel farlo,
divertono la nobil brigata per cui è divenuta il soggetto migliore di trattenimento. Per
continuarselo ed accrescerlo, tutti gl’Individui della medesima, sì dell’uno che dell’altro Sesso,
si accordarono di trattarla colla maggior confidenza, ed ebber ordine i loro Servitori di farle
riverenze ed inchini. Allora sì che la vescica gonfiossi, e ne’suoi balzi divenne il trastullo della
Compagnia. Avendo a fare con gente accorta, e di vero spirito, Ella che non potea conoscerne i
raffinamenti e le astuzie, si credea che ridesse per tutt’altro che
Certi Giovinotti, che si misero a corteggiarla per burla, le trassero scaltramente di bocca quanto Ella sentiva circa alle Signore della conversazione, e finsero al naturale d’approvare le sue decisioni. Una, secondo Lei, era una stupida che faceva languir l’adunanza al comparire soltanto; un’altra una ciarliera che non taceva mai, e diceva più spropositi che parole; quella una maldicente che spargeva il biasimo su ogni cosa; questa una sciocca che credeva tutto; niuna in somma, niuna era, a suo dire, provveduta di qualità stimabili, e degne della sua nascità.
Si seppe tutto da tutti, e s’inventò una burla graziosa per punire la sua temerità. Stabilito un Festino fu pur essa compresa nel generale invito, e lo ebbe otto giorni prima che fosse dato. Misesi in gran pensiero per l’abito, e per gli ornamenti, e mandò a prendere in Città tutti i suoi vestimenti migliori per iscegliere ed adattarsi il più bello. Andò intanto a far visita ad una delle Signore, che per tirarla in rete l’accolse vestita in un modo il più capriccioso e bizzarro, con degli ornamenti da scena, e con un contrasto di colori, e di cose il più grottesco che immaginar si potesse. Sembrava al busto una contadina, alla gonna un’amazzone. Una larga serica fascia vermiglia dalla spalla sinistra scendevale al destro fianco ove annodata pendevano dalle sue estremità de’fiocchi d’argento. Sopra il crine raccolto in piccoli anelli senza polvere aveva una spezie di turbante di veli a più colori ornato di nere piume a’lati e alla sommità. Un vezzo di grosse perle circondavale il collo, e le scendeva sul petto, i guanti erano rossi, le calzette verdi, le scarpe da ballerina.
La nostr’Artigiana rimase estatica a quell’apparato da scena, ma coraggio non ebbe di palesare il suo stupore per timor di farsi corbellare ignorando le invenzioni delle ultime mode. Uscì da’suoi dubbj quando un’Amica della Signora giunse in un abito simile al suo, e cogli stessissimi adornamenti. La mascherata sostennesi con tutta la franchezza, e quei che consigliata l’avevano, o col silenzio, o colle lodi accreditarono la finzione, e fecero sentire all’ingannata donna volgare, che s’ella non voleva far una trista figura bisognava che al luminoso Festino comparisse vestita così, come avrebbe vedute tutte le altre donne di qualità. Ella si affannò per non avere colà chi potesse servirla; le fu esibita una cameriera abilissima, prevenuta già dello scherzo, ne accettò l’offerta, si mise nelle sue mani, e si lasciò fare quant’occorreva per l’ideato spettacolo.
Giunta la sera destinata, la nostra corbellata Femmina, per farla anche in questa da grande, fu
una delle ultime a comparire nell’illuminato Palazzo. Avanzandosi nella Sala a passi di riverenza
mal misurati, al fianco di suo Cugino, che per distinguersi anch’esso e brillare una figura parea
de’tarocchi, si trovò sola vestita in quel modo, e si girò invano d’intorno per cercarne
qualch’altra. Si destò un applauso di mani come al comparire in iscena d’un’Attrice favorita dal
Pubblico, indi si lasciò libero il corso alle risa, e quella infelice disingannata ebbe a svenire
dalla vergogna, e dal dolore. Sostennesi al braccio del suo sba-mi pareva impossibile:
mi pareva impossibile.
Tornata alla sua abitazione si mise a letto, e da tre giorni non si sà più nulla di Lei, nè si lasciò vedere da alcuno.
Se questa scena umiliante le ha fatto concepire che non conviene ad una donna volgare darsi
l’aria di Dama; che non si stà meglio che nella sua sfera; e ch’è derisibile il voler rassomigliare
ad altri che a sè medesimi, e pericoloso l’abusare della confidenza de’Grandi, ella saprà trarne
profitto onde vivere colle sue pari, e rispettare la Nobiltà.
Non sappiamo in quale Stato avvenuto sia questo comico giuoco, ma siamo assicurati della sua veracità da chi ce lo scrisse anonimamente, e l’abbiamo pubblicato di buon grado ad insegnamento di certi fosfori artifiziali, che voglion brillare in campagna come le stelle del Firmamento, e si fanno ridicoli alla necessità di scoprire l’opacità de’lor corpi.
In un’altra Lettera pervenutaci jeri da Treviso si ratificano le prime nuove. Dicesi
che il Primo Musico mostra una disposizione di diventar buono studiando, e in
ciò non accordasi la deffinizione colla precedente che loda l’uomo attuale, non il futuro.
Trà le nostre Comiche Compagnie finora ha il maggior concorso quella del Pelandi a Sant’Angiolo, o sia per le Commedie dell’Arte, o per le studiate Composizioni. Della
Sposa vittima dell’onore s’è detto, e si dice il suo bene, e il suo male. Si
farebbe un torto gravissimo all’intelligenza di questo Pubblico accusandolo d’indiscretezza se
applaudendo dove lo merita l’infaticabile Sig. Federici, manifesta, e
disapprova i difetti delle sue produzioni. Si deve animare un ingegno che tanto affaticasi, e si
tormenta in un genere di letteratura de’più difficili: ma una critica giusta e sensata può utilmente
correggerlo, e fare di lui un Autore stimabile. In questa ultima sua Rappresentazione egli ebbe il
coraggio di trattare un argomento nuovo e pericoloso, nè in tutte le sue situazioni ha saputo
maneggiarlo con que’sommi riguardi che merita il Pubblico composto di tante persone diverse per
sentimento, per indole, per costumi. Ci basta d’esser intesi su questo proposito dagli Uditori saggi
e avveduti. Egli è un peccato, che questo Autore il quale ha il talento da sostenersi allorchè
sembrano imminenti le sue cadute, non pensi un pò più al fondamento delle azioni prima di por mano
al lavoro. Nasce da questo che se gli spettatori volgari escono dal Teatro storditi da’colpi di
scena, dagli scoprimenti, dalle vicende, quelli che sopra d’essi colla cognizione sollevansi restano
disgustati. Di fatti come possiamo essere sedotti da un’invenzione il cui piano sia inverisimile e
falso? La Sposa si fa vittima dell’onore, per salvare
la vita a suo Padre, e dà la mano all’amante ch’Ella non ama, per impedire un duello. Ma è
ragionevole, è naturale, che un amante sviscetato bensì, ma di rango militare, e di carattere anche
troppo docile, come si dimostra in appresso, sfidi a battersi il di Lei Padre, perchè gliel’ha
promessa pubblicamente, quando non ha la menoma colpa nella negativa di sua Figlia, anzi per essa si
mostra sconsolato al sommo ed afflitto? Aggiungasi che questo Amante è di lui ospite da lungo tempo,
che vive in sua Casa come persona della Famiglia, ch’è Figlio (come si crede) d’un di lui carissimo
Amico. E un Padre saggio s’abbandona al-vittima
dell’onore mancando di fedeltà ad un amante lontano da Lei adorato, ed isposandosi a quello
ch’ella non ama, perchè tenghi la spada nel fodero. Bello si è poi, che rimproverato di questa
sfida, dalla sua Sposa, le protestò, che non potendo vivere senza di Lei, voleva morire, e che in
duello si sarebbe lasciato ammazzar da suo Padre. Perchè non uccidersi colle sue mani senza cercar
un carnefice, se aveva questa intenzione? Perchè in tal caso non v’era la necessità del sacrifizio,
base della Commedia. Chi può mai essere penetrato dalla morale, dalla virtù, dal platonismo della
Sposa di nome, dalle belle massime che impiega per rendere tollerabile allo Sposo suo una divisione
di letto, se si conoscono effetto d’un’ostinata passione, e d’un disamore per quello a cui col suo
nodo s’è resa soggetta? Simili esempj dovrebbero escludersi dalle Scene in un Secolo troppo disposto
ad esserne attaccato dalla mala influenza. Lode al Cielo che tutto finisce bene, perchè si scopre
essere suo Fratello quello a cui fecesi sposa, e così tornando libera può accoppiarsi all’altro
Amante che arriva. Ma la ragione del silenzio del finto Padre del di Lei Fratello sulla vera sua
nascita può esser più debole? L’inganno fu necessario per l’intreccio, e lo sviluppo dell’azione,
per ridurre delle scene interessanti, ma dov’è la poetica probabilità? Quanto è desiderabile che il
talento impiegato dal Sig. Federici per abbagliarci col falso, s’impieghi
alla scelta di migliori soggetti, e allo studio della verità, e della della nautra!
Della Tragedia Giovanni di Barbiano ch’ebbe a S.
Luca una delle solite repliche per forza, non se ne dice nulla. Ove tutto è male lasciamo all’obblio
i suoi diritti.
Il Possessore del Sal di Canale Privilegiato dall’Eccellentissimo Magistrato alla
Sanità di Venezia avverte il Pubblico, che d’or innanzi 20 ottobre 1789. non si dispensa più il
suddetto Sale dallo Spicier da Confetti Sig. Bernardo
Nado: ma per maggior comodo de’Concorrenti si venderà a oncie al Caffè di Bertazzi in bocca di Piazza S. Marco, a S. Giminian.
Giù del ponte di
Barcarioli a San Fantino la porta vicina al Fabbro si dispensa all’ingrosso,
ed al minuto al solito prezzo, ed in San Stefano dal R. P. Priore Nicolai:
resta però nullo il recapito, che stà nelle ricette vecchie al detto Bernardo
Nado, il quale sarà cambiato alla nuova ristampa delle dette.
Nave Cap. Dom. Daltin manca da S. Maora li 29 Settembre, Parc. il Sig. Ant. Molena con 319 mog. di sale e 5 misure, 20 cai oglio, 400 lib. di sevo.
Tartanon P. Franc. Davanzo d’Anna con 10 m. e 4 cento baccalari, 2 bal. finimenti.
Piel. P. Seb. Battistuzzo da Piran con 100 mog. di sale.
15 detto. Checchia Capit. Ant. Lizza manca da Lisbona 45 giorni rac. a sè med. con 136 casse 8 cassette e lib. 50 di zuccaro bianco, 46 cas. zuc. mascabà, una cassetta zuccaro, una balletta accie di ritorno.
16 detto. Trab. P. Ant. Marinich da Zara con 4 cai oglio.
Checchia il Cocchio di Nettuno Cap. And. Zanchi manca da Lisbona li 26 Agosto, Parc. Sig. Gio. Carminati qu. Gius. con 239. cas. zuccaro bianco. 62 cas. zuc. mascabà, 897 pezzi Legno Brasil, 14 bar. e una cassetta liquori.
Piel. P. Biagio Florio manca da Ceffalonia li 17 Set. rac. al Sig. Pietro Florio con 40 cai oglio, 92 cai Moscato, 350 fag. uva passa, 10 carat. miel 245 St. sem. di lino.
Checchia Cap. Bart. Scarpa manca da Ceffalonia li 17 Set. Parc. il Sig. Ben. Scarpa con 220 St. sem. di lino, 707 fag. e 26 fagottini uvapassa, 64 cai moscato, 11 bar. e 3 carat. miel, 21 cai oglio, 6500 lib. zibizzo, 1500 lib. vetro rotto.
Piel. P. Giov. Busetto manca da S. Maora li 5 Set. e da Corfù li 26. Parc. Sig. Ang. Busetto con 164 mog. di sale 39 col. Filati, 22 colli e 17 bal. sengona, un fag. boccassini, 2 col. filati rossi, un fag. cordoni di lana, 2 col. cera gialla, 5 carat. oglio.
Mezzadi ad uso di Casa, due de’quali posson servir di Camere da Letto e due Camerini, Tinello Cucina Caneva, Canevin, e Pozzo all’Anno Ducati 60.
Le Chiavi sono nel Palazzo del N. H. s.
Renier
Zen alla Riva di Biasio.
s. Francesco Lippomano.
23. Ottobre.
Lione 57 e un 4to.
Parigi 56 e 3 4ti.
Roma 63 e 3 8vi.
Napoli 115 e 3 4ti.
Livorno 100.
Milano 155.
Genova 91 e un 8vo.
Amsterdam 93 e mezzo.
Londra 48 e 3 4ti.
Augusta 103.
Vienna 197 e mezzo.
Formento dalle L. 32.10 alle 33.
Sorgo Turco a L. 16:10
Segale a L. 21.
Fag. bianchi a L. 22:10
Miglio a L. 18.
Risi a Duc. 34 a 34.12.
Il ritorno d’Ulisse in Itaca. Tragedia.
La Gabbia de’Matti ec.
Truffaldino duellista ec.
Jeri seguì l’ultima replica della Vittima ec.
Si ricevono in ognj tempo le Assocciazioni a questo Foglio da’Libraj
Colombani a S. Bartolommeo, e Curti a S. Giuliano.