La beneficenza vera Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Andrea Kaser Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 30.11.2016

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Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 44-50 Lo Spettatore italiano 3 12 1822 Italien
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La beneficenza vera

Nulla res carius constat, quam quae precibus emitur. . . . Proximus est neganti qui dubitat . . . . Gra-tissima beneficia, ubi nulla mora fuit, nisi in ac-cipientis verecundia . . . . Sic demus quomodo vel-lemus accipere

(Senec).

Niuna cosa costa più cara, che quella la quale si compera coi preghi . . . . Mettersi in forse è un ap-pressarsi a negare . . . . Benefcii graziosissimi son quelli che non hanno indugio, fuor che nel vergo- gnare di chi li riceve . . . . Diamogli in quella guisa che nor li vorremmo prendere.

Nel mondo son tutti ingrati, diceva Alceste.

— Così sogliono parlare i più, rispose Eugenio: ma io affermo e confermo che metà della moltitudine che di sconoscenza favella, non sente la virtù del vocabolo.

Alceste

]Oh che di’ tu! sino i fanciulli di scuola . . .

Eugenio

Non più; credimi, che non per nulla io mi sono invecchiato e incanutito, ed ho trovato per lunga esperienza non essere l’ingratitudine, nella intrinseca significazion del termine, così usitata, com’altri peravventura giudica.

Alceste

Amico, fa che tu me’l dimostri; ed io brucierò subito le Massime del signor de la Rochefoucault, e diventerò amico del genere umano.

Eugenia

Forse che ciò non mi verrebbe fatto sì di leggieri, se io non recassi qui certi di que’casi che tratto tratto veggiamo addivenire.

Andatomene io per una mia bisogna a Filandro mio amico, poichè fu egli alquanto sopra sè stato, e per assai affettuoso modo verso me rivoltosi, ebbi in risposta, che a grande sua sciagura egli tenea il non potermene accomodare. Di che io non per me, ma per Filandro fui anzi turbato, che no: perchè il rancore di aver data necessità di dir di no ad un amico, vinse in me il dispiacere di non aver satisfatto il mio disiderio; per la qual cosa se l’amicizia ch’io gli portava, non s’accrebbe, non iscemò certamente, sapendo bene che se Filandro avesse potuto, m’avrebbe senza fallo servito.

Quindi ne venni da Benvolo, il qual mi rispose: Sì, amico, mia fortuna mi ti manda in tempo ch’io ti possa aiutare: e questo detto, di presente mi contentò. Di che io, avvegnachè nel vero non fusse egli un grandissimo servigio, fattomi però in tanta opportunità, fui soprappreso da una gratitudine a cui manifestare mi vengono men le parole. Dico solamente, che ben mille per uno avrei renduto a Benvolo.

Fu altro punto che io ebbi a richiedere d’alcun mio bisogno Lentilio, il qual, se voluto avesse, poteva incontanente sovvenirmi: ma disse che non me ne poteva allor detto fatto rispondere, e che v’avrebbe pensato. Ed essendo così le cose menate per lunga, e non venendone indietro risposta, tornai da capo a dimandare; ed alla fine mi soddisfece, ma con sì buia fronte, che mi mostrò apertamente non gli dover punto essere stato caro il beneficio ch’ei mi prestava: e per conseguente io, che per me non soglio esser ingrato, non sentii nell’animo molta gratitudine.

Stretto pure da certe mie difficoltà, feci conoscere a Misandro, come io aveva mestieri di lui, che mi porgesse aiuto a spedirmene; ed egli si mostrò meraviglioso della mia richiesta; e fatte le viste autorevoli, con gran solennità mi rispose che volea tempo a deliberare. Il quale poichè a convenevol termine fu venuto, io mi feci nuovamente a richiederlo: ed egli tutto in sè raccolto e malinconoso dissemi: se non avere deliberato ancora. Lunghissimo spazio poi tennemi in su lo aspettare, senza alcun pro; tanto che io volli la terza prova tentare. Si pose allora Misandro in un contegno . . . Ma io nol ti saprei ora ritrarre. Bastiti questo, che ogni suo sguardo parea saettassemi il cuore: e se il mio bisogno fosse stato meno stringente, o avessi avuto a chi altri rivolgermi, io, senza sua risposta attendere, per la stomacaggine e l’ira che già m’avea fatta, l’avrei lasciato stare nella sua mala ventura: ma perciocchè tant’oltre erano procedute le cose, io, non potendo indietro farmi, fui costretto a durare la preghiera, fin che il soccorso; ond’io l’avea richiesto, mi diede; ma con tanta ritrosia e cautela e ammonizioni, e appena che io non abbia detto rimproveri, che mi sembrava patir l’affanno della morte.

Allora non pur non sentii gratitudine, ma nel mio segreto era tanto innasprito, che con gran fatica seppi celare nel petto lo sdegno concetto contro Misandro.

Or gli affetti per me in quelle diverse congiunture sperimentati, sapresti tu spiegarmi? son io dunque stato in queste due ultime uno sconoscente? Certo per tale mi deono tenere Lentilio e Misandro ed altri de’cosiffatti: ma tanto vo’dirti, che di questa colpa le discrete e sensibili persone m’averebbero per iscusato, al giudizio delle quali intendo solamente di attenermi, e ragion rendere delle mie affezioni.

La subita disdetta di Filandro mi tolse incontanente la gravezza dell’indugio e della dubitazione: e quella pronta risposta, amichevolmente e senza alcun velo nè sospetto rendutami, ricevetti in luogo di beneficio; perchè mi diede agio di ricorrere a Benvolo, e conseguire il mio intendimento: onde che mi fece più pro Filandro a negarlomi istantaneamente, che non m’avria fatto a sovvenirmene dopo dieci dì.

Essendomi stato Benvolo volentieri e senza dimora cortese, fece sì, che del servigio ch’ei mi prestò, potei trarre grandissima utilità; il che fu cagione che io sommamente il gradissi. Oltr’a ciò, è da considerare il modo che usò. Parve che non solamente egli stimasse ciancia l’aiuto che mi dava, ma che intendesse che anch’io lo dovessi per tale ricevere. Anzi fece sembianti di credere che io, dandogli via di dimostrarmi la sua benivolenza, avessi fatta alcuna grazia a lui. Per la qual cosa spense egli anzi che spuntasse, quel ribrezzo e quella umiliazione, e tutto altro che ad un uom di sentimento, nel chiedere sua bisogna, si volge per lo pensiero; lasciommi il cuore aperto alla gioia, all’amicizia ed alla riconoscenza, delle quali io provai tutta la dolcezza, e la provo ancora; nè la memoria del beneficio da Benvolo datomi passerà se non per morte.

Dall’altra parte Lentilio pensando e ripensando quello che io gli aveva addimandato, e soprattenendomi e ritardandomi nel bisogno (lasciamo stare che dolorose senza misura eranmi quelle indugie) egli mi fece aver di molti danni, i quali, s’egli prontamente compiaciuto m’avesse, avrei cessati; nè ho potuto per lo suo beneficio, quando ultimamente me lo concedette, del tutto a quelli supplire. Che se a prima egli m’avesse negato, potuto avrei tostamente andar per un altro, che così, come Benvolo fece, m’avesse soccorso di subito e volentieri. — Fummi, nol niego, al desiderio soddisfatto: ma nota che di tal sorta fa il piacer concedutomi, che il bene il quale egli mi fece, appena mi pagò della noia dell’attendere, e della fatica per me, nel dover tornare a’preghi, sostenuta. Che dunque operò egli ad accattar la mia gratitudine? Quando Lentilio, in secondandomi, avesse fatta scusa di sua tardanza, quando avesse formata parola alcuna d’amistà, quando avesse mostro dagli occhi alcun segno d’affezione verso me, ben l’avrei io dentro da me sentito, e ne sarebbe uscito il naturale effetto, cioè la gratitudine. Conciossiachè natura in tutti i cuori abbia di questa gentil passione infusi i semi, i quali quando non mettono ed invaniscono, laddove germogliare e fruttificar potrebbero, è difetto della benivoglienza, che su non vi luce, nè ‘l terreno fecondane. Di que’piacevoli affetti che dalla riconoscenza hanno vita, nullo io in presenza di Lentilio provai, e presi da esso commiato con gran talento di sdebitarmene come prima dato mi si fosse tempo; e posciachè ebbi il mio dover seco fornito, non mi credetti a lui di altro tenuto.

Prestommi un aiuto Misandro, quale potea, con la grandezza del frutto ch’ei mi produsse, tutte le fatiche dell’aspettare e delle reiterate istanze ristorarmi. Ma per disavventura non volle Misandro ch’io gli obbligassi la mia gratitudine. Aggiunse egli, nell’atto stesso di conferire il beneficio, tante umiliazioni alle inquietudini che già mi aveva fatto provare, che il piacere del ricevuto beneficio non potè sostenere l’equilibrio. Così Misandro in una grandissima necessità sovvenendomi, mi porse cagione che io men di prima il pregassi ed amassi, mentre che in una piccolissima Benevolo mi prese e legò per sempre al cuor suo; così non mi divenne più amico, oltre l’usato, Lentilio tardi appagandomi, che Filandro di presente disdicendomi.

Se io ho bene riguardato i modi degli uomini questo lungo spazio che ci sono vivuto, posso affermare sopra la mia fede, non essere le vere ingratitudini così spesse e comunali, come inchinano ad opinare alcuni che le cose addentro non vedono. Anzi ho io per fermo che coloro i quali sanno delle umane venture i movimenti interiori, e con gran cura e studio sonosi dello andamento delle mortali cose fatti esperti e saggi, confesseranno che per uno o due i quali per privazion di consiglio peccano in isconoscenza, venti o quaranta, eziandio naturalmente disposti alla gratitudine, non la provano, tra per la tiepidezza e renitenza onde sono lor dati i beneficii, e per le dimoranze e le malagevolezze e le umiliazioni che vi si aggiungono.

Aveva Eugenio le sue parole finite, quando Alceste si apparecchiava a dire ancor egli: ma ad Eugenio non piacque di più quivi con esso lui consumar ora; perciocchè avendo poco fa udito non potere il suo amico Benvolo, per non antiveduto caso che lo impediva, dar ricapito alla sua ricolta, egli, senza prego aspettare, tutto a piedi e più che di passo entrò in cammino verso il casal di Benvolo, ivi forse a dieci miglia lontano, per giovar dell’opera sua all’amico, e rendergli mercè di ciò che in suo servigio quegli avea, già erano venti anni, adoperato.

La beneficenza vera Nulla res carius constat, quam quae precibus emitur. . . . Proximus est neganti qui dubitat . . . . Gra-tissima beneficia, ubi nulla mora fuit, nisi in ac-cipientis verecundia . . . . Sic demus quomodo vel-lemus accipere (Senec). Niuna cosa costa più cara, che quella la quale si compera coi preghi . . . . Mettersi in forse è un ap-pressarsi a negare . . . . Benefcii graziosissimi son quelli che non hanno indugio, fuor che nel vergo- gnare di chi li riceve . . . . Diamogli in quella guisa che nor li vorremmo prendere. Nel mondo son tutti ingrati, diceva Alceste. — Così sogliono parlare i più, rispose Eugenio: ma io affermo e confermo che metà della moltitudine che di sconoscenza favella, non sente la virtù del vocabolo. Alceste~k ]Oh che di’ tu! sino i fanciulli di scuola . . . Eugenio~k Non più; credimi, che non per nulla io mi sono invecchiato e incanutito, ed ho trovato per lunga esperienza non essere l’ingratitudine, nella intrinseca significazion del termine, così usitata, com’altri peravventura giudica. Alceste~k Amico, fa che tu me’l dimostri; ed io brucierò subito le Massime del signor de la Rochefoucault, e diventerò amico del genere umano. Eugenia~k Forse che ciò non mi verrebbe fatto sì di leggieri, se io non recassi qui certi di que’casi che tratto tratto veggiamo addivenire. Andatomene io per una mia bisogna a Filandro mio amico, poichè fu egli alquanto sopra sè stato, e per assai affettuoso modo verso me rivoltosi, ebbi in risposta, che a grande sua sciagura egli tenea il non potermene accomodare. Di che io non per me, ma per Filandro fui anzi turbato, che no: perchè il rancore di aver data necessità di dir di no ad un amico, vinse in me il dispiacere di non aver satisfatto il mio disiderio; per la qual cosa se l’amicizia ch’io gli portava, non s’accrebbe, non iscemò certamente, sapendo bene che se Filandro avesse potuto, m’avrebbe senza fallo servito. Quindi ne venni da Benvolo, il qual mi rispose: Sì, amico, mia fortuna mi ti manda in tempo ch’io ti possa aiutare: e questo detto, di presente mi contentò. Di che io, avvegnachè nel vero non fusse egli un grandissimo servigio, fattomi però in tanta opportunità, fui soprappreso da una gratitudine a cui manifestare mi vengono men le parole. Dico solamente, che ben mille per uno avrei renduto a Benvolo. Fu altro punto che io ebbi a richiedere d’alcun mio bisogno Lentilio, il qual, se voluto avesse, poteva incontanente sovvenirmi: ma disse che non me ne poteva allor detto fatto rispondere, e che v’avrebbe pensato. Ed essendo così le cose menate per lunga, e non venendone indietro risposta, tornai da capo a dimandare; ed alla fine mi soddisfece, ma con sì buia fronte, che mi mostrò apertamente non gli dover punto essere stato caro il beneficio ch’ei mi prestava: e per conseguente io, che per me non soglio esser ingrato, non sentii nell’animo molta gratitudine. Stretto pure da certe mie difficoltà, feci conoscere a Misandro, come io aveva mestieri di lui, che mi porgesse aiuto a spedirmene; ed egli si mostrò meraviglioso della mia richiesta; e fatte le viste autorevoli, con gran solennità mi rispose che volea tempo a deliberare. Il quale poichè a convenevol termine fu venuto, io mi feci nuovamente a richiederlo: ed egli tutto in sè raccolto e malinconoso dissemi: se non avere deliberato ancora. Lunghissimo spazio poi tennemi in su lo aspettare, senza alcun pro; tanto che io volli la terza prova tentare. Si pose allora Misandro in un contegno . . . Ma io nol ti saprei ora ritrarre. Bastiti questo, che ogni suo sguardo parea saettassemi il cuore: e se il mio bisogno fosse stato meno stringente, o avessi avuto a chi altri rivolgermi, io, senza sua risposta attendere, per la stomacaggine e l’ira che già m’avea fatta, l’avrei lasciato stare nella sua mala ventura: ma perciocchè tant’oltre erano procedute le cose, io, non potendo indietro farmi, fui costretto a durare la preghiera, fin che il soccorso; ond’io l’avea richiesto, mi diede; ma con tanta ritrosia e cautela e ammonizioni, e appena che io non abbia detto rimproveri, che mi sembrava patir l’affanno della morte. Allora non pur non sentii gratitudine, ma nel mio segreto era tanto innasprito, che con gran fatica seppi celare nel petto lo sdegno concetto contro Misandro. Or gli affetti per me in quelle diverse congiunture sperimentati, sapresti tu spiegarmi? son io dunque stato in queste due ultime uno sconoscente? Certo per tale mi deono tenere Lentilio e Misandro ed altri de’cosiffatti: ma tanto vo’dirti, che di questa colpa le discrete e sensibili persone m’averebbero per iscusato, al giudizio delle quali intendo solamente di attenermi, e ragion rendere delle mie affezioni. La subita disdetta di Filandro mi tolse incontanente la gravezza dell’indugio e della dubitazione: e quella pronta risposta, amichevolmente e senza alcun velo nè sospetto rendutami, ricevetti in luogo di beneficio; perchè mi diede agio di ricorrere a Benvolo, e conseguire il mio intendimento: onde che mi fece più pro Filandro a negarlomi istantaneamente, che non m’avria fatto a sovvenirmene dopo dieci dì. Essendomi stato Benvolo volentieri e senza dimora cortese, fece sì, che del servigio ch’ei mi prestò, potei trarre grandissima utilità; il che fu cagione che io sommamente il gradissi. Oltr’a ciò, è da considerare il modo che usò. Parve che non solamente egli stimasse ciancia l’aiuto che mi dava, ma che intendesse che anch’io lo dovessi per tale ricevere. Anzi fece sembianti di credere che io, dandogli via di dimostrarmi la sua benivolenza, avessi fatta alcuna grazia a lui. Per la qual cosa spense egli anzi che spuntasse, quel ribrezzo e quella umiliazione, e tutto altro che ad un uom di sentimento, nel chiedere sua bisogna, si volge per lo pensiero; lasciommi il cuore aperto alla gioia, all’amicizia ed alla riconoscenza, delle quali io provai tutta la dolcezza, e la provo ancora; nè la memoria del beneficio da Benvolo datomi passerà se non per morte. Dall’altra parte Lentilio pensando e ripensando quello che io gli aveva addimandato, e soprattenendomi e ritardandomi nel bisogno (lasciamo stare che dolorose senza misura eranmi quelle indugie) egli mi fece aver di molti danni, i quali, s’egli prontamente compiaciuto m’avesse, avrei cessati; nè ho potuto per lo suo beneficio, quando ultimamente me lo concedette, del tutto a quelli supplire. Che se a prima egli m’avesse negato, potuto avrei tostamente andar per un altro, che così, come Benvolo fece, m’avesse soccorso di subito e volentieri. — Fummi, nol niego, al desiderio soddisfatto: ma nota che di tal sorta fa il piacer concedutomi, che il bene il quale egli mi fece, appena mi pagò della noia dell’attendere, e della fatica per me, nel dover tornare a’preghi, sostenuta. Che dunque operò egli ad accattar la mia gratitudine? Quando Lentilio, in secondandomi, avesse fatta scusa di sua tardanza, quando avesse formata parola alcuna d’amistà, quando avesse mostro dagli occhi alcun segno d’affezione verso me, ben l’avrei io dentro da me sentito, e ne sarebbe uscito il naturale effetto, cioè la gratitudine. Conciossiachè natura in tutti i cuori abbia di questa gentil passione infusi i semi, i quali quando non mettono ed invaniscono, laddove germogliare e fruttificar potrebbero, è difetto della benivoglienza, che su non vi luce, nè ‘l terreno fecondane. Di que’piacevoli affetti che dalla riconoscenza hanno vita, nullo io in presenza di Lentilio provai, e presi da esso commiato con gran talento di sdebitarmene come prima dato mi si fosse tempo; e posciachè ebbi il mio dover seco fornito, non mi credetti a lui di altro tenuto. Prestommi un aiuto Misandro, quale potea, con la grandezza del frutto ch’ei mi produsse, tutte le fatiche dell’aspettare e delle reiterate istanze ristorarmi. Ma per disavventura non volle Misandro ch’io gli obbligassi la mia gratitudine. Aggiunse egli, nell’atto stesso di conferire il beneficio, tante umiliazioni alle inquietudini che già mi aveva fatto provare, che il piacere del ricevuto beneficio non potè sostenere l’equilibrio. Così Misandro in una grandissima necessità sovvenendomi, mi porse cagione che io men di prima il pregassi ed amassi, mentre che in una piccolissima Benevolo mi prese e legò per sempre al cuor suo; così non mi divenne più amico, oltre l’usato, Lentilio tardi appagandomi, che Filandro di presente disdicendomi. Se io ho bene riguardato i modi degli uomini questo lungo spazio che ci sono vivuto, posso affermare sopra la mia fede, non essere le vere ingratitudini così spesse e comunali, come inchinano ad opinare alcuni che le cose addentro non vedono. Anzi ho io per fermo che coloro i quali sanno delle umane venture i movimenti interiori, e con gran cura e studio sonosi dello andamento delle mortali cose fatti esperti e saggi, confesseranno che per uno o due i quali per privazion di consiglio peccano in isconoscenza, venti o quaranta, eziandio naturalmente disposti alla gratitudine, non la provano, tra per la tiepidezza e renitenza onde sono lor dati i beneficii, e per le dimoranze e le malagevolezze e le umiliazioni che vi si aggiungono. Aveva Eugenio le sue parole finite, quando Alceste si apparecchiava a dire ancor egli: ma ad Eugenio non piacque di più quivi con esso lui consumar ora; perciocchè avendo poco fa udito non potere il suo amico Benvolo, per non antiveduto caso che lo impediva, dar ricapito alla sua ricolta, egli, senza prego aspettare, tutto a piedi e più che di passo entrò in cammino verso il casal di Benvolo, ivi forse a dieci miglia lontano, per giovar dell’opera sua all’amico, e rendergli mercè di ciò che in suo servigio quegli avea, già erano venti anni, adoperato.