Roveredo 15 gennajo 1765.
Fra le innumerabili opinioni false che nella nostra sapiente Italia sono universalmente adottate per vere, non è la meno falsa quella che tutti abbiamo intorno alla lingua nostra, che da noi tutti è senza il minimo scrupolo giudicata superiore in bellezza a tutte le lingue viventi, e pareggiata eziandio con molto audace franchezza alla lingua latina e alla lingua greca.
La bellezza d’una lingua nessuno mi
Questo è verissimo, signori miei. Il Vocabolario della Crusca contiene quattro mila vocaboli più che non contengono que’due. Nulladimeno piacciavi osservare che de’vocaboli registrati nella Crusca noi non facciamo uso, e nel nostro discorso e nel nostro scrivere, che di due terzi al più, e che gl’Inglesi e i Francesi, vuoi ne’loro scritti o vuoi ne’loro parlari, adoprano quasi ogni parola registrata in que’Vocabolarj loro.
Che i Francesi facciano così com’io dico, non occorre provarlo,
essendo cosa notissima a chiunque è a mala pena iniziato in quelle
lingue. E che gl’Italiani non adoprino un buon terzo de’vocaboli abbadessa, che ha
per equivalente « abadessa e badessa; abbastanza, che ha per equivalente a bastanza, » e simili:
togliamole un poco tutti i vocaboli de’battilani di Camaldoli e
de’trecconi di Mercato Vecchio, come « a bambera, abbiosciare,
abbominoso, abbondoso, » e simili: togliamole un poco tutti i
vocaboli de’contadini, come « a bacìo, abbatacchiare, abbatuffolare,
» e tant’altri posti quivi in grazia solo d’alcune poche
composizioncelle scritte in lingua rustica fiorentina, o pratese, o
montelupiana, o poggiocajana: e finalmente togliamole un poco tanti
vocaboli sporchi, e canaglieschi, e infamissimi, che furono con
troppo biasimevole disprezzo del buon costume ficcati e in quella e
in tutte l’altre lettere dell’alfabeto (scusatemi se non dico
abbiccì) da’costumatissimi signori accademici. Vogliamo noi dire,
padroni miei, che tolte tutte queste perle e tutti questi rubini da
quel Vocabolario, si rimarrà tuttavia più ricco di quello di Johnson
e di quello dell’Accademia fran-
Ma giacchè sono a dire di quel registro di vocaboli toschi tanto
venerato dalla sapiente Italia, come non si vergognarono i suoi
compilatori di cavar il titolo d’un libro sommamente importante di
sua natura e necessario ad ogni paese, da un puerile concettuzzo
sopra uno stromento che serve a separare la farina dalla crusca?
Potevano le signorie loro mostrarsi più ragazzesche di quello che
hanno fatto, rendendo solenne e serio uno scherzo miserabilissimo
sopra un buratto? Oh possanza di menti quasi divine, che dopo un
lungo e profondissimo speculare trovarono finalmente che
un’accademia s’assomiglia a un buratto, e che i buoni vocaboli d’una
lingua s’assomigliano tanto alla farina
Qual maraviglia è dunque, signori miei, se gente capace di render serio e solenne un così povero concettuzzo, non ebbe poi tanto discernimento da vedere che i nomi superlativi era cosa inutile il registrarli nel vocabolario loro? Se non seppero scorgere che i vocaboli invecchiati non occorreva alfabetarli quivi, poichè il farne uso non ci è, e non ci dev’essere concesso? qual maraviglia se non s’avvidero che i vocaboli puramente fiorentini, e quelli del contadiname di Fiesole e di Mugello non s’avevano a considerare come pezzi della nostra lingua universale? E se non si fecero coscienza di ricogliere pe’viottoli o pe’postriboli della città loro tanti vocaboli sporchi, e canaglieschi, e infami infamissimi? Questa, padroni miei, questa era la crusca che doveva essere separata dalla farina da que’barbuti patrassi, che senza legittimo diritto si crearono sovrani d’una lingua parlata da una nazione così numerosa qual è quella che abita dall’orlo sino alla punta di quel bellissimo stivale chiamato Italia!
Che questa sia l’idea che noi dobbiamo avere della lingua d’adoperarsi ne’libri, basta osservare che nè in Parigi nè in altra terra di Francia si parla la lingua pretta e schietta de’libri francesi, e che nè in Londra, nè in altra terra della Gran Bretagna si parla la lingua pretta e schietta de’libri inglesi: nè credo che alcuno vorrà mai dire che in Atene o in altra terra greca si parlasse la lingua che scrissero gli Omeri, i Platoni, i Demosteni, gli Aristoteli, i Plutarchi, e finalmente tanti santi padri greci: nè credo che alcuno si vorrà persuadere che in Roma antica, o in altra parte dell’antica Italia, la gente favellasse con quell’abbondanza, con quella pulizia, con quella forza e con quell’ordine che troviamo negli scritti de’Cesari, de’Ciceroni, degli Orazj e de’Virgilj.
La lingua dunque de’libri d’una nazione è stata sempre alquanto
diversa da quella che si parla da questo e da quell’altro parlicolar
corpo di quella nazione: è stata sempre una lingua più copiosa che
non il parlar comune d’alcuno di que’corpi considerato
separatamente: è sem-
E di fatto che diavolo sono stati mai, considerandoli come scrittori,
que’loro frati Giordani, o frati Jacoponi, verbi grazia, che «
prediconno quale in santa Liparata il dì di Berlingaccio, quale in
nostra donna dell’Impruneta, o della ‘m-
Ma piano un poco, Aristarco mio, con questi nostri autori del secolo
buono per antonomasia, che fra di essi v’è pure un tal Giovanni
Boccaccio, al quale per Santa Nafissa non si
vergognerebbero far di berretta non solo i tuoi Bossuet, e i Racini,
ma eziandio i Ciceroni, e i Demosteni medesimi! Lo sai tu, arcigno
criticastro, chente Cotestui valesse? Lo sai
tu che questo Messere fu il più copioso, il
più corretto, il più elegante, il più dotto, il più maraviglioso
scrittore che mai calcasse terra da qui sino agli antipodi?
Accoccala anche al Boccaccio se ti basta la vista.
Poh, signori miei! Ora sì, che l’avete trovato il vitello d’oro, a
cui mi butto ginocchioni immediate! Sì, signori; io chino il capo
umilmente a questo immortale Certaldese,
e confesso che ammiro con la più profonda venerazione la sua
Marchesana di Monferrato con le sue Galline; i suoi Giudici divoti
del Barbadoro; i suoi Martellini infinti femmine; i suoi Re del
Garbo che si prendono per pulzelle le figlie de’Soldani; i suoi
Ortolani da Lamporecchio con le lor Monache; i suoi Agilulfi che
tondono que’che dormono; i suoi Calandrini con le loro Elitropie, e
tant’altre sue stupende fila-
Vomitato questo enorme sproposito da un’immensa turba di famosi
latinisti, che appunto ammirarono il Boccaccio perchè lo scorsero un
servile imitatore de’Latini nel suo scrivere toscano, non è da
stupirsi se gli Accademici della Crusca succeduti tanto d’appresso a
que’famosi latinisti, si conformarono al sentimento di quelli, e se
ne lo diedero pel più perfetto esemplare di scrivere che s’abbia o
che mai possa aversi in Italia. Ed è meno ancora da stupirsi, se il
più degli uomini, che sono per natura pigri di mente come di corpo,
e sempre più disposti a credere che non a far la fatica d’esaminare;
non
Ma io m’avveggo, Padri Coscritti, che il mio dire va diventando
soverchio prolisso, onde lo tronco, e faccio fine per oggi,
assicurandovi però che, vogliate o non vogliate, io intendo tornare
qualch’altro giorno a sedermi su questo vostro buratto, ed esaminare
e discutere ben bene in un’altra diceria come questa, o in due
altre; o in dieci altre, un argo-
Il dottore Cocchi in un suo discorso sopra Asclepiade s’è
mostrato persuaso che il secolo scorso sia stato più dotto di
qualunque altro secolo; e chi volesse combattere l’opinion sua non
avrebbe di sicuro mediocre faccenda, perchè di qualche greco secolo
che solo potrebbe per dottrina contrapporsi al secolo scorso, noi
non abbiamo che poche, incerte e confuse notizie, non rimanendoci
che frammenti soverchio piccoli dell’opere di quegli uomini, i quali
dalle rimote età furono considerati come i non plus ultra del sapere
umano; senza contare che di molti ci rimane poco più altro che i
nudi nomi, e che di molt’altri è assai probabile non ci rimanga
neppur tanto. Noi sappiamo a mala pena chi fossero e che si
facessero i Taleti, gli Anassagori, gli Epicuri, i Zenoni, gli
Archimedi, i Pitagori,
Checchè nientedimeno paresse al Cocchi di que’suoi quasi
contemporanei, e checchè de’Greci ne potesse parere a lui e a noi,
se il tempo avesse lasciata intatta fino a’dì nostri la biblioteca
di Tolomeo, o quella di Seleuco, a me non sembra certamente, come
non sembrava neppure al Cocchi, che a fronte degli autori del
passato secolo sieno in alcun modo da mettersi quegli altri che
illustrarono il secolo decimoquinto. Quegli autori del secolo
decimoquinto io non potetti mai averli nel sommo grado di
venerazione in cui si hanno tutt’ora da innumerabili nostri paesani:
anzi mi sia permesso dire al proposito loro, che nella nostra
contrada si vanno tutt’ora facendo delle troppo lun-
Esortiamo dunque, signori, i nostri giovanetti studiosi a leggere un tratto, e anche due, e tre, gli autori del cinquecento, ma inculchiamo loro incessantemente questa verità, che dopo d’aver letti i Cinquecentisti insieme coi Greci, e co’Romani non distrutti dal tempo, fa d’uopo che passino i dì e le notti su quegli autori sì ammirati dal filosofo Mugellano quando vogliano pure rischiararsi prestamente l’intelletto, e quando vogliano veramente far passi da gigante attraverso le vastissime regioni della letteratura e dello scibile.
Siccome però le voci de’panegiristi del cinquecento sono tante in
Italia che l’assordano tutta, e perchè vedo necessario per farli
alquanto tacere il dare qualche cosa di più che de’consigli e delle
massime generali a’nostri giovanetti studiosi, onde pongano di
buonora i piedi dove van posti senza badar soverchio a quelle molte
voci, ho giudicato a proposito di accingermi in questo e ne’futuri
fogli alla forse poco popolare intrapresa di rendere un po’ meno
venerandi negli occhi loro alcuni de’più celebrati Cinquecentisti,
ed esaminando questo e quell’altro lor libro
E fra quegli infuriatissimi panegiristi qual è quello che possa ragionevolmente sgridarmi, s’io disapprovo affatto lo stesso sonetto proemiale del Bembo alle sue rime che probabilmente gli ha costato più lavoro che non alcuno de’susseguenti? Or via, leggiamone il
Quadernario.
« Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra,
Ch’io ebbi a sostener molti e molt’anni,
E la cagion di così lunghi affanni;
Cose rado o non mai vedute in terra ».
Chi si sarebbe aspettato mai di sentire da un uomo qual era
il Bembo, anzi pure da alcun uomo, che non s’è mai
più veduta in terra (si sarà forse veduta in una guerra sì aspra qual fu quella sostenuta molt’anni da lui contro la
ritrosia, m’immagino, della sua ninfa? Nel secolo in cui viviamo
queste esagerazioni idropiche non si adoperano più nè in voce nè in
iscritto da chi parla sul serio; e non è permesso ad altri che a
Truffaldino sul teatro l’esprimersi per baja così
ampollosamente.
Secondo
Quadernario.
« Dive, per cui s’apre Elicona e serra,
Use far a la morte illustri inganni,
Date a lo stil, che nacque de’miei danni,
Viver, quand’io sarò spento e sotterra. »
Questo nostro secolo non permetterebbe neppure che in un
così breve discorso qual è quello che si fa in un sonetto, si
pigliasse un salto così smisurato qual è quello preso qui dal Bembo,
che abbandonando senza che nessuno se l’aspetti le idee di strazio e di guerra,
si precipita ai piedi delle Muse, e le scongiura a rendere le sue
rime immortali.
« Che potranno talor gli amanti accorti,
Queste rime leggendo, al van desìo
Ritoglier l’alme col mio duro esempio; »
Un poeta del nostro secolo sarebbe biasimato e deriso se
dicesse, come fa qui il Bembo, una cosa di cui non è, e non può
essere persuaso. Il Bembo non poteva certamente persuadersi che il
leggere
« E quella strada, ch’a buon fine porti,
Scorger da l’altre; e quanto adorar Dio
Si debba solo al mondo, ch’è suo tempio. »
Il Bembo ha qui spiccato un altro salto che non
m’aspettavo. E come avrei potuto aspettare che dopo quella sua
guerra mai più veduta, e dopo quella sua preghiera alle dive
d’Elicona, e dopo quelle sue scempiate speranze di togliere in quel
suo strano modo gli uomini dall’amare le donne crudeli, come avrei
io potuto aspettare ch’egli dovesse tombolar giù così di repente
nella morale cristiana e conchiudere che, dopo d’aver letto come la
sua tenerezza e la sua fedeltà fu mal premiata da madonna, il
leggitore innamorato avrebbe non solo potuto disinnamorarsi, ma
imparar dalle sue rime ad
adorare solo Dio nel mondo? I poeti fanno
bene senza dubbio a ricordarsi sovente che sono cristiani: non
bisognerebbe però che profanassero poi il nome del vero Dio
mettendolo nella chiusa d’un sonetto in cui s’è parlato sul serio
delle deità favolose, come lo sono quelle dive d’Elicona. Questi
indecenti pasticci di paganesimo e di cristianesimo sono
biasimatissimi nel nostro secolo, e molto a ragione. Lascio poi
anche andare che questi ultimi versi sono assai deboli e poco
armoniosi, perchè voglio soltanto dire di qualche pensiero del
Bembo, e del suo modo di legare le sue idee insieme, senza troppo
badare al buono o al cattivo meccanismo de’suoi versi. Passiamo ad
altri suoi componimenti.
Nel sonetto settimo egli esprime un molto strano desiderio, e che non farebbe mal effetto sulla scena, se fosse espresso da qualcuno de’nostri comici.
Il Bembo non fece qui riflessione che s’egli avesse avuto
il cuore di cristallo non avrebbe potuto amar madonna; che la
densità naturale del suo petto e di tutte le parti che stanno tra il
cuore d’un uomo e gli occhi d’una donna avrebbero
Nel sonetto nono, dopo d’aver detto che madonna aveva un giorno i
capegli di dolce oro sparpagliati sul collo,
soggiunge con subitano entusiasmo.
Oltre che molto bisbetica è l’immagine d’un cuore involto e stretto ne’capegli d’una donna, come può essere che una cosa sia attualmente involta in una cosa attualmente sparsa.
Nella canzone xxix dice:
Con questa allegoria il Bembo ne vuol dire, cred’io, che
giunto alla metà della sua vita, o alla virilità, Amore gli aveva
presentata una donna che secondo i soliti ghiribizzi de’poeti aveva
i capegli somi-
Nelle stanze del Vero Amore, che sono lubriche
troppo più del dovere, alla stanza xli,
narrando come tutte le creature sentono la forza di quella passione
che ne fa cercare di riprodurci, il Bembo dice, fra l’altre belle
cose, che
Credo voglia dire per tutto dove è ombra.
Ma le rondinelle si cinguettavano forse a’tempi del Bembo i loro mutui amori su quella sorte d’alberi, come fanno tant’altre sorte d’uccelli a’dì nostri? Diciam piuttosto che il Bembo era tanto poco cacciatore, o tanto poco naturalista, che non distingueva le rondini da’fringuelli e dagli altri piccoli pennuti vaghi di stare su pe’faggi e su pe’pini, cosa che le rondini non sogliono fare massimamente quando si fanno l’amore.
Il Bembo comincia il sonetto cviii con
questi versi.
Quanto raggio del ciel in voi riluce,
Nel laccio in ch’io già fui mi riconduce
Dopo tant’anni, e preso a voi mi rende ».
Capisco benissimo che le dolci parole (chiamate qui dolce suono forse impropriamente) possano
ricondurre un amante in un laccio, come col suono d’un corno da
caccia si può ricondurre una fera in un dato luogo, e come col suono
di molte padelle e di molte pignatte si può far entrare uno sciame
di pecchie in un’arnia, ma non capisco come per mezzo d’un suono
s’intenda chiaro che un buon pezzo di raggio riluca in una donna.
Se ogni autore che s’accinge ad accrescere il numero
de’libri stampati volesse prima di por mano alla penna darsi
l’incomodo d’esaminare quanti ne siano già stati regalati al
mondo da altri autori su
Ma perchè il fare un esame che generalmente mortifica un po’
troppo l’amor proprio non è cosa di sua natura piacevole,
pochissimi sono quelli che vogliano mettersi da buon senno a
farlo; e se qualcuno vi si mette, non lo fa mai con soverchio
scrupolo, e con la debita imparzialità. Quindi avviene che
que’poveri torchj sono tuttodì costretti a gemere
disperatamente, e che i libri si vanno perennemente
multiplicando senza che a quel gran capitale di scienza già
contenuto in tanti vecchi libri, si faccia mai la minima
aggiunta co’libri nuovi: quindi avviene che non si fa altro
da’nostri odierni autori se non dire e ripetere quello
Ma (mi dirà qualcuno de’nostri autori) ma che hanno appunto a
fare cotesti nostri librai e cotesti nostri stampatori se noi
non abbiamo più a scrivere de’libri? Lettere di My Lady Worthley Montaigue.
lettere ve ne sono
alcune dirette ad uno d’essi, cioè al Pope. Messisi in viaggio i
due conjugi, la dama cominciò a scrivere or a questa ed or a
quella persona da lei lasciata nella patria, descrivendo ora uno
ed ora un altro de’luoghi
Il volume contiene cinquantadue lettere.
Le prime ventidue descrivono cose e
costumi di quelle parti d’Olanda e di Germania attraversate da
My Lady. In alcune ella deride con molta vivace acrimonia il
fanatismo e la superstizione d’alcuni religionisti di que’paesi:
in altre dipinge molto tizianescamente questa e quell’altra
cosa, ed in particolare la galanteria e la magnificenza d’alcune
corti del Norde, estendendosi assai su quella di Vienna. In
quelle scritte da Petervaradino e da Belgrado, oltre a qualche
ragguaglio de’costumi e delle cose d’Ungheria, si trovano delle
notizie di que’tempi che riescono molto dilettevoli a leggersi,
e una maestrevole e singolar pittura del carattere modo d’innestar il vajuolo usato dagli
abitanti della Turchia per rimediare al grave danno che viene
naturalmente cagionato da quel bruttissimo male. Di quel rimedio
a quel male non si aveva neppur idea in Europa prima che questa
Lady andasse in que’paesi, quantunque colà fosse cosa usata
comunemente e universalmente, e forse da molti secoli, tanta è
l’inettezza e la vituperosa negligenza de’viaggiatori nostri,
che invece di badare a cose di qualche utile, e notarle in carta
per poi regalarle al genere umano colle stampe, non sanno far
quasi altro che badare a rovine d’edifizj e ad epitaffi: ne è
meno biasimevole la
L’altre lettere che sieguono, e che dicono il soggiorno di My
Lady in Costantinopoli e ne’suoi contorni, e quelle che vanno
progressivamente narrando la sua tornata in Inghilterra, sono
tutte curiosissime, e piene d’osservazioni sempre belle e sempre
singolari: e in somma questo è un libretto dal quale s’imparano
più cose non sapute prima, che non se n’imparano da qualsivoglia
altro libro pubblicato da cent’anni in qua.
« Del nostro nojoso viaggio non occorre farvi lunghe parole. Vi
voglio però raccontare una cosa assai rimarchevole da me vista a
Sofia, che è una delle belle città
dell’impero turchesco, e sì famosa pe’suoi bagni caldi, che
moltissime persone vengono a visitarla chi per salute, e chi per
divertirsi. Io mi fermai colà un giorno intiero apposta per
vedere que’bagni, a’quali volendo andare incognita, andai in una
carrozza turca. Queste carrozze non sono, come le nostre,
guernite di cristalli, che riuscirebbono qui troppo incomodi a
cagione del soverchio ardore del sole. S’assomigliano piuttosto
a que’cocchi o quotidiani o ebdomadarj, di cui fanno uso gli
Olandesi per condurre genti da luogo a luogo, e che hanno quelle
finestrelle a graticci. Sono poi colorite e indorate di fuora, e
di dentro
« In una di queste vetture me ne andai dunque al bagno due ore
prima del mezzodì, e lo trovai già tutto pieno di donne. Egli è
fabbricato di pietra viva colle finestre nel tetto, e non
ne’muri. Contiene cinque stanze che tutte sono fatte a cupola.
La prima stanza, che è più piccola dell’altre, serve solo
d’entrata, e quivi sta la portinaja, alla quale tutte le donne
che vengono al bagno donano qualche moneta. La seconda stanza è
molto ampia, col pavimento di marmo, e intorno ha due sofà pur
di marmo a modo di due grandi scaglioni. Quivi sono quattro
spilli che buttano acqua fredda, la quale prima cade in
altrettanti gran vasi di marmo, e quindi scorre pel pavimento in
canaletti che la conducono nella camera vicina. Questa è
alquanto men grande, e ha pure i suoi due sofà di marmo; ma
« Io aveva intorno la mia veste da viaggio, foggia d’abito che
dovette certamente parere molto strana a quelle donne. Tuttavia
nessuna d’esse ne fece le magne maraviglie, e nessuna mi venne a
squadrare con impertinente curiosità, ma tutte mi ricevettero
con molta serena cortesia. Non conosco alcuna corte in Europa,
in cui una donna così straniera com’io doveva riuscir loro,
fosse trattata con tanta bella creanza. Quantunque fossero
vicino a dugento, neppure una sogghignò sott’occhi, e neppur una
bisbigliò con malignità nell’orecchio alla compagna; cosa che
avviene costantemente nelle nostre assemblee tosto che alcuna vi
appare non vestita secondo la più esatta moda. Esse non fecero
che ripetere tutte insieme assai volte uzelle
peck uzelle, che significa oh bella
oh molto bella! I sofà più bassi erano coperti da
guanciali e da ricchi tappeti, e quivi sedevano le padrone. Su i
più alti stavano le loro schiave, non distinguibili troppo dalle
padrone, perchè tutte quante
« Io mi riconfermai quivi in una mia vecchia opinione, che se la
gente andasse ignuda, la faccia delle donne sarebbe la meno
guardata, perchè la vista mi fu tutta rapita dalla candidezza
maravigliosa e dalla bellissima proporzione de’corpi d’alcune
che avevano i visi assai men belli d’alcune altre. A dirvi il
vero, My Lady, io fui cattiva a segno in quel luogo, che
desiderai d’avere invisibile al mio fianco il nostro pittore
Gervasio. Egli avrebbe senza dubbio migliorato d’assai il suo
dipingere, contemplando tante belle donne in tante differenti
attitudini, quale
« Addio My Lady. Sono certa d’avervi intrattenuta assai bene col
racconto d’uno spettacolo da voi non veduto mai a dì vostri, e
che non si può leggere in alcun libro d’alcun mascolino
viaggiatore, perchè se alcun uomo trovasse modo d’entrar
ne’bagni delle donne turche, sarebbe posto a morte
irremissibilmente ».
L’altra lettera di My Lady si darà nel seguente numero, non
avendo potuto aver luogo in questo.