La ricerca della felicità Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Valentina Rauter Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 19.12.2016

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Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 158-161 Lo Spettatore italiano 4 22 1822 Italien
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La ricerca della felicità

Il n’est point de route plus sûre pour aller au bon-heur que celle de la vertu, Si l'on y parvient, il est plus pur, plus solide et plus doux par elle, si on le manque, elle seule peut en consoler

(Rousseau).

Alla felicità niun cammino così dirittamente conduce come quello della virtù. Perciocchè se a quella si arriva, questa la rende più sincera, più durabile e più dolce: se no; sola questa vi può mettere com-penso.

Pochi sono gli uomini felici, perchè là ove meno suole, o là ove non può stare, cercano di felicità. La pongono certi nel processo non interrotto di piaceri, non altrimenti che se la nostra natura e il nostro destino quella continuazione sofferissero. Alcuni chiamano felicità uno stato di averi, di potenza e di fama; quasi in ogni condizione e in ogni grado non avesse di molti felici, o più una che altra fiata non istesse meglio assai che un monarca l’ultimo artista. Ad alquanti nulla ad esser felici manca; se non che affannandosi eglino di soverchio nell’aumento della felicità, la si convertono in miseria. Molti altri finalmente vorrebbero esser felici; ma nulla fanno per divenire, e addossano sempre altrui il pensiere di questo bene che tanto sospirano: essi non sanno che quanto più l’uomo da se stesso dipartesi, tanto più lunge dalla felicità si rimuove.

In una brigata d’amici che avevano tutti giuocato al lotto, si ragionava della speranza che avea ciascuno di essere fortunato, vincendo buona somma: e un di loro chiese a chi gli era al lato, che sarebbe se gli toccasse questa fortuna: Dirollo volentieri, colui rispose, purchè ciascuno di noi prometta di palesare come si goderebbe egli la sua buona ventura. Alla qual cosa essendosi tutti convenuti, Sibario seguitò in questa forma: “Non ho io mai tanto avuto che a possedere gran moltitudine di svariati piaceri mi bastasse, ma ho avuto gran destro di tutti quanti conoscerli per lo mondo. Or se m’aiuterà la fortuna, ho nell’animo di raunare tutte le delizie che venute mi sono per sessanta anni assaggiate: ed allora gavazzando io nella gioia, e potendo ad ogni mio desiderio soddisfare, mi terrò pienamente beato. Curerà della mia salute ben salariato un grande e valente medico, sicchè soprapprendendomi fra le dolcezze e i tesori la morte, mi verrà in forma di sonno.” Siffatta disposizione di felicità piacque ai duo che di costa a Sibario sedevano, per modo che ei l’abbracciarono tutta quanta; tranne che l’uno soggiunse, essere mestieri un buon cuoco, perchè lo stare a tavola è il più piacevole e più reiterato di ogni sollazzo. E certo al solo guatar costui si vedea quanto dovesse esser ghiotto. L’altro affermò che conveniva dalle più remote parti del mondo far venire i migliori vini, pur commendando il succo di Bacco per la più sincera fonte di felicità. E ben diceva la sua faccia paonazza, la sua vita essere il vino.

“Non consumerò io, disse Vindicio, le mie ricchezze se non se in deprimere, conculcar e far crepar d’invidia due vicini, la cui oltracotanza e le cui dovizie mi danno crucio e mi fanno strascinar tutta la vita in afflizione. Splendidissime livree ed arredi dei più appariscenti, per oscurar i loro, terrò io; e preoccuperò loro tutti gli onori e le precedenze.” Non fu consentito a questi avvisi, certamente perchè s’avvidero i suoi amici che egli, se peravventura arricchisse, anderebbe a trattarli come i suoi vicini. Ginofilo, come quegli che della felicità che dall’odio e dalle altre impetuose passioni potesse nascere, si faceva meraviglia, disse: “Ella solamente nella soavissima affezione del cuore, cioè nell’amore, ha suo seggio. Per la qual cosa io m’ingegnerò per tutto di trovare ed unire tutte le belle donne che ci saranno, non per amarle tutte, ma per eleggere quella che più invaghisse di sè il mio cuore, e per conseguente amare quella che più teneramente mi amasse.

Marzio, il quale in milizia provinciale era sotto-tenente, disse che s’avria comperato un reggimento, col quale gli dava il cuore di diventare generale infra poco tempo; perciocchè egli non aveva altro diletto trovato che di condurre un esercito, nè altro bene che di acquistare una vittoria. “Caro costa una vittoria, rispose Onorio, sostituto d’un ministro: quanto a me, io con le ricchezze vorrei procacciarmi amici e nome, per tosto giungere al ministero. E ove gustasi maggior dolcezza, che in poter far grazie e reggere il fren dello Stato?”

“Ambizione io non ho, disse Filotimo, o se l’ho, è ella più da pregiare. La mia casa vorrei far essere il ricetto delle scienze e delle arti, in guisa che per mecenate loro m’avessero i letterati e gli artisti.”

Or che è questo? diss’io dentro a me, quando usciva fuori di questa conversazione. Adunque i buoni ed onorati, nei loro desiderii più cari, e nelle loro più dolci speranze di felicità, altro a sè non propongono che godere di sensuali voluttà, e sfogar l’odio loro, o la vanità, o l‘ambizione? E virtù ed onore tengono a vile, o almeno non si curano del comun bene? O sciaurati e ciechi! Desiderano felicità, e non sanno, quella nel giustamente misurar le voglie con la possibilità di appagarle, dimorare. Sarà sempre misero chi non si briga di esser felice con poco. Fa altrui benavventuroso non aura di fortuna, ma sua ragione e suo senno. Al savio s’aspetta esser felice; e ciò incontra perchè di tutti i mortali solo egli è colui al quale tanto nè quanto non può detrarre la fortuna.

La ricerca della felicità Il n’est point de route plus sûre pour aller au bon-heur que celle de la vertu, Si l'on y parvient, il est plus pur, plus solide et plus doux par elle, si on le manque, elle seule peut en consoler (Rousseau~k). Alla felicità niun cammino così dirittamente conduce come quello della virtù. Perciocchè se a quella si arriva, questa la rende più sincera, più durabile e più dolce: se no; sola questa vi può mettere com-penso. Pochi sono gli uomini felici, perchè là ove meno suole, o là ove non può stare, cercano di felicità. La pongono certi nel processo non interrotto di piaceri, non altrimenti che se la nostra natura e il nostro destino quella continuazione sofferissero. Alcuni chiamano felicità uno stato di averi, di potenza e di fama; quasi in ogni condizione e in ogni grado non avesse di molti felici, o più una che altra fiata non istesse meglio assai che un monarca l’ultimo artista. Ad alquanti nulla ad esser felici manca; se non che affannandosi eglino di soverchio nell’aumento della felicità, la si convertono in miseria. Molti altri finalmente vorrebbero esser felici; ma nulla fanno per divenire, e addossano sempre altrui il pensiere di questo bene che tanto sospirano: essi non sanno che quanto più l’uomo da se stesso dipartesi, tanto più lunge dalla felicità si rimuove. In una brigata d’amici che avevano tutti giuocato al lotto, si ragionava della speranza che avea ciascuno di essere fortunato, vincendo buona somma: e un di loro chiese a chi gli era al lato, che sarebbe se gli toccasse questa fortuna: Dirollo volentieri, colui rispose, purchè ciascuno di noi prometta di palesare come si goderebbe egli la sua buona ventura. Alla qual cosa essendosi tutti convenuti, Sibario seguitò in questa forma: “Non ho io mai tanto avuto che a possedere gran moltitudine di svariati piaceri mi bastasse, ma ho avuto gran destro di tutti quanti conoscerli per lo mondo. Or se m’aiuterà la fortuna, ho nell’animo di raunare tutte le delizie che venute mi sono per sessanta anni assaggiate: ed allora gavazzando io nella gioia, e potendo ad ogni mio desiderio soddisfare, mi terrò pienamente beato. Curerà della mia salute ben salariato un grande e valente medico, sicchè soprapprendendomi fra le dolcezze e i tesori la morte, mi verrà in forma di sonno.” Siffatta disposizione di felicità piacque ai duo che di costa a Sibario sedevano, per modo che ei l’abbracciarono tutta quanta; tranne che l’uno soggiunse, essere mestieri un buon cuoco, perchè lo stare a tavola è il più piacevole e più reiterato di ogni sollazzo. E certo al solo guatar costui si vedea quanto dovesse esser ghiotto. L’altro affermò che conveniva dalle più remote parti del mondo far venire i migliori vini, pur commendando il succo di Bacco per la più sincera fonte di felicità. E ben diceva la sua faccia paonazza, la sua vita essere il vino. “Non consumerò io, disse Vindicio, le mie ricchezze se non se in deprimere, conculcar e far crepar d’invidia due vicini, la cui oltracotanza e le cui dovizie mi danno crucio e mi fanno strascinar tutta la vita in afflizione. Splendidissime livree ed arredi dei più appariscenti, per oscurar i loro, terrò io; e preoccuperò loro tutti gli onori e le precedenze.” Non fu consentito a questi avvisi, certamente perchè s’avvidero i suoi amici che egli, se peravventura arricchisse, anderebbe a trattarli come i suoi vicini. Ginofilo, come quegli che della felicità che dall’odio e dalle altre impetuose passioni potesse nascere, si faceva meraviglia, disse: “Ella solamente nella soavissima affezione del cuore, cioè nell’amore, ha suo seggio. Per la qual cosa io m’ingegnerò per tutto di trovare ed unire tutte le belle donne che ci saranno, non per amarle tutte, ma per eleggere quella che più invaghisse di sè il mio cuore, e per conseguente amare quella che più teneramente mi amasse. Marzio, il quale in milizia provinciale era sotto-tenente, disse che s’avria comperato un reggimento, col quale gli dava il cuore di diventare generale infra poco tempo; perciocchè egli non aveva altro diletto trovato che di condurre un esercito, nè altro bene che di acquistare una vittoria. “Caro costa una vittoria, rispose Onorio, sostituto d’un ministro: quanto a me, io con le ricchezze vorrei procacciarmi amici e nome, per tosto giungere al ministero. E ove gustasi maggior dolcezza, che in poter far grazie e reggere il fren dello Stato?” “Ambizione io non ho, disse Filotimo, o se l’ho, è ella più da pregiare. La mia casa vorrei far essere il ricetto delle scienze e delle arti, in guisa che per mecenate loro m’avessero i letterati e gli artisti.” Or che è questo? diss’io dentro a me, quando usciva fuori di questa conversazione. Adunque i buoni ed onorati, nei loro desiderii più cari, e nelle loro più dolci speranze di felicità, altro a sè non propongono che godere di sensuali voluttà, e sfogar l’odio loro, o la vanità, o l‘ambizione? E virtù ed onore tengono a vile, o almeno non si curano del comun bene? O sciaurati e ciechi! Desiderano felicità, e non sanno, quella nel giustamente misurar le voglie con la possibilità di appagarle, dimorare. Sarà sempre misero chi non si briga di esser felice con poco. Fa altrui benavventuroso non aura di fortuna, ma sua ragione e suo senno. Al savio s’aspetta esser felice; e ciò incontra perchè di tutti i mortali solo egli è colui al quale tanto nè quanto non può detrarre la fortuna.