Il buon re Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Valentina Rauter Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 30.11.2016

o:mws-117-1087

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 78-85 Lo Spettatore italiano 4 10 1822 Italien
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Il buon re

Vide, quaeso, quam pauci sint principes boni, ut bene dictum sit, in uno anulo bonos principes posse perscribi atque depingi

(Vopisc. in Aureli. cap. 42).

Considerate, di grazia, quanto radi sieno i buoni prin-cipi, e come sia detto acconciamente che un solo anello può in sè contenerne i nomi e l’effigie.

Amenofi si fu uno de’più grandi e ad un tempo degli ottimi re dell’antico Egitto: giacchè il comune degli uomini ha falsamente distinto queste due qualità, come se l’amore e la felicità dei popoli non valessero soli a costituire la verace grandezza dei re. Giusta le leggi dell’impero, le quali regolavano perfino le menome azioni del principe, la sua educazione fu commessa ad uomini per sapienza e virtù riveriti e famosi. Posero elli dapprima tutta lor cura nel prevenire l’orgoglio che in lui poteva suscitarsi dal pensare sè esser nato al trono, mostrandogli che la sua nascita non differiva punto da quella degli altri, e che aveva salutato esso pure la luce del giorno coi pianti, e che l’aria da lui respirata per la prima volta gli aveva servito, come agli altri, a formare delle grida. Quindi, per tener lungi dalla sua mente ogni idea di falsa grandezza, gli furono dati a compagni alcuni fanciulli della medesima età, i quali erano, siccome lui, addestrati in tutti gli esercizi del corpo e dell’ingegno; e ciò perchè vedesse in loro non solamente chi lo emulasse e lo pareggiasse, ma ben anco chi lo vincesse: in quanto che molti di essi erano dotati di talenti e di virtù singolari. Così imparò egli per tempo a discernere quanto il personal merito sia diverso dalla maggioranza che viene altrui dallo splendor della nascita e dai beni della fortuna. I saggi educatori gl’instillarono pure la pietà, e l’ammaestrarono a render suo dritto a Dio, bene avvisando che l’idea d’un Essere soprastante ai re è il solo freno che li può contenere nei limiti del dovere e nell’ossequio delle leggi. Lo avvezzarono ancora a non trascurare le pratiche religiose sotto pretesto di essere impedito dalle occupazioni regali, nè a tenere che quelle possano far le veci della virtù.

Non meno che la riverenza inverso la Divinità, gli fu inculcata quella inverso le leggi. Non è il sovrano, dicevano elli, ma le leggi che deggiono regnare sui popoli: il principe non n’è che il ministro e il primo custode. Elle regolar deggiono l’uso dell’autorità, ed impedire che questa non s’aggravi qual giogo sovra i sudditi. Credono gli uomini di esser liberi, e il sono di fatto quando elli sono governati dalle sole leggi.

Delle più malagevoli cose a bene educare i re, si è l’ammaestrargli a conoscer gli uomini; perciocchè se non acquistassero sì fatta cognizione che dalla propria esperienza, quella verrebbe tardi, e per avventura male ai popoli ne incoglierebbe. La pubblica felicità dipende principalmente dalla buona scelta dei magistrati, ed a ben farla si richiede il conoscerli. Nessuna persona è al suo luogo in uno Stato ove il principe non giudica dell’altrui virtù da se stesso. Trascurasi il merito, il quale o è troppo modesto per farsi innanzi, o è troppo generoso per voler brigare ed avvilirsi a fine di levarsi in altura. Amenofi per tempo imparò a distinguere gli amici della verità e della virtù, consultando la pubblica opinione, ed ascoltando la testimonianza di persone sagge e dabbene. Sotto il suo regno solamente la virtù dispensò gli onori e le grazie, ed essa sola le ottenne, non essendo affidati i pubblici incarichi, se non se ad uomini zelanti del pubblico bene.

Siccome tutta la vita dei principi è involta in continue occupazioni, e nessun dì scorre per loro senza grandi cure; così Amenofi fu dai primi anni esercitato in ciò che e di più importante nell’officio di re, e gli s’intuonava sempre all’orecchio, che l’estensione de’suoi doveri corrispondeva a quella della sua potenza; che più delle cure che non dell’autorità era segno lo scettro; nè poter lui trovare riposo, se non quando nell’imperio più non vi fossero infelici.

Tenne egli sempre, essere la giustizia la più essenziale virtù de’regnanti; e perciò serbolla mediante quel rigor che l’ordine e il bene dello Stato richieggono. Ma con tutto questo, dalle sue principali virtù non si scompagnò la clemenza. Noi siamo sì fragili e meschini, diceva egli; la vita è per se stessa tanto infelice e di sì corta durata, che i suoi brevi momenti non si debbono lasciar trascorrere nelle calamità e nell’affanno. Usiamo dunque benignità in altrui, e perdoniamo i lievi trascorsi del genere umano.

Ancora seppe questo re congiunger del pari la fermezza dell’animo colla bontà; delle quali la prima è dote intrinseca e propria dell’essere di un re, siccome quella che lo francheggia da tutti i pericoli, e gli conserva illesi i suoi dritti; contrasta alle male arti de’cortegiani, e fa tornar vani gli sforzi ch’essi adoperano per insignorirsi dall’animo suo. Già però non riponea egli la sua grandezza nel farsi temere, sapendo che la più pura e la più cara gloria di un re si è quella di avere imperio sui cuori; che non ci sono lodi degne della vera bontà, fuorchè quelle che vengon dal cuore; e che al fine non è al mondo nessuna cosa vestita di maggior maestà, che la bontà regale la quale tutti abbraccia; come a rincontro non v’ha cosa più propria ad invilire la maestà, che la miseria del popolo dal principe generata.

L’economia fu uno dei grandi oggetti a cui intese Amenofi nell’amministrare il reame; perciocchè si avvisava non avere i principi dritto al superfluo, che quando il popolo non manca del necessario; e la prodigalità del principe, checchè ne dicano i cortigiani, essere una specie di furto e di peculato. I popoli non amano altro nei sovrani che le virtù, le quali rendono felice il loro regno. Ondechè un principe delle sole militari virtù fornito non si confidi d’esser grande fra i posteri, avvegnachè egli si e faticato per sè e per la sua gloria, nulla facendo per la felicità dei popoli. Potrà adunque ottenere il titolo di conquistatore che sarà scolpito sui marmi, ma non già quello di padre del popolo che si scolpisce nei cuori.

Non di manco egli andò ricco di virtù militari; ma tenne, che se non debbe un principe amar tanto la pace da lasciarsi insultare ed opprimere, non deve però amar tanto la fama da cercar le conquiste. Due volte entrò in guerra, e compiella tosto e con gloria. Imbrandì per una buona causa le armi, lo che cresce ogni ora la fidanza e la forza; e guadagnò più volte giornata senza profittarsene per ingrandire l’imperio; ma pose innanzi a questo il costringere i nemici alla pace, e mostrarsi con quelli generoso e clemente. Così stabilì sopra fondamenti più saldi la propria potenza, posponendo l’ambizione all’amore degli uomini. Imperocchè quali nemici può egli temere un re che ha per amici tutti i suoi sudditi da sè renduti avventurosi?

In tutte l’epoche del regnare mostrò Amenofi molto rispetto e riguardo inverso la pubblica opinione. Non dimenticò mai, essere in sulla terra tutti gli sguardi degli uomini indiritti ad un re, e questo trovare in ciascun uomo che lo risguarda un testimonio irrefragabile delle proprie azioni e della propria condotta. Non venne mai in prosunzione di far tacere l’opinion pubblica, bene ammaestrato che di nessun principe tanto bene si parla quanto di colui che lascia parlar male di sè. Egli ebbe in dispetto le secrete calunnie dei perfidi che non trovano il lor pro nel pubblico bene; e se tal fiata intervenne che il popolo, mal veggente la comune utilità, desse a lui mala voce, aspettò la difesa dal tempo, nè mai gli mancò. Tale altra fiata rivocò gli ordini e i decreti, facendo ragione alle giuste rimostranze ed oneste domande. Non v’ha certo cosa più grande in un monarca che il desiderio di essere disingannato, e il generosamente confessare d’essere stato soprappreso; perciocchè quel cangiamento che al vero il riconduce, in cambio di menomarne l’autorità, la rassoda; e più che non esser mai stato ingannato, si è glorioso il confessare di esserlo stato.

Tutto il suo tempo spendeva Amenofi nei doveri del governare, e solo nella fatica ei trovava il sollievo delle sue fatiche. Esse erano il suo continuo esercizio; e i piaceri non poteron mai nulla contro di lui. Nè si vuole stimare perciò ch’egli fosse senza piaceri; poichè anzi i più dolci e i più puri erano quelli che gli commovevano l’animo: riponendo egli tutto il suo diletto nel consolare gli addolorati, nel sollevare i miseri, nel beneficare una provincia, e nel rendere ogni dì felice un gran popolo. Ogni momento era distinto da un nuovo dovere, ed ogni dovere era per lui fonte d’un piacer nuovo. Qual ventura è quella di un re che risguarda il suo reame come sua propria famiglia, e i sudditi come figliuoli; che è certo di regnare sui cuori, e di vedere, per così dire, approvata ogni dì la prima scelta della nazione che pose sul trono gli antenati suoi!

Un’altra felicità trovò egli nell’amicizia, eleggendo però ad amici coloro che avrebbono amato di dispiacergli, anzi che di mancare alla fedeltà giuratagli: eroica fedeltà assai rara nelle Corti. Conciossiachè è fatale che quella potenza la quale raduna intorno al monarca infinito numero di adulatori, quella medesima fa che al monarca radamente incontri di ritrovare fra i suoi cortigiani chi gli sia vero e leale amico. Non antipose mai i personali servigi a quelli fatti allo Stato; e le dignità luminose, le grandi ricompense serbava per quelli che si adoperavano in pro della patria lungi dalla Corte. Ebbe Amenofi amici, ma favoriti non mai.

Il più piccolo de’suoi sudditi trovò sempre accesso a lui. Postosi in cuore che l’autorità de’monarchi è un bene a tutti comune, una protezione a cui tutti deggiono partecipare egualmente, volle che ognuno potesse liberamente farsegli vicino. I despoti non si procacciano la venerazione che col tenersi sempre nascosti, e il popolo perciò solo gli ha in riverenza perchè mai non li vide. Ma non imitò l’egizio re quelli invisibili principi ai quali pareva gravissimo delitto e degno di morte, che altri s’ardisse di comparire loro dinanzi senza averne da prima ricevuto espresso comando. E che mai erano veduti dappresso quei despoti rinchiusi ne’più appartati recessi de’loro palagi, lasciati in balía de’loro vilissimi schiavi, e segregati da ogni umana conversazione, come se non fosser degni di mostrarsi agli uomini, o come se gli altri uomini degni non fossero di vederli? L’oscura e solitaria vita ne constituiva tutta la maestà.

Alla morte d’Amenofi in tutto l’impero s’alzo un gran lamento, e il dolore non ebbe freno, perciocchè gli Egiziani tutti perduto avevano il padre. Ma l’immenso cordoglio cagionato dalla sua perdita non impedì ch’ei non fosse citato al tribunale che giudicava i re dopo la morte; il qual giudicio fu il suo trionfo più bello, poichè fece sì che le sue virtù risplendesser di maggior luce, e ch’ei fosse più che mai glorificato, mercè il solenne testimonio che il popolo con grato animo rendeva ai meriti di lui. Cosiffatta costumanza è nel vero delle più lodevoli che instituite abbia l’egiziana sapienza. Ella faceva comprendere ai re, che se la maestà loro li pone in tempo della lor vita sopra gli umani giudizi, vi soggiacciono poi quando la morte ha eguagliata la loro condizione a quella del comune degli uomini.

Il buon re Vide, quaeso, quam pauci sint principes boni, ut bene dictum sit, in uno anulo bonos principes posse perscribi atque depingi (Vopisc. in Aureli. cap. 42). Considerate, di grazia, quanto radi sieno i buoni prin-cipi, e come sia detto acconciamente che un solo anello può in sè contenerne i nomi e l’effigie. Amenofi~k si fu uno de’più grandi e ad un tempo degli ottimi re dell’antico Egitto: giacchè il comune degli uomini ha falsamente distinto queste due qualità, come se l’amore e la felicità dei popoli non valessero soli a costituire la verace grandezza dei re. Giusta le leggi dell’impero, le quali regolavano perfino le menome azioni del principe, la sua educazione fu commessa ad uomini per sapienza e virtù riveriti e famosi. Posero elli dapprima tutta lor cura nel prevenire l’orgoglio che in lui poteva suscitarsi dal pensare sè esser nato al trono, mostrandogli che la sua nascita non differiva punto da quella degli altri, e che aveva salutato esso pure la luce del giorno coi pianti, e che l’aria da lui respirata per la prima volta gli aveva servito, come agli altri, a formare delle grida. Quindi, per tener lungi dalla sua mente ogni idea di falsa grandezza, gli furono dati a compagni alcuni fanciulli della medesima età, i quali erano, siccome lui, addestrati in tutti gli esercizi del corpo e dell’ingegno; e ciò perchè vedesse in loro non solamente chi lo emulasse e lo pareggiasse, ma ben anco chi lo vincesse: in quanto che molti di essi erano dotati di talenti e di virtù singolari. Così imparò egli per tempo a discernere quanto il personal merito sia diverso dalla maggioranza che viene altrui dallo splendor della nascita e dai beni della fortuna. I saggi educatori gl’instillarono pure la pietà, e l’ammaestrarono a render suo dritto a Dio, bene avvisando che l’idea d’un Essere soprastante ai re è il solo freno che li può contenere nei limiti del dovere e nell’ossequio delle leggi. Lo avvezzarono ancora a non trascurare le pratiche religiose sotto pretesto di essere impedito dalle occupazioni regali, nè a tenere che quelle possano far le veci della virtù. Non meno che la riverenza inverso la Divinità, gli fu inculcata quella inverso le leggi. Non è il sovrano, dicevano elli, ma le leggi che deggiono regnare sui popoli: il principe non n’è che il ministro e il primo custode. Elle regolar deggiono l’uso dell’autorità, ed impedire che questa non s’aggravi qual giogo sovra i sudditi. Credono gli uomini di esser liberi, e il sono di fatto quando elli sono governati dalle sole leggi. Delle più malagevoli cose a bene educare i re, si è l’ammaestrargli a conoscer gli uomini; perciocchè se non acquistassero sì fatta cognizione che dalla propria esperienza, quella verrebbe tardi, e per avventura male ai popoli ne incoglierebbe. La pubblica felicità dipende principalmente dalla buona scelta dei magistrati, ed a ben farla si richiede il conoscerli. Nessuna persona è al suo luogo in uno Stato ove il principe non giudica dell’altrui virtù da se stesso. Trascurasi il merito, il quale o è troppo modesto per farsi innanzi, o è troppo generoso per voler brigare ed avvilirsi a fine di levarsi in altura. Amenofi per tempo imparò a distinguere gli amici della verità e della virtù, consultando la pubblica opinione, ed ascoltando la testimonianza di persone sagge e dabbene. Sotto il suo regno solamente la virtù dispensò gli onori e le grazie, ed essa sola le ottenne, non essendo affidati i pubblici incarichi, se non se ad uomini zelanti del pubblico bene. Siccome tutta la vita dei principi è involta in continue occupazioni, e nessun dì scorre per loro senza grandi cure; così Amenofi fu dai primi anni esercitato in ciò che e di più importante nell’officio di re, e gli s’intuonava sempre all’orecchio, che l’estensione de’suoi doveri corrispondeva a quella della sua potenza; che più delle cure che non dell’autorità era segno lo scettro; nè poter lui trovare riposo, se non quando nell’imperio più non vi fossero infelici. Tenne egli sempre, essere la giustizia la più essenziale virtù de’regnanti; e perciò serbolla mediante quel rigor che l’ordine e il bene dello Stato richieggono. Ma con tutto questo, dalle sue principali virtù non si scompagnò la clemenza. Noi siamo sì fragili e meschini, diceva egli; la vita è per se stessa tanto infelice e di sì corta durata, che i suoi brevi momenti non si debbono lasciar trascorrere nelle calamità e nell’affanno. Usiamo dunque benignità in altrui, e perdoniamo i lievi trascorsi del genere umano. Ancora seppe questo re congiunger del pari la fermezza dell’animo colla bontà; delle quali la prima è dote intrinseca e propria dell’essere di un re, siccome quella che lo francheggia da tutti i pericoli, e gli conserva illesi i suoi dritti; contrasta alle male arti de’cortegiani, e fa tornar vani gli sforzi ch’essi adoperano per insignorirsi dall’animo suo. Già però non riponea egli la sua grandezza nel farsi temere, sapendo che la più pura e la più cara gloria di un re si è quella di avere imperio sui cuori; che non ci sono lodi degne della vera bontà, fuorchè quelle che vengon dal cuore; e che al fine non è al mondo nessuna cosa vestita di maggior maestà, che la bontà regale la quale tutti abbraccia; come a rincontro non v’ha cosa più propria ad invilire la maestà, che la miseria del popolo dal principe generata. L’economia fu uno dei grandi oggetti a cui intese Amenofi nell’amministrare il reame; perciocchè si avvisava non avere i principi dritto al superfluo, che quando il popolo non manca del necessario; e la prodigalità del principe, checchè ne dicano i cortigiani, essere una specie di furto e di peculato. I popoli non amano altro nei sovrani che le virtù, le quali rendono felice il loro regno. Ondechè un principe delle sole militari virtù fornito non si confidi d’esser grande fra i posteri, avvegnachè egli si e faticato per sè e per la sua gloria, nulla facendo per la felicità dei popoli. Potrà adunque ottenere il titolo di conquistatore che sarà scolpito sui marmi, ma non già quello di padre del popolo che si scolpisce nei cuori. Non di manco egli andò ricco di virtù militari; ma tenne, che se non debbe un principe amar tanto la pace da lasciarsi insultare ed opprimere, non deve però amar tanto la fama da cercar le conquiste. Due volte entrò in guerra, e compiella tosto e con gloria. Imbrandì per una buona causa le armi, lo che cresce ogni ora la fidanza e la forza; e guadagnò più volte giornata senza profittarsene per ingrandire l’imperio; ma pose innanzi a questo il costringere i nemici alla pace, e mostrarsi con quelli generoso e clemente. Così stabilì sopra fondamenti più saldi la propria potenza, posponendo l’ambizione all’amore degli uomini. Imperocchè quali nemici può egli temere un re che ha per amici tutti i suoi sudditi da sè renduti avventurosi? In tutte l’epoche del regnare mostrò Amenofi molto rispetto e riguardo inverso la pubblica opinione. Non dimenticò mai, essere in sulla terra tutti gli sguardi degli uomini indiritti ad un re, e questo trovare in ciascun uomo che lo risguarda un testimonio irrefragabile delle proprie azioni e della propria condotta. Non venne mai in prosunzione di far tacere l’opinion pubblica, bene ammaestrato che di nessun principe tanto bene si parla quanto di colui che lascia parlar male di sè. Egli ebbe in dispetto le secrete calunnie dei perfidi che non trovano il lor pro nel pubblico bene; e se tal fiata intervenne che il popolo, mal veggente la comune utilità, desse a lui mala voce, aspettò la difesa dal tempo, nè mai gli mancò. Tale altra fiata rivocò gli ordini e i decreti, facendo ragione alle giuste rimostranze ed oneste domande. Non v’ha certo cosa più grande in un monarca che il desiderio di essere disingannato, e il generosamente confessare d’essere stato soprappreso; perciocchè quel cangiamento che al vero il riconduce, in cambio di menomarne l’autorità, la rassoda; e più che non esser mai stato ingannato, si è glorioso il confessare di esserlo stato. Tutto il suo tempo spendeva Amenofi nei doveri del governare, e solo nella fatica ei trovava il sollievo delle sue fatiche. Esse erano il suo continuo esercizio; e i piaceri non poteron mai nulla contro di lui. Nè si vuole stimare perciò ch’egli fosse senza piaceri; poichè anzi i più dolci e i più puri erano quelli che gli commovevano l’animo: riponendo egli tutto il suo diletto nel consolare gli addolorati, nel sollevare i miseri, nel beneficare una provincia, e nel rendere ogni dì felice un gran popolo. Ogni momento era distinto da un nuovo dovere, ed ogni dovere era per lui fonte d’un piacer nuovo. Qual ventura è quella di un re che risguarda il suo reame come sua propria famiglia, e i sudditi come figliuoli; che è certo di regnare sui cuori, e di vedere, per così dire, approvata ogni dì la prima scelta della nazione che pose sul trono gli antenati suoi! Un’altra felicità trovò egli nell’amicizia, eleggendo però ad amici coloro che avrebbono amato di dispiacergli, anzi che di mancare alla fedeltà giuratagli: eroica fedeltà assai rara nelle Corti. Conciossiachè è fatale che quella potenza la quale raduna intorno al monarca infinito numero di adulatori, quella medesima fa che al monarca radamente incontri di ritrovare fra i suoi cortigiani chi gli sia vero e leale amico. Non antipose mai i personali servigi a quelli fatti allo Stato; e le dignità luminose, le grandi ricompense serbava per quelli che si adoperavano in pro della patria lungi dalla Corte. Ebbe Amenofi amici, ma favoriti non mai. Il più piccolo de’suoi sudditi trovò sempre accesso a lui. Postosi in cuore che l’autorità de’monarchi è un bene a tutti comune, una protezione a cui tutti deggiono partecipare egualmente, volle che ognuno potesse liberamente farsegli vicino. I despoti non si procacciano la venerazione che col tenersi sempre nascosti, e il popolo perciò solo gli ha in riverenza perchè mai non li vide. Ma non imitò l’egizio re quelli invisibili principi ai quali pareva gravissimo delitto e degno di morte, che altri s’ardisse di comparire loro dinanzi senza averne da prima ricevuto espresso comando. E che mai erano veduti dappresso quei despoti rinchiusi ne’più appartati recessi de’loro palagi, lasciati in balía de’loro vilissimi schiavi, e segregati da ogni umana conversazione, come se non fosser degni di mostrarsi agli uomini, o come se gli altri uomini degni non fossero di vederli? L’oscura e solitaria vita ne constituiva tutta la maestà. Alla morte d’Amenofi in tutto l’impero s’alzo un gran lamento, e il dolore non ebbe freno, perciocchè gli Egiziani tutti perduto avevano il padre. Ma l’immenso cordoglio cagionato dalla sua perdita non impedì ch’ei non fosse citato al tribunale che giudicava i re dopo la morte; il qual giudicio fu il suo trionfo più bello, poichè fece sì che le sue virtù risplendesser di maggior luce, e ch’ei fosse più che mai glorificato, mercè il solenne testimonio che il popolo con grato animo rendeva ai meriti di lui. Cosiffatta costumanza è nel vero delle più lodevoli che instituite abbia l’egiziana sapienza. Ella faceva comprendere ai re, che se la maestà loro li pone in tempo della lor vita sopra gli umani giudizi, vi soggiacciono poi quando la morte ha eguagliata la loro condizione a quella del comune degli uomini.