Il nido furato Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Andrea Kaser Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 01.12.2016

o:mws-117-1054

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 310-313 Lo Spettatore italiano 3 70 1822 Italien
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Il nido furato

Carcere animalia coërcere non licet quibus rerum natura caelum adsignaverat.

(Plin. lib. x. cap. 50).

È colpa lo stringere in carcere quegli animali cui natura concesse di spaziare pel cielo.

Nel tempo che io mi stava in villa presso il mio amico Eugenio, andammo un dì a diporto in compagnia dell’amabile sua consorte Emilia, e dopo il cammino di forse una mezz’ora ci ponemmo a sedere in cima di un collicello, da onde si può l’occhio pascere di bellissime e diverse vedute. Vicin di noi era una vecchia albaspina dove scorgemmo un tordo, il quale, come se alcuna cosa dovendo venire, e tardando il noiasse, d’una in altra fraschetta andava attorno, e non trovava luogo: ma come ebbe avvisato, la sua compagna venir portando in bocca del cibo per gli loro uccellini, così cominciò a fare una festa ed una gioia maravigliosa, non meno che stata fosse la sollecitudine poco fa dimostrata, e col suo canto e con le sue accoglienze apertissimi segni ne diede. Tosto che la femmina si fu dentro la fratta messa, egli, avendo la testa dritta verso il cielo, incominciò il canto più dolce assai che prima, forse a render grazie al Creatore che di alcuno alimento avesse alla sua famigliuola provveduto.

Ma gli esseri mortali possono essi fermo e lungo stato di pace e di ventura avere? Dal più piccolo e men vivente verminetto all’uomo, che delle cose create si reputa signore, ogni animale pate sue sventure, ed è giuoco della fortuna. Vennero alla siepe due garzonetti, e gli spaurati uccelli incontanente ristettero dal canto: ma quelli avendovi la nidiata veduta, prima che io, che già m’era mosso, potessi la ruberia impedire, tratta l’avevano del mezzo della macchia, e ne la portarono. La madre stata presta a fuggire, si raggiunse col suo consorte, e con dolorose querele venivano i loro figliuoletti chiamando, mentre che i due ladroncelli forte andavano via con la lor preda; i quali poichè si furono dileguati del tutto, ed ogni speranza con loro, gli sconsolati genitori si raccolsero alla lor macchia, e quivi l’uno di costa all’altro muti e fermi alquanto dimorarono, e poscia di subito cacciati dalla disperazione, volando si dipartirono ambedue dal tristo luogo del loro infortunio.

Certamente, disse Eugenio, ben crudele è il caso che noi a questa famigliuola ora veggiamo essere addivenuto; e se il mio figlio commettesse simile ladroneccio, ed io lo sapessi, quella pena glie ne farei portare che a’rubatori della chiesa è costituita. Senza fallo, disse Emilia, non è egli men grave peccato che sia un sacrilegio. E sarebbe da ammonirne i fanciulli, acciocchè ne prendessero coscienza ed avversione. Le regole dell’umanità sono le essenziali che ai genitori sopra tutto è richiesto di dare a lor figli; perchè l’umanità dispone altrui ai delicati sentimenti, e le porte dell’anima disserra ai sagrati offici della morale e della religione.

Diss’io allora: Fui un dì da un mio amico, il quale negli insegnamenti di che sì saviamente ci ragiona Emilia, alleva i suoi figli e costumati: dove mi fa un grandissimo stupore il vedere la sua figliuola che aveva fra le mani una gabbia con un uccelletto serratovi. Com’è ciò, Enrichetta, cominciai io a dire, che voi siete buona e pietosa oltre misura, e patevi l’animo di ritenere in prigione un uccello? Or questo prigioniere, rispose la Enrica, è un calderugio che comperai per ventura dalle mani di due mal cresciuti fanciulli, i quali lo avevano involato dal nido suo. E conciofossechè egli ancora non avesse acquistato il volo, io durai fatica in trovargli mangiare che gli piacesse. Nondimeno lo governai tanto tempo, quanto io pensava che le sue ale fossero divenute ben forti a levarlo a volo, ed allora apersigli l’usciuol della gabbia, e l’andare e lo stare al suo arbitrio rimisi. Nel vero egli volle partirsi, ma non gli sofferse il cuore d’abbandonarmi. Non guari stette che egli ci tornò, e posandomisi or sopra il capo, or sopra le spalle, e quando fra le mani, e talvolta nella gabbia ond’era uscito, rivolando, fece sì che crudel cosa mi parve a discacciarlo per forza. Ma non pertanto nei dì più belli io gli apro la gabbia e le finestre, e lo licenzio a’suoi piaceri. Ed egli, mentre che io leggendo mi sto nelle mie camere, non esce; e quando per lo giardino me ne vo a diletto, mi si fa rivedere su per la verzura, di fronda in fronda trasvolando, quasi letizia facendo di venir meco. Quand’io me ne ritorno, ritrovolo nella mia stanza, o solo, o con alcun suo amico o compagno, che egli ha col suo canto invitato a venir senza sospetto a mangiar delle sue cose a comune. Oh! venite, sclamò tutta festevole la fanciulla, venite, cari augelli, che io non vi negherò mai l’ospitalità.

Il nido furato Carcere animalia coërcere non licet quibus rerum natura caelum adsignaverat. (Plin.~k lib. x. cap. 50). È colpa lo stringere in carcere quegli animali cui natura concesse di spaziare pel cielo. Nel tempo che io mi stava in villa presso il mio amico Eugenio, andammo un dì a diporto in compagnia dell’amabile sua consorte Emilia, e dopo il cammino di forse una mezz’ora ci ponemmo a sedere in cima di un collicello, da onde si può l’occhio pascere di bellissime e diverse vedute. Vicin di noi era una vecchia albaspina dove scorgemmo un tordo, il quale, come se alcuna cosa dovendo venire, e tardando il noiasse, d’una in altra fraschetta andava attorno, e non trovava luogo: ma come ebbe avvisato, la sua compagna venir portando in bocca del cibo per gli loro uccellini, così cominciò a fare una festa ed una gioia maravigliosa, non meno che stata fosse la sollecitudine poco fa dimostrata, e col suo canto e con le sue accoglienze apertissimi segni ne diede. Tosto che la femmina si fu dentro la fratta messa, egli, avendo la testa dritta verso il cielo, incominciò il canto più dolce assai che prima, forse a render grazie al Creatore che di alcuno alimento avesse alla sua famigliuola provveduto. Ma gli esseri mortali possono essi fermo e lungo stato di pace e di ventura avere? Dal più piccolo e men vivente verminetto all’uomo, che delle cose create si reputa signore, ogni animale pate sue sventure, ed è giuoco della fortuna. Vennero alla siepe due garzonetti, e gli spaurati uccelli incontanente ristettero dal canto: ma quelli avendovi la nidiata veduta, prima che io, che già m’era mosso, potessi la ruberia impedire, tratta l’avevano del mezzo della macchia, e ne la portarono. La madre stata presta a fuggire, si raggiunse col suo consorte, e con dolorose querele venivano i loro figliuoletti chiamando, mentre che i due ladroncelli forte andavano via con la lor preda; i quali poichè si furono dileguati del tutto, ed ogni speranza con loro, gli sconsolati genitori si raccolsero alla lor macchia, e quivi l’uno di costa all’altro muti e fermi alquanto dimorarono, e poscia di subito cacciati dalla disperazione, volando si dipartirono ambedue dal tristo luogo del loro infortunio. Certamente, disse Eugenio, ben crudele è il caso che noi a questa famigliuola ora veggiamo essere addivenuto; e se il mio figlio commettesse simile ladroneccio, ed io lo sapessi, quella pena glie ne farei portare che a’rubatori della chiesa è costituita. Senza fallo, disse Emilia, non è egli men grave peccato che sia un sacrilegio. E sarebbe da ammonirne i fanciulli, acciocchè ne prendessero coscienza ed avversione. Le regole dell’umanità sono le essenziali che ai genitori sopra tutto è richiesto di dare a lor figli; perchè l’umanità dispone altrui ai delicati sentimenti, e le porte dell’anima disserra ai sagrati offici della morale e della religione. Diss’io allora: Fui un dì da un mio amico, il quale negli insegnamenti di che sì saviamente ci ragiona Emilia, alleva i suoi figli e costumati: dove mi fa un grandissimo stupore il vedere la sua figliuola che aveva fra le mani una gabbia con un uccelletto serratovi. Com’è ciò, Enrichetta, cominciai io a dire, che voi siete buona e pietosa oltre misura, e patevi l’animo di ritenere in prigione un uccello? Or questo prigioniere, rispose la Enrica, è un calderugio che comperai per ventura dalle mani di due mal cresciuti fanciulli, i quali lo avevano involato dal nido suo. E conciofossechè egli ancora non avesse acquistato il volo, io durai fatica in trovargli mangiare che gli piacesse. Nondimeno lo governai tanto tempo, quanto io pensava che le sue ale fossero divenute ben forti a levarlo a volo, ed allora apersigli l’usciuol della gabbia, e l’andare e lo stare al suo arbitrio rimisi. Nel vero egli volle partirsi, ma non gli sofferse il cuore d’abbandonarmi. Non guari stette che egli ci tornò, e posandomisi or sopra il capo, or sopra le spalle, e quando fra le mani, e talvolta nella gabbia ond’era uscito, rivolando, fece sì che crudel cosa mi parve a discacciarlo per forza. Ma non pertanto nei dì più belli io gli apro la gabbia e le finestre, e lo licenzio a’suoi piaceri. Ed egli, mentre che io leggendo mi sto nelle mie camere, non esce; e quando per lo giardino me ne vo a diletto, mi si fa rivedere su per la verzura, di fronda in fronda trasvolando, quasi letizia facendo di venir meco. Quand’io me ne ritorno, ritrovolo nella mia stanza, o solo, o con alcun suo amico o compagno, che egli ha col suo canto invitato a venir senza sospetto a mangiar delle sue cose a comune. Oh! venite, sclamò tutta festevole la fanciulla, venite, cari augelli, che io non vi negherò mai l’ospitalità.