Gli schiavi in barberia Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Andrea Kaser Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 30.11.2016

o:mws-117-1014

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 125-131 Lo Spettatore italiano 3 31 1822 Italien
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Gli schiavi in barberia

O cara patria! o care leggi! o sacri Riti! noi vi piangemmo alle meschiteEmpie dintorno, e ai barbari lavacri.

Parini, S. 6.

Io mi trovava a Marsiglia presso il mio amico Isoardo ricco mercadante, così per la sua probità, come per la beneficenza tenuto da tutti in grande stima. Sedevamo un giorno a desco insieme, quando di subito, sentiti alcuni festosi canti per la via, ci levammo per correre alle finestre. Vedemmo allora una processione di schiavi, che alcuni Religiosi Trinitarii avevano in Barberia francati, e che con solenne pompa conducevano alla maggior chiesa per rendere a Dio vivi ringraziamenti di sì avventuroso riscatto. Per certo null’altra veduta mi si offerse mai dinanzi agli occhi, la quale fosse più atta a fare altrui pietoso che questa. Figuratevi sessanta spettri rivestiti di rosse e verdi casacche, con ignudi piedi, testa scoperta e tosata, barba foltissima, aria malinconica e tetra, e con le carni improntate dai segni delle catene di cui stati erano indegnamente gravati. Essi andavano rivolgendo per l’animo il certo acquisto della loro libertà; e quindi pareva che quella lor cupa tristezza, a volta a volta, desse luogo alla gioia: ma quest’ultimo affetto era vinto da un altro più forte; cioè dal timore di non trovare, tornati che fossero in patria, nè parenti nè amici, la cui tenerezza li ristorasse di tutti i mali che avevan dovuto sì lungamente sofferire.

In un momento il popolo corse in folla là dov’essi passavano; e siccome ci sono certi oggetti che hanno forza di compungere di pietà anche un cuor di macigno, così vedemmo moltissimi spettatori spargere lagrime e far larghe elemosine agli schiavi redenti. « Seguitiamo il corteggio alla cattedrale, mi disse Isoardo; oggi, per così dire, è la festa dell’umana misericordia, fatta sacra dalla religione; nè io ho mai lasciato d’intervenire a sì fatte cerimonie. » Entrati appena gli schiavi nel tempio, il primo che dopo tanti anni, vedevano, elli si gittarono dinanzi agli altari di quel Dio che aveva contate le loro lagrime e restituitigli alla pristina libertà. Gli atti tutti pieni di umiltà e le preghiere caldissime ben dimostravano quanto essi gli fossero riconoscenti del ricevuto beneficio. Levarono la voce per cantare il cantico di ringraziamento, e la lor voce era dai singhiozzi interrotta. Or chi mai potrebbe ritrarre tutti gli affetti dai quali il lor animo era commosso? Per ciò fare bisognerebbe avere al par di loro sofferto le infinite miserie che sono seguaci alla schiavitù, o almeno essere stati della trista lor sorte testimoni, siccome il furono i Religiosi che liberati gli avevano. Sia sempre benedetta la tua memoria, o virtuoso Giovanni di Mata, il quale meritasti bene di tutti gli uomini levandoti al loro soccorso; e sapesti far perpetua la tua benefica possanza, trasfondendola ne’tuoi discepoli: i quali, fedelmente osservando il tuo santo instituto, sostengono pazientemente d’ogni sorta disagi, ed affrontano tutti i pericoli per scampare dal servaggio i loro fratelli, e tornarli alla felicità della domestica vita. Chi altri più vale la nostra venerazione che questi generosi campioni, i quali fanno di se stessi olocausto ai loro prossimi? Quale accrescimento di bontà e di potenza non acquistano in noi gli affetti della natura, mercè l’aiuto di una religione, la quale altro non spira che pace ed amore?

Tornati a casa, Isoardo ed io c’intertenemmo a favellare del servaggio dei Bianchi, il vitupero della civiltà; quando due schiavi francati entrarono precipitosamente, e ai piedi del mio amico gittaronsi, chiamandolo il lor liberatore. Comechè Isoardo nel pagare la più parte del loro riscatto avesse nascoso la sua benefica mano, pure gli schiavi saputo lo avevano da essi Religiosi, ed eran venuti a adempiere le parti del debito loro. L’amico fece il beneficio compito, togliendo a quegl’infelici le orribili divise della schiavitù, e fornendoli abbondevolmente di tutto ciò che loro facea di mestieri per fare alla patria ritorno. Ei non verrà mai meno nella mia mente il doloroso racconto che essi fecero delle loro sciagure: le quali non sono già particolari di poche persone, ma comuni ad una sì grande moltitudine di cristiani, che il numero di questi ultimi ha spesse volte sorpassato quello dei liberi abitanti di Algeri.

“Noi presi fummo da un corsaro nel gire da Antibo a Marsiglia, in cospetto delle nostre coste, e quasi della patria, così a dire cominciò il più vecchio di quei due miseri sfortunati. Condotti nel porto d’Algeri, parecchi colpi di cannone segnarono, com’è il costume, l’arrivo di un legno predato; la qual ventura interessa a tutta quanta la nazione: perciocchè il ladroneccio è colà nazionale, e starei per dire costituzionale; ed ogni preda si tiene per una vittoria e per un trionfo. Due giorni appresso, fummo sbarcati e condotti sotto il palazzo del Dey, il quale dalla sua finestra ci guardava, e indicava egli stesso, quali scegliesse per sè: ed è da sapere che l’ottava parte degli schiavi e d’ogni preda è proprietà del governo. Il mio compagno, più giovane e più forte di me, fu del numero di quelli che il Dey elesse per suo servigio; ed io fui condotto al Batistan, ossia pubblico mercato degli schiavi per essere venduto. Là, tra le risa e le beffe, que’barbari mi spogliarono ignudo, affinchè i compratori potessero ben bene riguardarmi e drittamente giudicare intorno al valore del corpo mio. I sensali, che sono i principali operatori di questo infame commercio, ne fecero correre a colpi di frusta, siccome presso di noi si suol praticare coi cavalli e con altre bestie che si pongono in vendita. Io fui comprato da un Turco dovizioso, ma duro e crudele, il quale mi fe’ subito condurre nel Bagno, ove trovai altri quaranta infelici cristiani. Quello è il nome che dassi a certe prigioni la più parte sotterra, anguste, fetide e spaventose tanto, quanto altri le possa mai immaginare. Ivi entro non penetra la luce, se non da un breve pertugio: e rasente le mura ci ha banchi di pietra, sopra i quali son confitti grossi anelli di ferro, da cui pendono lunghe catene. Con esse ogni sera son legati gli schiavi che passano le notti in quelle orrende carceri, dove eglino per ischermirsi dall’asprezza della fredda stagione hanno solamente una camicia che appena li copre infino ai ginocchi.

In sull’aggiornare, gli sventurati schiavi son tratti fuori della prigione, e menati a far diversi lavori. Alcuni di quelli sono accoppiati a guisa di cavalli per istrascinare un carro: altri son partiti per li giardini e per li pubblici edificii; nè mai loro si concede un momento di posa. Se uno schiavo nell’arare la terra devia dal solco, se in trasportare un carico si ardisce di prender lena, tosto gli sono addosso con fruste, ovvero gli percuotono con violenza la pianta de’piedi. Tra gli schiavi del governo, quelli che sono al servizio dei Turchi privati patiscono meno degli altri: perciocchè i loro padroni, essendo tenuti a renderne conto, si astengono di mutilarli ed ucciderli. Ma non v’è infelicità pari a quella degli altri che pel governo faticano. Rinchiusi in puzzolenti Bagni, ignudi del tutto, o di schifosi stracci coperti, divorati da ogni maniera d’insetti, sono essi al dolore e alla disperazione abbandonati per sempre. Chi sentir potrà senza fremere d’orrore e d’indegnazione, che l’esecrando governo appena spende quattro paoli al mese per fornir di vitto quelli sventurati? e che nega loro qualsiasi alimento ne’giorni di festa, adducendo per pretesto ch’essi a quel tempo non lavorano: intanto che se la carità di qualche Musulmano, non privo al tutto d’umanità, non desse loro un po’di pan nero, elli si morrebbon di fame.

Nè già debbe recar meraviglia che gl’infelici schiavi d’Algeri sieno ad ogni ora travagliati dalla sete, dalla fame, dal sonno, da eccessive fatiche e da barbari trattamenti; perciocchè i Turchi si studiano di usare in loro i più straordinari modi di crudeltà, a fine di costringerli a sollecitar prestamente la propria liberazione, ed offrire un grosso riscatto: tanto si è quel popolo non meno dell’oro ingordo che del sangue. Ah! miseri coloro fra gli schiavi cui que’barbari avvisano appartenere ad agiate famiglie! La vita loro è un continuo martirio; e ben tosto periscono, s’altri s’indugia a redimerli: ma quelli che hanno in sorte di essere francati, sono ben pochi in comparazione di coloro che muoiono ogni anno per li patimenti: i quali crescono col crescer dell’età, cioè quando l’uomo è meno acconcio alla fatica. Si scontrano spesso per le pubbliche strade di questi infelici che son presso a morire di fame e di dolore, e che sperar non possono nè conforto nè aiuto. Mi avvenne una volta di sentirmi in sull’imbrunir della sera da una fioca voce chiamare; mi avvicino, e scorgo un misero schiavo a terra disteso, colle labbra piene di spuma e di sangue che gorgogliando gli usciva dalle narici e dagli occhi. Io mi ristetti pieno di cordoglio e di raccapriccio: « O cristiano, o cristiano, dicea quella voce dolorosa, pietà del mio spasimo: pon fine a questa misera vita che io non so più sopportare. » Passa fra tanto un Oldak delle milizie, e gridando al moribondo: « Can d’infedele, non ingombrare la strada mentre passa un Effendi: » diè un calcio a quell’infelice, gittollo giù da un dirupo, e con questo orribile modo il trasse di schiavitù.

Gli schiavi in barberia~k O cara patria! o care leggi! o sacri Riti! noi vi piangemmo alle meschiteEmpie dintorno, e ai barbari lavacri. Parini, S. 6. Io mi trovava a Marsiglia presso il mio amico Isoardo ricco mercadante, così per la sua probità, come per la beneficenza tenuto da tutti in grande stima. Sedevamo un giorno a desco insieme, quando di subito, sentiti alcuni festosi canti per la via, ci levammo per correre alle finestre. Vedemmo allora una processione di schiavi, che alcuni Religiosi Trinitarii avevano in Barberia francati, e che con solenne pompa conducevano alla maggior chiesa per rendere a Dio vivi ringraziamenti di sì avventuroso riscatto. Per certo null’altra veduta mi si offerse mai dinanzi agli occhi, la quale fosse più atta a fare altrui pietoso che questa. Figuratevi sessanta spettri rivestiti di rosse e verdi casacche, con ignudi piedi, testa scoperta e tosata, barba foltissima, aria malinconica e tetra, e con le carni improntate dai segni delle catene di cui stati erano indegnamente gravati. Essi andavano rivolgendo per l’animo il certo acquisto della loro libertà; e quindi pareva che quella lor cupa tristezza, a volta a volta, desse luogo alla gioia: ma quest’ultimo affetto era vinto da un altro più forte; cioè dal timore di non trovare, tornati che fossero in patria, nè parenti nè amici, la cui tenerezza li ristorasse di tutti i mali che avevan dovuto sì lungamente sofferire. In un momento il popolo corse in folla là dov’essi passavano; e siccome ci sono certi oggetti che hanno forza di compungere di pietà anche un cuor di macigno, così vedemmo moltissimi spettatori spargere lagrime e far larghe elemosine agli schiavi redenti. « Seguitiamo il corteggio alla cattedrale, mi disse Isoardo; oggi, per così dire, è la festa dell’umana misericordia, fatta sacra dalla religione; nè io ho mai lasciato d’intervenire a sì fatte cerimonie. » Entrati appena gli schiavi nel tempio, il primo che dopo tanti anni, vedevano, elli si gittarono dinanzi agli altari di quel Dio che aveva contate le loro lagrime e restituitigli alla pristina libertà. Gli atti tutti pieni di umiltà e le preghiere caldissime ben dimostravano quanto essi gli fossero riconoscenti del ricevuto beneficio. Levarono la voce per cantare il cantico di ringraziamento, e la lor voce era dai singhiozzi interrotta. Or chi mai potrebbe ritrarre tutti gli affetti dai quali il lor animo era commosso? Per ciò fare bisognerebbe avere al par di loro sofferto le infinite miserie che sono seguaci alla schiavitù, o almeno essere stati della trista lor sorte testimoni, siccome il furono i Religiosi che liberati gli avevano. Sia sempre benedetta la tua memoria, o virtuoso Giovanni di Mata, il quale meritasti bene di tutti gli uomini levandoti al loro soccorso; e sapesti far perpetua la tua benefica possanza, trasfondendola ne’tuoi discepoli: i quali, fedelmente osservando il tuo santo instituto, sostengono pazientemente d’ogni sorta disagi, ed affrontano tutti i pericoli per scampare dal servaggio i loro fratelli, e tornarli alla felicità della domestica vita. Chi altri più vale la nostra venerazione che questi generosi campioni, i quali fanno di se stessi olocausto ai loro prossimi? Quale accrescimento di bontà e di potenza non acquistano in noi gli affetti della natura, mercè l’aiuto di una religione, la quale altro non spira che pace ed amore? Tornati a casa, Isoardo ed io c’intertenemmo a favellare del servaggio dei Bianchi, il vitupero della civiltà; quando due schiavi francati entrarono precipitosamente, e ai piedi del mio amico gittaronsi, chiamandolo il lor liberatore. Comechè Isoardo nel pagare la più parte del loro riscatto avesse nascoso la sua benefica mano, pure gli schiavi saputo lo avevano da essi Religiosi, ed eran venuti a adempiere le parti del debito loro. L’amico fece il beneficio compito, togliendo a quegl’infelici le orribili divise della schiavitù, e fornendoli abbondevolmente di tutto ciò che loro facea di mestieri per fare alla patria ritorno. Ei non verrà mai meno nella mia mente il doloroso racconto che essi fecero delle loro sciagure: le quali non sono già particolari di poche persone, ma comuni ad una sì grande moltitudine di cristiani, che il numero di questi ultimi ha spesse volte sorpassato quello dei liberi abitanti di Algeri. “Noi presi fummo da un corsaro nel gire da Antibo a Marsiglia, in cospetto delle nostre coste, e quasi della patria, così a dire cominciò il più vecchio di quei due miseri sfortunati. Condotti nel porto d’Algeri, parecchi colpi di cannone segnarono, com’è il costume, l’arrivo di un legno predato; la qual ventura interessa a tutta quanta la nazione: perciocchè il ladroneccio è colà nazionale, e starei per dire costituzionale; ed ogni preda si tiene per una vittoria e per un trionfo. Due giorni appresso, fummo sbarcati e condotti sotto il palazzo del Dey, il quale dalla sua finestra ci guardava, e indicava egli stesso, quali scegliesse per sè: ed è da sapere che l’ottava parte degli schiavi e d’ogni preda è proprietà del governo. Il mio compagno, più giovane e più forte di me, fu del numero di quelli che il Dey elesse per suo servigio; ed io fui condotto al Batistan, ossia pubblico mercato degli schiavi per essere venduto. Là, tra le risa e le beffe, que’barbari mi spogliarono ignudo, affinchè i compratori potessero ben bene riguardarmi e drittamente giudicare intorno al valore del corpo mio. I sensali, che sono i principali operatori di questo infame commercio, ne fecero correre a colpi di frusta, siccome presso di noi si suol praticare coi cavalli e con altre bestie che si pongono in vendita. Io fui comprato da un Turco dovizioso, ma duro e crudele, il quale mi fe’ subito condurre nel Bagno, ove trovai altri quaranta infelici cristiani. Quello è il nome che dassi a certe prigioni la più parte sotterra, anguste, fetide e spaventose tanto, quanto altri le possa mai immaginare. Ivi entro non penetra la luce, se non da un breve pertugio: e rasente le mura ci ha banchi di pietra, sopra i quali son confitti grossi anelli di ferro, da cui pendono lunghe catene. Con esse ogni sera son legati gli schiavi che passano le notti in quelle orrende carceri, dove eglino per ischermirsi dall’asprezza della fredda stagione hanno solamente una camicia che appena li copre infino ai ginocchi. In sull’aggiornare, gli sventurati schiavi son tratti fuori della prigione, e menati a far diversi lavori. Alcuni di quelli sono accoppiati a guisa di cavalli per istrascinare un carro: altri son partiti per li giardini e per li pubblici edificii; nè mai loro si concede un momento di posa. Se uno schiavo nell’arare la terra devia dal solco, se in trasportare un carico si ardisce di prender lena, tosto gli sono addosso con fruste, ovvero gli percuotono con violenza la pianta de’piedi. Tra gli schiavi del governo, quelli che sono al servizio dei Turchi privati patiscono meno degli altri: perciocchè i loro padroni, essendo tenuti a renderne conto, si astengono di mutilarli ed ucciderli. Ma non v’è infelicità pari a quella degli altri che pel governo faticano. Rinchiusi in puzzolenti Bagni, ignudi del tutto, o di schifosi stracci coperti, divorati da ogni maniera d’insetti, sono essi al dolore e alla disperazione abbandonati per sempre. Chi sentir potrà senza fremere d’orrore e d’indegnazione, che l’esecrando governo appena spende quattro paoli al mese per fornir di vitto quelli sventurati? e che nega loro qualsiasi alimento ne’giorni di festa, adducendo per pretesto ch’essi a quel tempo non lavorano: intanto che se la carità di qualche Musulmano, non privo al tutto d’umanità, non desse loro un po’di pan nero, elli si morrebbon di fame. Nè già debbe recar meraviglia che gl’infelici schiavi d’Algeri sieno ad ogni ora travagliati dalla sete, dalla fame, dal sonno, da eccessive fatiche e da barbari trattamenti; perciocchè i Turchi si studiano di usare in loro i più straordinari modi di crudeltà, a fine di costringerli a sollecitar prestamente la propria liberazione, ed offrire un grosso riscatto: tanto si è quel popolo non meno dell’oro ingordo che del sangue. Ah! miseri coloro fra gli schiavi cui que’barbari avvisano appartenere ad agiate famiglie! La vita loro è un continuo martirio; e ben tosto periscono, s’altri s’indugia a redimerli: ma quelli che hanno in sorte di essere francati, sono ben pochi in comparazione di coloro che muoiono ogni anno per li patimenti: i quali crescono col crescer dell’età, cioè quando l’uomo è meno acconcio alla fatica. Si scontrano spesso per le pubbliche strade di questi infelici che son presso a morire di fame e di dolore, e che sperar non possono nè conforto nè aiuto. Mi avvenne una volta di sentirmi in sull’imbrunir della sera da una fioca voce chiamare; mi avvicino, e scorgo un misero schiavo a terra disteso, colle labbra piene di spuma e di sangue che gorgogliando gli usciva dalle narici e dagli occhi. Io mi ristetti pieno di cordoglio e di raccapriccio: « O cristiano, o cristiano, dicea quella voce dolorosa, pietà del mio spasimo: pon fine a questa misera vita che io non so più sopportare. » Passa fra tanto un Oldak delle milizie, e gridando al moribondo: « Can d’infedele, non ingombrare la strada mentre passa un Effendi: » diè un calcio a quell’infelice, gittollo giù da un dirupo, e con questo orribile modo il trasse di schiavitù.