Numero XCIII Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-103-534

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 390-393 L’Osservatore veneto 1 093 1761-12-23 Italien
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N° XCIII

A dì 23 dicembre 1761.

Dialogo IX. Circe, Ulisse e Orso.

Ulisse. Grande è veramente l’obbligo mio verso di te, o nobilissima Circe, la quale con tanta grazia e piacevolezza ti sei contentata di restituire la faccia umana a’compagni miei; sicchè di porci, ch’erano poco fa, hanno ripigliate le fattezze loro da uomini. Io non vorrei però che si fosse appiccata loro nell’animo qualche consuetudine di quelle bestie, del cui pelo furono coperti fino al presente; perchè tanto a me sarebbe l’avere conversazioni con porci veramente tali, che con porci che avessero sembianze umane.

Circe. Ulisse, non temer punto di ciò; imperciocchè udisti ch’essi medesimi ti pregavano a far sì che fossero restituiti alla prima forma. La voglia che n’aveano, ti faccia perdere ogni sospetto che non sieno veramente uomini. E sappi più là, che s’eglino stessi non avessero mostrata una vera brama di ritornare alla prima figura, tutta l’arte mia non sarebbe stata sufficiente a così gran maraviglia; come non sarei stata bastante a tramutargli in bestie, s’essi non ne avessero avuta inclinazione. E ben sai, che, se tu non avessi avuto animo diverso da’tuoi compagni, saresti con essi andato nel porcile a pascerti di ghiande. Ora se tu non isdegni questo mio soggiorno, di cui ti fo, veramente il padrone, puoi meco rimanere quanto t’aggrada.

Ulisse. Benchè la tua gentilezza mi stia grandemente a cuore, io ti dirò che non posso dimenticarmi la patria mia, e non mi par di veder quell’ora ch’io rivegga la patria mia e la mia famiglia. Nel che essendo tu cortese quanto pur sei, io ti prego che tu mi dia qualche buon consiglio, acciocchè io possa giungervi una volta dopo tanti anni che vado qua e colà errando pel mare senza sapere dove io sia.

Circe. Lungo viaggio ancora ti rimane a fare, e molti pericoli e strani casi dèi passare prima che tu vi giunga. Ma se tu il vuoi, rimani qui un poco; ch’io anderò a gittar l’arte mia, e ti darò quegli aiuti che mi chiedi. Va’intanto colà verso quella collina, dove sono alcune fiere, con esse t’intratterrai, dappoichè fino al presente non t’è dispiaciuta la loro conversazione.

Ulisse. Mi ti raccomando. In effetto costei potrebbe co’suoi buoni consigli agevolare il mio cammino. Io veggo benissimo che qualche Deità è contraria al mio viaggio. Egli è impossibile che tanta mia fatica e cotanti miei pensieri non fossero fino a qui riusciti a buon fine, s’io non avessi qualche nimicizia in cielo che facesse ostacolo a’mieli disegni. Ma che? la sofferenza m’avrà a cavare da questi affanni, e ai muovere a compassione del fatto mio anche l’ira de’cieli . . . Oh! che bella e verde collinetta è questa! La sembra fatta dall’arte piuttosto che da natura. Come sono diritti questi alberi! e che belli e ordinati’filari d’essi l’adornano! Io voglio star qui un poco a sedere. Anzi dappoichè ho questo poco a ozio, voglio riandare e notare nelle mie tavolette tutti que’ragionamenti che ho qui avuti con le bestie. Sì, sì, questo è il meglio. Ad ogni modo egli è bene ch’io ne faccia memoria. So che queste cose m’hanno a valere un giorno. Con cui ragionai io prima? Col montone e col cane.

Orso. Io veggo costà un uomo che scrive. Quando fui uomo anch’io, quella fu l’usanza mia. Avrei pur caro di sapere quello ch’egli detti.

Ulisse. Oh! come sta attento guardandomi quell’orso colà! Egli dee essere certamente un orso stato già uomo; e sarà una di quelle fiere che poco fa mi diceva Circe. Orso, orso, accostati, che volentieri io ragionerò teco, se tu lo vuoi.

Orso. Bench’io mi scosti mal volentieri dalla mia tana, eccomi. Ma non vorrei interrompere i tuoi pensamenti. Che stavi tu ora scrivendo?

Ulisse. Le conversazioni ch’io ebbi con gli animali di quest’isola.

Orso. A un di presso tu fai quello ch’io faceva già nel tempo in cui io era uomo.

Ulisse. Che? fosti tu forse scrittore? Di grazia, se non t’incresce star qui meco alquanto, raccontami chi tu fosti, e i casi tuoi, fino alla tua tramutazione.

Orso. A me non incresce punto; e se tu hai l’agio, ascoltami. Sparta è la patria mia. Incominciai da’miei primi anni a portare un grande affetto agli studi, per li quali lasciata ogni altra faccenda, me n’andava quasi sempre invasato; ed in continue meditazioni passava il mio tempo. Io ti confesserò che, sopra tutte l’altre cognizioni del mondo, mi piacque lo intendere che cosa fossero gli uomini; e comecchè la sia difficilissima impresa, mi posi in capo di voler leggere nell’animo loro quello che pensassero, e in qual guisa si diportassero, non dico già di fuori, ma intrinsecamente l’uno verso l’altro. Ebbi ad impazzare; perchè ne’primi anni andando dietro al suono delle loro parole, e seguendo gli atti onesti, e le cortesie apparenti, di tempo in tempo mi ritrovava cotanto ingannato, e così fuori di via, che non sapeva raccapezzare nel mio capo come andasse la faccenda, che fra tante e così innumerabili cortesie avesse poi ognuno da querelarsi d’aver avuto a fare con ingrati, d’essere stato tradito e assassinato. Che diavol sarà? diceva io fra me. Io debbo dunque essere sordo e cieco. E che sì, che quando mi parve che Agatone baciasse il viso a Telesfonte, gli spiccò il naso co’denti, e io non me n’avvidi? E quando io avrei giurato che Cremete facesse ceremonie a Damasippo, egli all’incontro gli disse villania? Altro non potrebb’essere, se non ch’io mi fossi ingannato; dappoichè ora sono capitali nemici, e l’uno si querela dell’altro così altamente. Io non approderò nulla, se non userò maggior diligenza, e non istarò più attento a’fatti loro. A poco a poco m’avvidi in effetto che le buone parole erano una maschera che per lo più ricopriva i tristi fatti; e che le ceremonie erano quel canto che si suol dire della Sirena, per rodere l’ossa di chi le presta l’orecchio. Dissi per lo più, imperciocchè in ogni cosa ci vuol discrezione e misura; avendo io per altro conosciuti molti, i quali parlavano col cuore in palma di mano, e si vedea ogni loro sentimento nelle parole. Poich’io ebbi ciò conosciuto, fecimi, per via di dire, una bilancia del cervello; e dall’un lato cominciai a mettere in essa tutto quello che udiva, e dall’altro quello che si faceva, e a contrappesare parole e opere; e di qua ritraeva la somma del bene e del male. Ma sai che m’avvenne? Io cominciai di giorno in giorno a divenir sospettoso, malinconico, taciturno, di malavoglia; e fuggiva dalle genti, come dal fuoco, temendo di loro grandemente, e desiderando di terminare la vita, per non ritrovarmi più a lungo nel numero degli uomini. In così fatti pensieri m’addormentai una notte, e un sogno mi fece cambiar opinione.

Ulisse. Tu farneticavi bene; dappoichè la tua fantasia era anche occupata dormendo di quello che pensavi il giorno.

Orso. Egli mi parea che in un subito s’aprisse il cielo, e di là si spiccasse non so quale figura che avea fattezze di Satiro; non però colle gambe di capro, nè con gli orecchi di montone; ma solamente avea un certo aspetto, nel quale si vedea un malizioso ghigno e una mezzo coperta astuzia. Costui, quando mi fu dinanzi, incominciò grandemente a ridere, e mi disse: “Oh! sciocco! di che ti dái tu pensiero? Vorrai tu intisichire? Fa’com’io fo. Scherza di tutto quello che vedi. Io son Momo, se tu noi sai; e da qui in poi, se tu mi consenti, io sarò teco, e ti guarirò di quella tua malattia, la quale, senza di me, ti condurrebbe ad una mala morte. Oltre di che, sappi che tu potresti, facendo a modo mio, essere di qualche utilità a quegli uomini fra’quali tu vivi; il che ogni persona che vive al mondo, dee cercar di fare ad ogni suo potere. Vieni meco.” Seguitai allora i passi della mia guida; ed egli mi condusse nella caverna d’un monte, in cui dal di fuori erano traportate di dentro tutte le azioni degli uomini; e si vedevano in sulle pareti come certe figure che si fanno apparire per arte. Io domandava a Momo: “Quest’opera chi la fa? E chi è l’autore di quella?” – “Olà, o tu,” diceva Momo, “che vuoi tu sapere? Queste che tu vedi sono opere di genti in comune, e in questa filosofica caverna non si specificherà mai agli occhi tuoi più questo che quello; anzi t’avverrà talvolta che, credendo di vedere un’opera altrui, senza punto avvedertene vedrai la tua propria. Fa’a modo mio, scrivi tutto quello che vedi, e mostralo al mondo, ingegnandoti di far sì che il tuo stile non sia discaro a’leggitori; e lasciane la cura alla fortuna.” Così detto, disparve Momo, come la rugiada tocca dal sole; e io mi risvegliai.

Ulisse. E allora che facesti?

Orso. Quello ch’egli mi disse. Cominciai a scrivere, e pubblicai le mie scritture di tempo in tempo.

Ulisse. E che se ne diceva?

Orso. Come di tutte l’altre cose, chi bene, chi male. Ma prima voglio che tu sappi quello che ti parrà maraviglia. E ciò fu, che in effetto ritrovai quella grotta che avea veduto in sogno, in cui mi si mostravano le apparenze delle cose, senza ch’io conoscessi mai persona che le facesse; e delineava a puntino quello che vedea sulle pareti, noi: altrimenti che un pittore, il quale si stia ricopiando quanto vede, con la maggior diligenza che può, e faccia l’arte sua con amore. Già si spargevano le carte mie per tutta Sparta, quando, avuto novella dell’isola di Circe, mi venne voglia di conoscere quali fossero i costumi di lei; e lasciata la mia grotta, m’imbarcai per questa volta.

Ulisse. E qui fosti vestito della pelle dell’orso.

Orso. Adagio. Ciò non m’avvenne però il primo giorno. Mi fu fatta dalla padrona del luogo una grata accoglienza; e venni accolto a’suoi solenni conviti, e vidi le sue danze pel corso di più giorni. Anzi di tempo in tempo m’avvenne di vedere molti uomini e donne tramutarsi sotto gli occhi miei in diversi animali, de’quali scrissi parecchi dialoghi; e forse mi sarebbe riuscito di prendermi spasso più a lungo, se Circe non avesse conosciuto, non so come, ch’io avea intenzione di scrivere la sua storia. Quello fu il giorno ch’ella mi toccò con la sua fatata verga, e da quel dì in poi, fuggendo ogni umano consorzio, cominciai a vivere per le tane con questa pelle indosso.

Ulisse. E avresti tu voglia di ritornare uomo qual prima?

Orso. Ben sai che sì: e di ritornare, s’io potessi, alla mia grotta per iscrivere, com’io facea una volta.

Ulisse. Ecco Circe. Io la pregherò che ti restituisca il primo aspetto.

Circe. Che fai tu qui con questo a me cotanto odioso animale?

Ulisse. Egli m’ha raccontati a lungo i casi suoi, e brama, quanto più sa, di ritornar uomo; sicchè come s’egli fosse uno de’miei compagni, a te lo raccomando.

Circe. Costui, lasciami ch’io te lo dica, o Ulisse, dee rimanere quell’orso ch’egli è al presente, per tutto il restante della sua vita.

Ulisse. In che ha egli errato così gravemente, che tu non ti muova a compassione di lui?

Circe. In che? In che? Io non istarò ora a dirti qual sia stato il suo fallire. Bastiti . . .

Orso. Io ti chiedo perdono, o bellissima Circe, s’io . . .

Circe. Taci. Non se ne parli più.

Orso. Io chiamo in testimonio gl’Iddii del cielo, ch’io non avea altro che un’intenzione, la quale non fu da me punto colorita. E quando . . .

Circe. (Costui racconterà tutt’i fatti miei, se non mi sbrigo da lui.) Orsù, se tu vuoi diventar uomo, io lo ti concederò: ma prima promettimi che, in qualunque luogo anderai, tu non metterai mai lingua nè penna ne’fatti miei, o d’altre femmine.

Orso. Sì, lo prometto.

Circe. E vedi bene che alla prima parola che t’uscirà contro il nostro sesso, tu ritornerai con questa pelliccia indosso, e sarai da tutti conosciuto per quell’orso che sei al presente.

Orso. Avvengami questo male, e peggio, se più ne favello.

Circe. Eccoti, che col favore della mia verga ritorni allo stato di . . . prima.

Orso. Ringraziato sia il cielo.

N° XCIII A dì 23 dicembre 1761. Dialogo IX. Circe, Ulisse e Orso. Ulisse. Grande è veramente l’obbligo mio verso di te, o nobilissima Circe, la quale con tanta grazia e piacevolezza ti sei contentata di restituire la faccia umana a’compagni miei; sicchè di porci, ch’erano poco fa, hanno ripigliate le fattezze loro da uomini. Io non vorrei però che si fosse appiccata loro nell’animo qualche consuetudine di quelle bestie, del cui pelo furono coperti fino al presente; perchè tanto a me sarebbe l’avere conversazioni con porci veramente tali, che con porci che avessero sembianze umane. Circe. Ulisse, non temer punto di ciò; imperciocchè udisti ch’essi medesimi ti pregavano a far sì che fossero restituiti alla prima forma. La voglia che n’aveano, ti faccia perdere ogni sospetto che non sieno veramente uomini. E sappi più là, che s’eglino stessi non avessero mostrata una vera brama di ritornare alla prima figura, tutta l’arte mia non sarebbe stata sufficiente a così gran maraviglia; come non sarei stata bastante a tramutargli in bestie, s’essi non ne avessero avuta inclinazione. E ben sai, che, se tu non avessi avuto animo diverso da’tuoi compagni, saresti con essi andato nel porcile a pascerti di ghiande. Ora se tu non isdegni questo mio soggiorno, di cui ti fo, veramente il padrone, puoi meco rimanere quanto t’aggrada. Ulisse. Benchè la tua gentilezza mi stia grandemente a cuore, io ti dirò che non posso dimenticarmi la patria mia, e non mi par di veder quell’ora ch’io rivegga la patria mia e la mia famiglia. Nel che essendo tu cortese quanto pur sei, io ti prego che tu mi dia qualche buon consiglio, acciocchè io possa giungervi una volta dopo tanti anni che vado qua e colà errando pel mare senza sapere dove io sia. Circe. Lungo viaggio ancora ti rimane a fare, e molti pericoli e strani casi dèi passare prima che tu vi giunga. Ma se tu il vuoi, rimani qui un poco; ch’io anderò a gittar l’arte mia, e ti darò quegli aiuti che mi chiedi. Va’intanto colà verso quella collina, dove sono alcune fiere, con esse t’intratterrai, dappoichè fino al presente non t’è dispiaciuta la loro conversazione. Ulisse. Mi ti raccomando. In effetto costei potrebbe co’suoi buoni consigli agevolare il mio cammino. Io veggo benissimo che qualche Deità è contraria al mio viaggio. Egli è impossibile che tanta mia fatica e cotanti miei pensieri non fossero fino a qui riusciti a buon fine, s’io non avessi qualche nimicizia in cielo che facesse ostacolo a’mieli disegni. Ma che? la sofferenza m’avrà a cavare da questi affanni, e ai muovere a compassione del fatto mio anche l’ira de’cieli . . . Oh! che bella e verde collinetta è questa! La sembra fatta dall’arte piuttosto che da natura. Come sono diritti questi alberi! e che belli e ordinati’filari d’essi l’adornano! Io voglio star qui un poco a sedere. Anzi dappoichè ho questo poco a ozio, voglio riandare e notare nelle mie tavolette tutti que’ragionamenti che ho qui avuti con le bestie. Sì, sì, questo è il meglio. Ad ogni modo egli è bene ch’io ne faccia memoria. So che queste cose m’hanno a valere un giorno. Con cui ragionai io prima? Col montone e col cane. Orso. Io veggo costà un uomo che scrive. Quando fui uomo anch’io, quella fu l’usanza mia. Avrei pur caro di sapere quello ch’egli detti. Ulisse. Oh! come sta attento guardandomi quell’orso colà! Egli dee essere certamente un orso stato già uomo; e sarà una di quelle fiere che poco fa mi diceva Circe. Orso, orso, accostati, che volentieri io ragionerò teco, se tu lo vuoi. Orso. Bench’io mi scosti mal volentieri dalla mia tana, eccomi. Ma non vorrei interrompere i tuoi pensamenti. Che stavi tu ora scrivendo? Ulisse. Le conversazioni ch’io ebbi con gli animali di quest’isola. Orso. A un di presso tu fai quello ch’io faceva già nel tempo in cui io era uomo. Ulisse. Che? fosti tu forse scrittore? Di grazia, se non t’incresce star qui meco alquanto, raccontami chi tu fosti, e i casi tuoi, fino alla tua tramutazione. Orso. A me non incresce punto; e se tu hai l’agio, ascoltami. Sparta è la patria mia. Incominciai da’miei primi anni a portare un grande affetto agli studi, per li quali lasciata ogni altra faccenda, me n’andava quasi sempre invasato; ed in continue meditazioni passava il mio tempo. Io ti confesserò che, sopra tutte l’altre cognizioni del mondo, mi piacque lo intendere che cosa fossero gli uomini; e comecchè la sia difficilissima impresa, mi posi in capo di voler leggere nell’animo loro quello che pensassero, e in qual guisa si diportassero, non dico già di fuori, ma intrinsecamente l’uno verso l’altro. Ebbi ad impazzare; perchè ne’primi anni andando dietro al suono delle loro parole, e seguendo gli atti onesti, e le cortesie apparenti, di tempo in tempo mi ritrovava cotanto ingannato, e così fuori di via, che non sapeva raccapezzare nel mio capo come andasse la faccenda, che fra tante e così innumerabili cortesie avesse poi ognuno da querelarsi d’aver avuto a fare con ingrati, d’essere stato tradito e assassinato. Che diavol sarà? diceva io fra me. Io debbo dunque essere sordo e cieco. E che sì, che quando mi parve che Agatone baciasse il viso a Telesfonte, gli spiccò il naso co’denti, e io non me n’avvidi? E quando io avrei giurato che Cremete facesse ceremonie a Damasippo, egli all’incontro gli disse villania? Altro non potrebb’essere, se non ch’io mi fossi ingannato; dappoichè ora sono capitali nemici, e l’uno si querela dell’altro così altamente. Io non approderò nulla, se non userò maggior diligenza, e non istarò più attento a’fatti loro. A poco a poco m’avvidi in effetto che le buone parole erano una maschera che per lo più ricopriva i tristi fatti; e che le ceremonie erano quel canto che si suol dire della Sirena, per rodere l’ossa di chi le presta l’orecchio. Dissi per lo più, imperciocchè in ogni cosa ci vuol discrezione e misura; avendo io per altro conosciuti molti, i quali parlavano col cuore in palma di mano, e si vedea ogni loro sentimento nelle parole. Poich’io ebbi ciò conosciuto, fecimi, per via di dire, una bilancia del cervello; e dall’un lato cominciai a mettere in essa tutto quello che udiva, e dall’altro quello che si faceva, e a contrappesare parole e opere; e di qua ritraeva la somma del bene e del male. Ma sai che m’avvenne? Io cominciai di giorno in giorno a divenir sospettoso, malinconico, taciturno, di malavoglia; e fuggiva dalle genti, come dal fuoco, temendo di loro grandemente, e desiderando di terminare la vita, per non ritrovarmi più a lungo nel numero degli uomini. In così fatti pensieri m’addormentai una notte, e un sogno mi fece cambiar opinione. Ulisse. Tu farneticavi bene; dappoichè la tua fantasia era anche occupata dormendo di quello che pensavi il giorno. Orso. Egli mi parea che in un subito s’aprisse il cielo, e di là si spiccasse non so quale figura che avea fattezze di Satiro; non però colle gambe di capro, nè con gli orecchi di montone; ma solamente avea un certo aspetto, nel quale si vedea un malizioso ghigno e una mezzo coperta astuzia. Costui, quando mi fu dinanzi, incominciò grandemente a ridere, e mi disse: “Oh! sciocco! di che ti dái tu pensiero? Vorrai tu intisichire? Fa’com’io fo. Scherza di tutto quello che vedi. Io son Momo, se tu noi sai; e da qui in poi, se tu mi consenti, io sarò teco, e ti guarirò di quella tua malattia, la quale, senza di me, ti condurrebbe ad una mala morte. Oltre di che, sappi che tu potresti, facendo a modo mio, essere di qualche utilità a quegli uomini fra’quali tu vivi; il che ogni persona che vive al mondo, dee cercar di fare ad ogni suo potere. Vieni meco.” Seguitai allora i passi della mia guida; ed egli mi condusse nella caverna d’un monte, in cui dal di fuori erano traportate di dentro tutte le azioni degli uomini; e si vedevano in sulle pareti come certe figure che si fanno apparire per arte. Io domandava a Momo: “Quest’opera chi la fa? E chi è l’autore di quella?” – “Olà, o tu,” diceva Momo, “che vuoi tu sapere? Queste che tu vedi sono opere di genti in comune, e in questa filosofica caverna non si specificherà mai agli occhi tuoi più questo che quello; anzi t’avverrà talvolta che, credendo di vedere un’opera altrui, senza punto avvedertene vedrai la tua propria. Fa’a modo mio, scrivi tutto quello che vedi, e mostralo al mondo, ingegnandoti di far sì che il tuo stile non sia discaro a’leggitori; e lasciane la cura alla fortuna.” Così detto, disparve Momo, come la rugiada tocca dal sole; e io mi risvegliai. Ulisse. E allora che facesti? Orso. Quello ch’egli mi disse. Cominciai a scrivere, e pubblicai le mie scritture di tempo in tempo. Ulisse. E che se ne diceva? Orso. Come di tutte l’altre cose, chi bene, chi male. Ma prima voglio che tu sappi quello che ti parrà maraviglia. E ciò fu, che in effetto ritrovai quella grotta che avea veduto in sogno, in cui mi si mostravano le apparenze delle cose, senza ch’io conoscessi mai persona che le facesse; e delineava a puntino quello che vedea sulle pareti, noi: altrimenti che un pittore, il quale si stia ricopiando quanto vede, con la maggior diligenza che può, e faccia l’arte sua con amore. Già si spargevano le carte mie per tutta Sparta, quando, avuto novella dell’isola di Circe, mi venne voglia di conoscere quali fossero i costumi di lei; e lasciata la mia grotta, m’imbarcai per questa volta. Ulisse. E qui fosti vestito della pelle dell’orso. Orso. Adagio. Ciò non m’avvenne però il primo giorno. Mi fu fatta dalla padrona del luogo una grata accoglienza; e venni accolto a’suoi solenni conviti, e vidi le sue danze pel corso di più giorni. Anzi di tempo in tempo m’avvenne di vedere molti uomini e donne tramutarsi sotto gli occhi miei in diversi animali, de’quali scrissi parecchi dialoghi; e forse mi sarebbe riuscito di prendermi spasso più a lungo, se Circe non avesse conosciuto, non so come, ch’io avea intenzione di scrivere la sua storia. Quello fu il giorno ch’ella mi toccò con la sua fatata verga, e da quel dì in poi, fuggendo ogni umano consorzio, cominciai a vivere per le tane con questa pelle indosso. Ulisse. E avresti tu voglia di ritornare uomo qual prima? Orso. Ben sai che sì: e di ritornare, s’io potessi, alla mia grotta per iscrivere, com’io facea una volta. Ulisse. Ecco Circe. Io la pregherò che ti restituisca il primo aspetto. Circe. Che fai tu qui con questo a me cotanto odioso animale? Ulisse. Egli m’ha raccontati a lungo i casi suoi, e brama, quanto più sa, di ritornar uomo; sicchè come s’egli fosse uno de’miei compagni, a te lo raccomando. Circe. Costui, lasciami ch’io te lo dica, o Ulisse, dee rimanere quell’orso ch’egli è al presente, per tutto il restante della sua vita. Ulisse. In che ha egli errato così gravemente, che tu non ti muova a compassione di lui? Circe. In che? In che? Io non istarò ora a dirti qual sia stato il suo fallire. Bastiti . . . Orso. Io ti chiedo perdono, o bellissima Circe, s’io . . . Circe. Taci. Non se ne parli più. Orso. Io chiamo in testimonio gl’Iddii del cielo, ch’io non avea altro che un’intenzione, la quale non fu da me punto colorita. E quando . . . Circe. (Costui racconterà tutt’i fatti miei, se non mi sbrigo da lui.) Orsù, se tu vuoi diventar uomo, io lo ti concederò: ma prima promettimi che, in qualunque luogo anderai, tu non metterai mai lingua nè penna ne’fatti miei, o d’altre femmine. Orso. Sì, lo prometto. Circe. E vedi bene che alla prima parola che t’uscirà contro il nostro sesso, tu ritornerai con questa pelliccia indosso, e sarai da tutti conosciuto per quell’orso che sei al presente. Orso. Avvengami questo male, e peggio, se più ne favello. Circe. Eccoti, che col favore della mia verga ritorni allo stato di . . . prima. Orso. Ringraziato sia il cielo.