Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero LXXXIX", in: L’Osservatore veneto, Vol.1\089 (1761-12-09), S. 373-377, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.474 [aufgerufen am: ].


Ebene 1►

N° LXXXIX

A dì 9 dicembre 1761.

Ebene 2► Ebene 3►

Dialogo VI.

Ulisse e Pipistrello.

Ebene 4► Dialog► Utopie► Ulisse. Non mi può uscire di mente quella civetta; e dire ch’ella si pose in animo con sì bel tratto di vincere la fama della bellezza d’Elena: nè so cessare di maravigliarmi ch’essendo tutta la Grecia [374] sossopra, e ragionandosi d’ogni parte d’arme e ai furie militari, costei non avesse altro in cuore, che di rendere celebrata sè medesima col condur seco quei pochi uomini ch’erano ancor a casa rimasi. E noi goffi quanti fummo re e condottieri, per ricuperare la riputazione de’maritaggi, eravamo intanto a combattere, e a lasciare i corpi e l’anime sulle rive dello Scamandro, e a contrastare con gli stessi Dei dell’Olimpo. Io veramente non volea andarvi, nè mettermi a tanto rischio per una femmina; ma fui colto alla trappola; e venne vinta la mia dall’altrui malizia, sicchè a dispetto mio mi convenne partirmi; e vedi che m’è avvenuto, ch’io sono ancora errante nel mondo, e non so quando avrò tanto di prosperità ch’io possa ritornare a casa mia. Oh! vedi ch’io son venuto così passeggiando pian piano, e ragionando tra me, e avrò forse riscontrato qualche animale che non mi sarò avveduto! Che grotta è questa? Io ho sì lungamente camminato, che mi sento una cert’asima di caldo . . . Voglio entrarvi, e mettermi un poco a sedere. Così si faccia. Oh! io sto meglio. Almen che sia, vedessi qualche bestia, per non perdere il tempo così da me a me . . . Ma non vegg’io, ora che mi sono alquanto avvezzato a questo buio, costassù penzoloni un pipistrello sotto la volta della spelonca? Chi sa che costui non sia stato uomo anch’egli? Tenterò. Lo gratterò nell’amor proprio. S’egli fu uomo, mi risponderà. S’io m’inganno, pazienza: avrò gittate via alcune poche parole. Oh cara e soave delizia della solitudine! Quanto sopra ogni altro diletto del mondo ti dovrebbero amare gli uomini d’ingegno! Qui sono fuori d’ogni romore; gl’inganni dell’umana stirpe non vi possono punto. Posso a qualunque cosa rivolgere il mio pensiero, ed intrattenermi a mia volontà in ogni genere di meditazioni, senza venire sturbato. Oh! come parmi che più di tutti gli altri animali l’intenda bene questo pipistrello, il quale fra tutt’i luoghi dell’isola s’elesse questa solitaria spelonca! Qui sta egli il giorno, mentre che tutti gli altri uccelli schiamazzano e fanno strepito sugli alberi e per gl’immensi campi dell’aria. Poi quando vengono le tenebre, e tutto rabbuia, nel silenzio della notte va soletto a’fatti suoi, e ritorna al suo albergo al primo albore del giorno. Giudizioso animale! Invidio la tua elezione. (Per mia fè ch’egli è uomo, e comincia a dondolarsi e stride un pochette. Poco starà a parlare.)

Pipistrello. Chiunque tu sia, che sei qui venuto, molto ragionevolmente favelli. Vedesti mai altro fra gli uomini, che inganni, lacci, tranelli e mille insidie, con le quali tentano di struggersi e annichilarsi? Quanto è a me, io fui sempre di questa opinione; e per non cadere nelle loro mani, gli ho fuggiti a tutto mio potere; e fuggo al presente ancora ogni compagnia, temendo d’essere trappolato.

Ulisse. Ma se tu hai sempre temuto delle trame altrui, come avvenne poi che cadesti alla rete in quest’isola, e divenisti d’uomo pipistrello, dappoichè so che quanti qui sono animali, i quali favellano, furono prima uomini, e vennero dalle malie di Circe in animali scambiati?

[375] Pipistrello. La storia è lunghetta. Se tu hai sofferenza, io ti dirò ogni cosa.

Ulisse. Di’pure, chè volentieri starò udendo il tuo ragionamento.

Ebene 5► Utopie► Pipistrello. Prima ch’io fossi pipistrello, mi chiamava Autolico, e nacqui in Argo d’una famiglia nè ricca nè povera, nè da me in fuori ebbe il padre mio altri figliuoli. Cominciai a conoscere la malizia degli uomini dagli ammaestramenti del padre mio, il quale per difendere la roba sua era sempre in continui litigi; e mai non ritornava a casa che non soffiasse come un istrice, e non battesse co’piedi il terreno, gridando che a questo mondo non si potea più vivere, che da ogni lato gli venivano tesi lacci, e ch’egli era molto meglio vivere in un deserto, lontano da tutti gli uomini, che aver sempre a stillarsi il cervello, e starsi coll’arme in mano dì e notte per combattere con l’iniquità altrui. Io udendo queste parole, era così spaventato dalla vista delle genti, che, se avessi veduto tigri e lioni, non avrei avuto tanto timore. Intanto me n’andava alla scuola, e intrinsecandomi a poco a poco negli studi, m’innamorai delle dottrine, e lasciato ogni pensiero, mi parea d’esser beato quando passava il tempo leggendo o scrivendo, senza punto curarmi di quello che nel mondo si facesse; e non solo non amava, come gli altri giovani, di ritrovarmi in compagnia a’conviti e alle danze, ma non mi curava punto di guernire il corpo di galanti vestiti, come tutti gli altri facevano, nè di pettinarmi la zazzera, o usare intorno a me altre gentilezze. Vedendomi la gioventù d’Argo di tal condizione, cominciarono tutti a cognominarmi il Filosofo; e io per assecondare così glorioso cognome, posimi indosso un mantelletto, e portava un bastoncello in mano, e sopra tutto mi fornii la lingua di molti pungenti motti e satire, le quali io scoccava contro a questo e a quello, senza risparmiare qualunque si fosse, nè grande nè picciolo; tanto ch’era segnato a dito dovunque mi vedeano a spuntare; e sopra tutto le femmine m’aveano in tale odio, ch’io credo, se avessero potuto, m’avrebbero fatto macinare in carne e in ossa, come si fa del grano al mulino. Io conosceva tutte le loro astuzie, e le dicea loro in faccia; e già era vittorioso di quel sesso, cotanto da tutti gli uomini temuto, per modo ch’esse pensarono di vendicarsi: e fatta un giorno insieme una combriccola, giurarono di voler vedere la mia rovina.

Ulisse. Io mi sento a tremare i nervi e l’ossa pel timore del fatto tuo. Tu eri caduto in male mani. Io non vorrei che contro a me fosse fatta una combriccola di femmine, per quant’oro è nel mondo. Di grazia, di’quello che in esso consiglio venne conchiuso.

Pipistrello. Molti furono i loro pareri; e qual d’esse volea ch’io fossi ucciso con le mazzate da’sicari, quale avvelenato; chi una morte, chi un’altra mi destinava, senza misericordia veruna. Quando, a quanto seppi di poi, si levò tra loro una certa Eeta, giovane di vent’anni, la più astutaccia e maliziosa creatura che mai avesse anima di donna in corpo, e parlò in questa guisa: “Mille morti non che una meriterebbe Autolico, il quale ci va con le sue satire e continue punture svillaneggiando; e se alcuna è fra voi, che abbia voglia di vederlo arder vivo, in son quella. Ma che vi credete voi? La giustissima vendetta nostra si rovescerebbe sopra di noi medesime, e verrebbe detto che, per non [376] aver potuto sofferire la verità, l’abbiamo fatto ammazzare. Non sono, le armi nostre nè i bastoni, nè il veleno, nè le spade. Si lasci vivo Autolico; ma solamente si faccia conoscere al mondo ch’egli è una bestia, e che non sa quello che si dica. Se quest’onorato e magnifico congresso vuol lasciare l’impaccio a me dell’universale vendetta, io m’obbligo fin da questo punto di farlo cadere in tanta ignominia, che gli parrà d’essere peggio che morto.” Applaudirono le circostanti femmine al suo coraggio, e fu rimessa in lei la generale vendetta.

Ulisse. O Autolico, tu stai fresco.

Pipistrello. Non passò un’ora, ch’ebbi a casa mia una polizza di questo tenore: “Nobile e virtuoso Filosofo. Tu hai col tuo nobile coraggio fatte adirare tutte le femmine. Rallegromi teco, bench’io sia donna. Poco fa uscii da un consiglio tenuto da loro contro di te, nel quale era stata deliberata la tua morte. Io sola m’opposi, conoscendo la tua gran virtù, e coll’industria procurai di sottrarti al pericolo che ti sovrastava. Promisi di vendicarle, ed esse rimisero in me la loro vendetta. Ho prolungato per vederti salvo. Non dico che tu cessi perciò di dir male di noi. Tali sono i nostri difetti, che un uomo di senno e di dottrina, qual tu sei, non può comportargli! Esci solamente d’Argo per qualche tempo. Ritrova qualche solitario luogo, dove tu possa a tuo agio scriver satire contro di noi; e io ti prometto, se tu m’avviserai del luogo della tua dimora, di scriverti tutte le pazzie che fanno le femmine in Argo, sicchè potrai impinguare gli scritti tuoi con tuo grande onore, e vendicarti della loro crudeltà. Va’, nobile e perfetto ingegno. Accetta il mio consiglio. Tu hai ragione. Io medesima sono del tuo parere; ed è necessaria la tua vita per disingannare il mondo delle nostre malizie. Spiacemi solo d’esser donna, o almeno d’esser giovane di vent’anni, e, per quello che dicono le genti, bella. Che se tal non fossi, e la maldicenza non potesse aver luogo, tu m’avresti per tua compagna dovunque andassi. Ma non potendo venire, m’avrai sempre amica e serva Eeta.”

Ulisse. Che parve a te quando leggesti la polizza?

Pipistrello. Mi maravigliai grandemente che in donna si ritrovasse tanto coraggio e conoscenza sì bella. Tocco venne il mio cuore da allegrezza e da gratitudine.

Ulisse. E molto più, cred’io, dall’aver letto ch’Eeta aveva vent’anni, e veniva giudicata bella. Confessa il vero, filosofo.

Pipistrello. Non posso negare ch’io mi sentii nell’animo gran curiosità di vederla, e diceva fra me: “Io non so intendere come in così giovanile età, e sotto così bella faccia, qual ella dice d’avere, sia così maschia virtù. Io avrei pur caro di vedere cotesta Eeta, parte per appagare la curiosità mia e vedere così virtuosa fanciulla; e parte ancora per palesarle la mia gratitudine. Ella mi consiglia bene; io me n’andrò, e son certo che mi farò onore negli scritti miei, massime se avrò le notizie ch’ella mi promette. Certo egli è bene ch’io vada a ritrovarla.” Che starò io più lungamente a dirti? Procurai di vederla. Avea vent’anni: era bella. Vidi l’aria di Minerva. M’accolse come il migliore amico. Lodò la forza dell’animo mio. Ratificò quanto m’avea! promesso: mi licenziò con le lagrime negli occhi, quand’io mi levai per andarmene. Io non sapea spiccarmi da lei. Le dissi: “In grazia di così bella e garbata giovane, io mi sento tentato a non dir più male delle femmine.” – “Forse sarebbe meglio,” rispos’ella sospirando. “Questo de-[377]bole e infelice sesso ha piuttosto bisogno di compassione, che d’altro. Se vi desse l’animo di tacere, io le acquieterei.” – “E potrei io,” ripigliai, “rimanere in Argo senza pericolo?” – “Sì, che potreste,” diss’ella; “e chi sa, che talvolta non potessimo aver il piacere di dirne male insieme, e amichevolmente ridere della donnesca fragilità; e voi anche ridere di me medesima?” Dicendo queste parole, vidi le guance d’Eeta diventare vermiglie come di rosa, e gli occhi suoi a terra inchinarsi. Poco mancò che non le baciassi la mano; ma per allora mi ritenni, e le promisi che non mi sarei più partito. Uscii di casa sua, che il cervello m’andava attorno. Ritornai di là a qualche giorno, e non passò un mese che v’andava ogni dì, e non so come fosse, che così a poco a poco, ridendo della debolezza delle donne, la mi fece cambiar mantello e vestiti, sicchè in capo ad esso mese mi ritrovai scambiato da quel di prima senza punto avvedermene. Già si mormorava e ridevasi del fatto mio per tutta la città d’Argo, nè io ancora m’avvedeva di nulla, quando una sera, fingendosi meco Eeta ingrognata per gelosia, la fece tanto e la disse, ch’io mi gettai inginocchioni dinanzi a lei; e allora si spalancarono ad un tratto gli usci di tutte le sue stanze, e n’uscirono più di cento femmine, le quali con le risa mi circondarono, e si facevano beffe del fatto mio: e quello che m’atterrò affatto, si fu il vedere ch’Eeta medesima più di tutte l’altre sgangheratamente rideva, e si facea di me le beffe maggiori. Io disperato scesi correndo la scala, e non sapendo in qual luogo m’andassi, tanta era la mia vergogna; corsi al mare, e quivi trovato un vascello che facea vela, m’imbarcai di subito, e mi spiccai dal lido. Navigai molto tempo, e finalmente giunsi a quest’isola; e ritrovatala vôta d’abitanti, mi confortai grandemente di qui seppellire la mia vergogna. Ma poco durai in tanta felicità, perchè capitatami Circe dinanzi, come s’ella avesse saputi tutt’i casi che m’erano: avvenuti, incominciò a compassionare lo stato mio, e ad aggravare con molte invettive le femmine; la qual cosa fece ch’io prima attentamente l’ascoltassi, e finalmente ch’io mi sentissi quel foco nell’animo per lei, ch’io avea per Eeta sentito. Io non so come la fosse; ma mentre ch’io era più lieto e contento, mi trovai scambiato in pipistrello, come mi vedi; e non mi rimase altro bene, se non ch’io non sono più in stato d’esser guidato alla trappola dalle donne, che se fossi rimaso uomo, vi sarei, credo, caduto mille volte ancora. ◀Utopie ◀Ebene 5

Ulisse. E ben ti sta. A che diavol ti mettesti tu in capo di dir mal delle femmine? Egli pare che gli uomini non abbiano maggior onore che quello di motteggiare le donne, che sono quanta delizia ha il mondo. Noi siamo gli stemperati. Egli è delle femmine, come del vino. Tanto si dee trescare, quanto ne nasca ricreazione e allegrezza. Pipistrello, statti pipistrello, chè lo meriti. ◀Utopie ◀Dialog ◀Ebene 4 ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1