Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero LXXX", in: L’Osservatore veneto, Vol.1\080 (1761-11-07), S. 334-338, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.465 [aufgerufen am: ].


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N° LXXX

A dì 7 novembre 1761.

Zitat/Motto► Ac natura quidem confusa et inæqualis est, et a
peculiari cujusquam pendet ingenio; leges autem
communes et ordinatæ sunt, et eædem universis
.

Demost.

Nel vero natura ha in sè miscugli e disugua-
glianze, ed è particolare secondo l’animo di
questo o di quello; ma le leggi sono comuni,
ordinate, e quelle medesime per tutti. ◀Zitat/Motto

Ebene 2► Ad ogni modo io credo certamente che il mondo sarebbe una matassa scompigliata, se ognuno fosse lasciato fare a sua volontà. Di qua ci sarebbe uno, che, non curandosi di altro che di mettere danari in borsa, scorticherebbe la pelle al compagno per dritto e per traverso, e quando egli avesse più potere e forza di un altro, egli correrebbe colle armi alla mano sopra i terreni e sopra le case del prossimo, come si va alla guerra, e direbbe che il togliere per forza è un acquisto. Di là direbbe un buon compagno, a cui nascessero parecchi figliuoli: “Che ho io a fare di questo nuovo bulicame, di questi vagiti e di questo balbettare in casa mia? Io non veggo nè cavalli, nè montoni, nè altri animali viventi che si dieno briga della loro stirpe. Se vogliono, si vivano; se non vogliono, facciano come possono: io non intendo che i pensieri, i travagli e le noie mi spolpino. Perchè ho io ad affaticarmi acciocchè questa genía cresca, e intanto a rodermi il cervello?” Dall’altro lato, non direbbero forse i figliuoli dei padri loro: “Ecco sono costoro già invecchiati, inutili, e noi dobbiamo fantasticare e sudare per dar da biasciare a quelle loro sdentate gengíe, e perdere per loro la nostra più fiorita giovinezza? E perchè ci vogliono anche comandare? perchè ci hanno fatto nascere? perchè ci hanno allevati? qual obbligo è questo? Obbligata è la madre a noi; chè se non fossimo nati, la sarebbe morta di parto. E se ci hanno allevati a ciò che siamo loro schiavi, egli era meglio lasciarci perdere la vita in fasce.” Queste e altre somiglianti barzellette, o piuttosto scellerate parole, direbbe ogni condizione di genti, se le fossero solamente guidate dalla natura loro; e il mondo, che ora apparisce così risplendente, così bello, sarebbe una spelonca di ladroni, un bosco universale di bestie salvatiche, e una burrasca perpetua. Quella delle leggi è stata veramente un’opera santa e divina, la quale conoscendo la inegualità de’temperamenti e la diversità delle umane pazzie, che non avrebbero mai potuto annodare gli animi insieme, e formare questo bell’ordine di società che vediamo, ha ordita una invisibile catena che gli accorda e lega, tanto che si possono comportare l’un l’altro, e vivere in amicizia ed in pace. Queste benedette leggi, conoscendo la complessione di tutti, hanno profferito tutto quello che si dee fare; e di tutti i miscugli e le disuguaglianze nostre ci hanno arrecato il rimedio, dimostrando in poche parole come ognuno si avesse a reggere secondo i casi, e in qual forma si avesse a chiudere gli orecchi [335] alle voci della naturaccia trista, e a tenere sì fatto ordine, che ognuno in particolare conferisca al bene di tutti. Non è forse stato questo un trovato più che umano, un’invenzione ispirata da’cieli?

Egli è però il vero che noi siamo fatti d’una pasta così trista, che ad ogni modo di tempo in tempo cerchiamo di sfuggire da queste lodevoli ordinazioni, e di uscire, come dir si suole, pel rotto della cuffia. Abbiamo nel corpo nostro una malizia che fa i commenti e le chiose a tutte le leggi, non già per ritrovare la storia e il fondamento onde furono pubblicate, chè la non si cura di erudizione, no; ma per ricercare se vi fosse modo da potere cansarle, per rompere qualche maglia. E se le riesce, vi so dire ch’egli mi par di vedere tanti pesciolini colti ad una rete, che, come vi si è fatto dentro un bucolino, guizzano fuori tutti l’uno dietro l’altro, e ne vanno prima in fila, poi chi qua chi là a’fatti loro. Per la qual cosa non bastano punto le leggi, ma vi ha ad essere un altro riparo che cominci più per tempo. Quella naturaccia trista, che ho nominata di sopra, ha però un certo che, una qualità sua propria, per la quale può essere a poco a poco guidata a miglioramento. La può essere guidata a quel che si vuole da una onesta consuetudine, dal farla spesso operar bene, dal vegliar sopra di lei con una diligente custodia, per modo ch’ella entri ne’santissimi legami delle leggi, assuefatta e accordatasi spontaneamente a quelle prima di conoscerle. Queste verginette piante della gioventù si hanno continuamente a nutricare, a scalzarle d’intorno, a troncar loro gl’inutili rami, a non abbandonarle mai, perchè le crescano a poco a poco e fruttifichino a tempo. A questo modo la gioventù, quando la comincia a vivere da sè, l’arreca alla società e alla vita comune un animo adattato agli statuti, e senza punto avvedersene, come se gli avesse in corpo, fa secondo quello ch’essi le impongono. Laddove all’incontro essendo lasciata vivere ne’primi anni di sua testa e con le cavezzine in sul collo, entrando in società, di prima giunta non sa quello ch’ella debba fare, e avviene talvolta che anche senza saperlo la urta in iscoglio. Non vedi tu come fa il legnaiuolo? Fa’tuo conto ch’egli sia il legislatore. Egli ha in capo di fare un uscio di molte assi ch’egli ha in sua mano; e in sua mente le stabilisce prima al proprio lavoro. Pialla, sega, fa capruggini a questo pezzo, a quello, che tu non sapresti a che debbano servire; quando gli ha tutti apparecchiati, gli accosta l’uno all’altro, gli connette e gli lega così facilmente, che par che vi vadano da sè medesimi, e in un batter di ciglia è fatto l’uscio ch’egli volea, si accorda ogni pezzo, si affronta benissimo e si stringe; lo mette in su’gangheri e fa l’uffizio suo. S’egli avesse a forza di chiovi congiunte le assi, non dirozzate, non piallate e senza i debiti apparecchiamenti, vedresti un’apparenza di un uscio; ma ad ogni tratto ne uscirebbe di qua una fissura, di là un’asse in breve si spiccherebbe dall’altra; sicchè in fine ti parrebbe che avessero nimicizia fra sè, e l’avrebbero in effetto, perchè; non si possono le cose congiunger bene tutte insieme, se prima a una a una non sono acconce al congiungimento che tu ne vuoi fare; e sono mal vaghe di stare ad un ordine, se tu non le avrai prima ad esso rendute ubbidienti.

[336] L’artifizio e l’esecuzione di tutto ciò tocca all’educazione. Se questa non sarà attenta e vigilante nel principio, sicchè a poco a poco la conduca gli animi che non sanno, ad uniformarsi un giorno al debito loro, non si congiungeranno mai quando sarà tempo, e vi riusciranno torti e di mal garbo. Metatextualität► Tutte queste cose stava io fantasticando da me, quando mi prese un gravissimo sonno, e secondo la usanza mia che vedo anche dormendo azioni e faccende di uomini e di donne continuamente, mi apparve innanzi quanto narrerò al presente. ◀Metatextualität

Ebene 3►

Sogno.

Ebene 4► Traum► Fecesi udire agli orecchi miei un altissimo scoppio di folgore, la quale, percossa la sommità di una montagna, fecela rovesciare dall’un lato e dall’altro per sì fatto modo, che nel mezzo della spaccatura rimase una città la più bella e la meglio popolata che si potesse con l’immaginazione dipingere. Oh! diceva io maravigliato, nascono le città come i funghi? E vedendola sì bella e grande e di un’apparenza veramente reale, mi sentii tratto da una subita voglia di entrarvi; onde incamminandomi, secondo il mio desiderio, me ne andava alla volta di quella. Alla porta stavano per guardia due vecchioni venerandi di aspetto, i quali con passi tardi e gravi, secondo l’età e maestà loro, mi vennero incontro, e mi domandarono donde io fossi e a che quivi venuto. Risposi ch’io era di lontani paesi; e parendomi che gli avrei offesi a dir loro che lo istantaneo nascere di quella città mi avea fatto invogliar di vederla, e parte parendomi d’esser pazzo ad asserire così fatta maraviglia, dissi ch’io vi andava, invitato dalla fama di così bella ed invitta città, per vederla. Risero i due buoni vecchi alla mia menzognera risposta; indi voltisi a me, mi rinfacciarono la mia adulazione; e l’uno di loro mi disse: “Gran fama veramente dev’essere sparsa per il mondo della città nostra, la quale è uscita del guscio in questo punto, e appena appena si può dire che torri e muraglie comincino al presente a veder l’aria. Ma tu sei degno di scusa. Mai non vedesti così fatti prodigi, e perciò eleggesti piuttosto le lusinghevoli parole che le veraci. Tu dèi sapere ch’io sono quell’antichissimo Orfeo di cui avrai udito ragionare più volte ne’tuoi paesi; e questi, che meco qui vedi, è quel dolcissimo Anfione, il quale, salvatosi da un gran pericolo in mare, col suono della sua cetra fece un tempo l’una sopra l’altra salire le pietre delle mura di Tebe. L’uno e l’altro demmo le leggi a diversi paesi, i quali poi per la malizia degli uomini furono dati in preda alla distruzione. Di che dolendoci noi dinanzi a Giove, egli ci permise che, usciti fuori dell’abitazioni delle Ombre, potessimo un’altra volta salire al mondo, e riedificare una città a voglia nostra; la quale finalmente è quella che tu vedi, e che oggi pel primo giorno è sopra la terra apparita. Io non ti potrei dire quanti anni sieno che facemmo una via sotterranea nelle caverne del monte che avrai testè veduto sparire. Bene avremmo potuto noi, come la prima volta, andare fra genti strane e [337] salvatiche, e dar loro nuove e rigorose leggi, come facemmo già un tempo; ma avvedutici alla passata sperienza che il dare le leggi dove gli animi hanno già presa la piega loro, poco giova e per non molti anni, entrati nelle cave del monte, e quindi usciti di tempo in tempo, andammo colatamente depredando qua fanciulli, colà fanciulle, e secondo le nostre intenzioni allevandogli, e facendo maritaggi, e i figliuoli che ne nascevano ordinatamente educando, empiemmo tutti i vani del monte di una nuova popolazione. Il compagno mio, secondo che andavano crescendo le stirpi, sonava, e qua facea sorgere una casa, colà una torre e costà un castello; tanto che fu compiuta la città ed empiuta di abitatori. Allora facendo noi con le preghiere domanda al supremo Giove che la lasciasse al mondo apparire, quegli, come tu avrai forse potuto udire e vedere, scoccando la sua folgore, aperse il monte e l’adito alla città nostra di potersi godere il sole e l’aria come fanno tutte l’altre. Ora, se tu la vuoi vedere, vieni.” Così detto, i due venerandi vecchioni mi precedevano, e io andava dietro a loro. Mentre che in tal modo si camminava, io udii Anfione che diceva ad Orfeo: “Dove lo condurremo noi prima? Noi abbiamo le scuole dove si avvezzano i giovanetti alla fatica del corpo, e quelle dove si forniscono l’intelletto con lo studio delle arti e delle scienze. Ci sono i luoghi dove si addestrano nelle arme, quelli dove le genti si avvezzano a’lavori per supplire alle bisogne della città; dove lo condurremo noi?” – “Abbiamo” rispose Orfeo, “a condurlo colà dove tutte queste cose hanno il cominciamento, cioè a quella scuola dove si ammaestrano fanciulli e fanciulle ai costumi del maritaggio, donde poi esce tutta la generazione che il paese riempie.” “Bene sta,” rispose l’altro, “andiamo.” Così detto, giungemmo ad un’ampia e spaziosa sala, il cui mezzo era del tutto vôto di genti; e di qua e di là vi avea due filari di stanze dall’un capo all’altro distese nell’im-mensa sala, dall’un lato tutte ripiene di teneri giovanetti, e dall’altro di fanciulle, che non oltrepassavano i sei anni, nè maschi, nè femmine. Capi e, maestri degli uni erano uomini; e delle altre, donne di matura età, che con li loro insegnamenti introducevano a’discepoli nell’animo la virtù, la modestia, l’onestà, e tutte quelle qualità che forniscono l’animo della giovinezza. Ma quello di che io grandemente mi maravigliai, si fu il vedere che aveano certi fantocci di cenci i quali aveano movimento e vita, de’quali ne veniva consegnato uno per fanciullo e uno per fanciulla; e di quello che ciascheduno mangiava, dovea dare una porzione al fantoccio suo; e chi si mostrava dolente o ingrognato nel compartire il suo pranzo, tosto era gastigato rigidamente; e chi volentieri e amorevolmente lo pasceva, ne veniva premiato.

Facevansi di tempo in tempo uscire delle cellette loro i fanciulli e passare innanzi a quelle delle giovinette, le quali stavano con le maestre loro all’uscio; e i capi di quelli dicevano a’loro discepoli: “Salutate, siate gentili a tutte quelle giovani che voi vedete, delle quali ognuno di voi una ne possederà; e sappiate che le sono nate tutte per essere il mantenimento e la consolazione delle vostre famiglie. Quella che ad ognuno toccherà, dee essere la compagna sua fino a tanto ch’egli vive, e quella dee amare e aver cara quanto sè medesimo. Ella avrà l’obbligo di essere soggetta a lui; ma egli dal suo lato sarà obbligato ad usarle cortesia e umanità, e con la gentilezza del trattarla e’non le lascerà punto conoscere la sua soggezione, ma le darà in ogni atto a vedere che la è la metà sua, la compagna sua, sicchè ella non s’inva-[338]ghisca di desiderare altro quando ella è seco. Vedete come le son belle queste fanciulle, come le son graziose! Oh! non sarebbe egli gravissimo peccato che alcuna di esse ritrovasse in alcuno di voi rigidezza, bestialità, crudeltà e stranezze tali, che il suo bel corpicino e l’animo.; suo dilicato non le potesse comportare, sicchè fosse obbligata a fare una pessima vita, a morir di dolore, o a spiccare il cuor suo da quello; a cui toccherà, e ritrovare in un altro maggior cortesia e quiete maggiore? Qual vergogna sarebbe quella di colui a cui questo accadesse? Ch’egli non avesse saputo in civiltà e in gentilezza valere più che un altro che nulla avea a fare con lei?” Dall’altra parte, mentre che i fanciulli passavano, dicevano le maestre alle donzelle: “Vedete voi, fra que’giovani ognuna avrà il compagno suo. Siate loro gentili e di buona grazia, ma non vi mostrate troppo appassionate di vedergli. Voi sarete da tutti loro comunemente onorate, se saprete stare in un decoroso contegno. Vedete voi come vi salutano? come vi s’inchinano? come sono lieti e ridenti quando vi passano innanzi? La fama della vostra modestia e virtù vi rende loro sì grate; non vi crediate che i vostri visi e la grazia de’corpi vostri bastino. O se pure sono sufficienti, non hanno sì lunga durata che potessero farvi signore degli animi loro. La virtù sola vi farà rispettare e vi renderà grate. Uno di quelli dee essere il compagno di una di voi. Ricordatevi . . .” ◀Traum ◀Ebene 4 ◀Ebene 3 Metatextualität► Maladetto sonno che in sul più bello de’precetti di maritaggio alle femmine, si ruppe, e non potei udire quali fossero. Ma chi si affida a’sogni, la va a questo modo. Io ne hai pazienza; l’abbia meco chi legge. ◀Metatextualität ◀Ebene 2 ◀Ebene 1