N.° II
Roveredo 15 ottobre 1763.
Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla Morale dell’abate
Antonio Genovesi, tomo primo. Napoli 1758. Nella stamperia
Simoniana, in 8.o
Io mi dilettava tanto quand’era
giovanetto di leggere storie e poesie, che da dieci anni in su,
posso dirlo senza millanteria, me ne ficcai propio in capo una
biblioteca intiera, ad onta de’varj studj ed esercizj che dovetti
fare nell’adolescenza mia, e poi ad onta dei tanti viaggi, che prima
il caso e quindi il genio mi fecero intraprendere tosto che la barba
cominciò ad annerarmi il mento. Ma quella mia giovanile ingordigia
d’arricchirmi la memoria colle storie e d’allargarmi la fantasia
colle poesie, se non cessò affatto, si scemò però di
molto quando venni a toccare il sesto lustro: e fu allora che
cominciai a non far quasi più conto alcuno d’altri libri, che di
quelli i quali ammaestrano a dirittura l’intelletto: vale a dire che
trattano di cose fisiche e di cose metafisiche.
Non è ch’io voglia perciò dire in modo assoluto che la storia e la
poesia non ammaestrino anch’esse l’intelletto; ma entrambe vanno un
po’troppo per la lunga. La fisica e la metafisica per lo contrario
si sbrigano molto più presto nel render uomo l’uomo; quindi è che da
parecchi anni io mi compiaccio molto più di due pagine sole di buona
metafisica, che non della più veridica storia, o del meglio
verseggiato poema che sia; e quindi è ch’io mi rallegro molto meco
stesso d’essere venuto al mondo sulla fine del secolo passato, e
d’aver tirato tanto avanti in questo, anzi che esser nato ne’tempi
di Dante, o del Petrarca, o dell’Ariosto, o del Tasso, perchè in
que’quattro successivi periodi di tempo la metafisica (chè di questa
sola voglio ora far parole) era una cosaccia troppo sconcia ed
informe.
E veramente fu propio sul fine del secolo passato e in questo
presente, che gli uomini hanno cominciato a sviluppare questa divina
scienza assai bene, e ad internarsi bravamente in essa dietro la
scorta del frate Bacone, del Barone di Verulamio, e di
Boyle, di Galileo e di Cartesio, che uno dopo l’altro studiarono e
si tormentarono assai per ispianare ed allargare quelle scabrose
strade che ad essa conducono, e per cui camminarono poscia con
franco passo tanti e tanti, che noi meritamente onoriamo col titolo
di moderni filosofi. Quella mia ingordigia d’ammaestrarmi
l’intelletto per una via più breve che non fanno le opere degli
storici e dei poeti, fu quella che più d’una volta mi condusse in
fretta in fretta da’più rimoti confini della Mesopotamia e
dell’Assiria sino negli ultimi recessi della Germania, o dall’isole
Giapponesi alle Britanniche in cerca d’un cibo, di cui non potetti
più far senza quand’ebbi un tratto principiato a gustarne: e a
quella insaziabile ingordigia di vero sapere io debbo altresì
l’amicizia e la personal conoscenza che in molte parti del globo ho
avuta ed ho con molti de’principali e più diligenti cercatori del
sommo Dio e delle emanazioni sue; nè vive forse oggidì alcuno, che
possa più fondatamente di me calcolare le forze intellettuali di
questa e di quell’altra nazione, e ragguagliar altrui de’maggiori o
minori progressi fatti negli astratti studj da varj popoli tanto
sotto le temperate che sotto le gelate o sotto le calde zone. Sono
indubitabilissime le prove ch’io po-trei addurre della
picciolezza de’metafisici giapponesi e cinesi, non eccettuati i loro
due tanto vantati maestri Tickna e Confucio, e non mi scorderò mai,
che una lezione scritta da Benedetto Varchi sull’amore e sulle sue
proprietà, quantunque non sia che un matto miscuglio di ridicole
fanciullaggini, pure fu giudicata squisitamente filosofica da’più
meditativi mandarini di Pekino e da’più dotti Dairi di Meaco,
quand’io la tradussi loro in lingua siamese. A Marroco ed a Fez non
ho neppur trovato che la metafisica vincesse di molto quella poca e
cattiva che il Boccaccio ha ficcata nel suo noioso Laberinto, e
Sperone Speroni ne’suoi seccagginosissimi Discorsi. Nell’Indostan,
in Persia, in Egitto, e in molte parti dell’Arabia ne ho veramente
trovata un po’più che non ve n’era in Italia nel cinquecento; e
Bruak Sim Fander, medico assai famoso nel regno di Candabar; e
Stummin Babullah, che fa il romito nelle vicinanze di Delly; e
Saruca Petruna, che è uno Scack degli Arabi erranti; e Isaia
Tephrem, che è vescovo Copto nell’Egitto superiore; e molt’altri
studiosi e contemplativi Orientali da me domesticamente trattati,
sono uomini, che non farebbono per certo cattiva figura nè anche fra
i più prosuntuosi de’nostri italiani me-tafisicastri. Ma
tutto il metafisico sapere di quella buona gente non è altro che un
bel nonnulla paragonato a quello che ora ribocca in molti lati della
nostra Europa; ed è pur forza dire con pace di tutto il moderno
Oriente e di tutto il Mezzogiorno moderno, che in questo solo primo
tomo del
nostro napoletano abate
Genovesi v’è molto più di soda e vera metafisica, che non ve n’è
sotto i due Tropici, e sotto la linea equinoziale. Mi viene anzi
voglia di spiccare un salto assai periglioso, e dire che l’opera di
questo abate, vuoi per la sottigliezza de’suoi indagamenti, vuoi pel
suo coraggio in isprofondarsi nei più cupi abissi della natura, non
la cede nè anche al libro scritto dal Decano Clarke Sull’essere e sugli attributi di Dio, nè
alla Teologia
Fisica del vicario Derham, nè all’Eroe Cristiano del cavaliere Steele, nè
alla Legazione di Mosè del vescovo
Warburton; e che anzi questa sua opera cede pochissimo a que’trenta
o quaranta Discorsi metafisici sparsi qua e là da Samuello Johnson
per quel tanto suo dotto libro intitolato l’Errante. Cosicchè fra le tante migliaja e migliaja di
libri scritti nella nostra lingua, io non ne conosco assolutamente
neppur uno, dopo quelli del Galileo, che sia tanto pregno di
pensamento e di vera scienza quanto lo è questo primo di questo
nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo pensatore
Antonio Genovesi.
Ma come ho io a fare per darne
una poca d’idea a chi non lo ha ancor letto? Come poss’io farne un
compendio che non mi prenda troppo spazio di questo foglio, se le
parti di tutto il suo discorso sono tutte connesse l’una coll’altra,
e tanto l’une dall’altre dipendenti, che non v’è modo di staccarne
il minimo pezzo senza guastarlo, o senza renderlo almeno
imperfettissimo?
Facciamo tuttavia quello che
si può, che ben saprà qualche nostro leggitore giudicare del lione
dall’ugna. L’abate Genovesi divide dunque questo suo primo tomo in
Quattro Meditazioni. La Prima tratta dell’esistenza nostra, e del
piacere che si ha d’essere; de’beni e de’mali che raddolciscono e
amareggiano a vicenda la vita; e della probabilità che ne vien data
dalla sola ragion nostra d’una esistenza eterna, anche prescindendo
dalla rivelazione. La Seconda s’aggira
tutta sulla natura dell’uomo; e le proprietà del corpo nostro, e più
quelle della nostr’anima, sono in questa meditazione molto
minutamente cribrate; e provasi pure in essa molto bene che il voler
nostro non può essere da una fatale e irrepugnabile forza
strascinato. La Terza s’immerge
nell’immensità della creazione, nell’ordine e bellezza sua, o sia
nella concatena-zione, armonia, dipendenza e tendenza
delle sue parti; quindi passa a discorrere dell’amore, che inonda
tutto l’universo e che ne è come a dire l’anima fìsica, ossia il
principale fisico movente; e poi misura le forze de’corpi, e la
potenza delle menti, ossia della ragione umana. La Quarta finalmente contempla il primo
essere, da cui il tutto scaturisce e deriva, e tratta delle sue
proprietà, e della libertà nostra, e di quella virtù divina che
conserva questo universo nello stato in cui le piacque di crearlo.
Non si può dire con quanta
sottigliezza e possanza di raziocinio il signor Genovesi abbia
trattati questi quattro astrusissimi argomenti, e come sempre
rinforzi bene i fianchi delle sue filosofiche congetture con la
fìsica, con l’astronomia, e con altre scienze un po’più
sull’evidenza fondate, che nol possono di lor natura essere le cose
metafisiche. Ecco qui il solo passo di tutto il suo libro, che può
star da sè competentemente bene, e senza essere troppo guasto dal
taglio.
« La terra dov’io son nato,
che mi sostiene e nutrica, è sopra dugento ses-santaquattro mila quattrocento sessantasette milioni di miglia
cubiche. Or qual parte son io d’un miglio cubico? Consideralo, e a
quel guarda, che se io quanto a questo mio corpuscolo le mi
paragono, sono incomparabilmente per rispetto a lei più piccola cosa
che una pulce non è rispetto a questo corpo mio. Oimè, qual
picciolezza! Io risguardo con orgoglio come sparutissima una
formica, una pulce, o tale altro bacherozzolo che sia in terra:
appena io mi degno di guardare cotali corpicciuoli. Ma sono io per
avventura più d’un mezzo milione più grande d’una formica! Un
milione più d’una pulce? E intanto io sono per lo meno duemila volte
dugento sessantaquattro mila quattrocento sessantaquattro milioni
più piccolo di questa terra. Un insetto che fosse altrettanto di me
più piccolo, qual sarebbe esso agli occhi miei? Non che agli occhi
del corpo, egli sarebbe invisibile pure agli occhi della mente.
Perchè se questa madre nostra così avesse gli occhi da guardarci,
come ha forza da generarci e di pascerci, noi saremmo invisibili
agli occhi suoi. Ecco la ragione ch’io ho colla terra: ed ecco la
sua gran-dezza per risguardo al mio corpo. Se ella mette
a conto tutte le sue parti, io sono una delle frazioni
infinitesimali, ed ella è un tutto quasichè infinito, come si voglia
a me paragonare.
« Ma non è ancora tutta questa la nostra piccolezza, perocchè non è
ancora questa che è detta, comechè grandissima, tutta quanta la
grandezza dell’universo. Questa terra la cui grandezza è tale a
nostro rispetto, che non che i confini ci nasconda, appena ci lascia
piccolissima parte vedere del suo dorso, e che ci infralisce e
invecchia, non solamente a volerla tutta trascorrere, ma pure a
volerne una sola parte contemplare a minuto, questo corpo, io dico,
come a noi sembra vastissimo, è esso poi si gran parte
dell’universo? No che egli non è. Ella al più non è che la
milionesima parte del sole, e forse molto ancora minore. Il
grand’orbe del sole, o se più ti piaccia, quello che questa terra
intorno al sole descrive, ha più che seicento quaranta bilioni di
miglia cubiche; dunque questa terra, che pur dianzi si grande
parevaci, non è che un minimo visibile, e meno ancora all’occhio del
sole. Or qual sarà ella, se si paragoni allo spazio che cinge col
suo giro il pianeta di Saturno? Il diametro di questo spazio è per
lo meno cinquecento settantadue milioni di leghe fran-cesi, d’onde seguita che la sua circonferenza sia più che mille
settecento e sedici milioni di quelle leghe: or che sarà ella la sua
solidità? Tu puoi a questo solo considerare, che questi sei pianeti
primarj, che per entro questo spazio aggiransi, quanto noi cogli
occhi nostri scerniamo, appena sei piccoli punti ne occupino,
comechè essi grandissimi corpi sieno; perocchè Mercurio, che più è
al sole prossimo, non è men grande di 7,793,273,000
Venere . . . . . 258,445,900,000
La Terra . . . . . 264,466,789,070
Marte . . . . . 891,211,481,016
Giove . . . . . 281,042,300,000,000
Saturno . . . . . 163,637,200,000,000 miglia cubiche
Perchè se tante grandezze non sono che sei piccoli punti di
questo spazio; quanto diremo ch’egli sia tutto quanto? Immagina, nè
trasecola se tu puoi. Che è dunque questa terra a volerla paragonare
al vasto spazio, che questo pianeta, l’ultimo, com’ei pare, del
nostro mondo, abbraccia? E quanto è esso grande dismisuratamente
questo, che nostro mondo, e spazio planetario e talora universo
chiamiamo? E nondimeno, questo spazio, che appena si può dagli occhi
della nostra mente comprendere, non è ancora che un indivisibile
punto di tutto l’universo nel quale io sono. Lo che perchè tu ti
possa agevolmente comprendere, a quel déi por mente che
io m’incomincio a dirti. Il sole, secondochè i nostri savj
c’insegnano, è una stella fissa dell’universo, intorno a cui sedici
corpi, ben grandi anch’essi e belli, son rotati, che questo spazio
riempiono che Saturno cinge. Egli n’è come l’anima che vasto corpo
informi. Perocchè ei li muove, e gli allumina e gli riscalda e fa
che vivano e vegetino. Niuno di loro è che senza sole nè bello esser
potesse, nè vegetante, nè abitabile, siccome da quel che noi quaggiù
siamo in questa terra, e veggiamo e tocchiam con mano, possiam di
leggieri intendere. Ma non è ogni stella fissa un sole? Certo
ch’ella è. Imperciocchè niuna delle stelle fisse non è, la quale non
abbia lume di per sè, e niuna che non sia nel suo centro fissa. E
che esse siano nel lor centro fisse, nè, come i pianeti nostri
errino e trascorrano per gli spazj mondani, troppo chiaro ci fanno
gli occhi nostri medesimi vedere. E che non altrimenti risplendano,
che il sole si faccia, da per sè sole, la loro distanza da noi, e le
loro scintillanti chiome ci danno assai manifestamente ad intendere.
Perchè se esse soli sono, come niuno è de’nostri savj che ne dubiti;
qual ragione ci è che ciascuna d’esse non signoreggi per lo meno in
sì vaste contrade, quanto quelle sono, per le quali l’imperio suo e
la forza questo nostro sole distende? E perchè non
crederemo noi che niuna di queste stelle sia, la quale non sia a
quel pure destinata, che veggiamo quaggiù il sole, cioè ad
illuminare, riscaldare, animare, e intorno a sè torcere un così gran
numero di pianeti, quanto è quello che quaggiù le benefiche
influenze del sole perpetuamente ricevono? Che se ciò è, com’io non
dubito che esser possa, quanto grande vuoi tu che quest’universo
sia? Vi ha di coloro, che avendo la distanza, che è tra la stella
Sirio e noi calcolato, hanno trovato, ch’ella sia dieci mila volte
più che quella non è, per la quale il sole è da noi distante. Perchè
se il sole è intorno di ottanta milioni di miglia italiane da noi
distante, seguita che questa stella sia da noi distante sopra
ottocento mila milioni di miglia, e conseguentemente che essendo la
sua circonferenza più che sei volte tanto, ella sia intorno di
quattro milioni e ottocento mila milioni di miglia. E qual sarà la
solidità della sua sfera? Ma se ogni stella fissa sia quello che è
detto poter ben essere, vale a dire un centro d’un sistema
planetario per lo meno così grande quanto è il nostro, tanto essendo
il numero delle stelle, quanto ciascun sa che sia, quai confini
daremo noi all’universo? E perchè tu meglio questo ti comprenda,
de’tu sapere che coteste stelle, che noi veggiamo con gli oc-chi, secondochè i più sperti astronomi ci assicurano,
sono intorno a tre mila. Donde è, che seguendo noi la ragion di
analogia e di proporzione, che pure è forza che in tutte le gran
parti di quest’universo sia, ci convenga per ora immaginarci questo
universo tre mila volte più grande che quello spazio non è, che
Sirio col giro suo comprende. Che se quello è tale, che a volerlo
immaginare ci disperdiamo, quanto credi tu che questo sia possibile
ad intendere? Ma guardati di credere che non altre stelle siano
ne’cieli, che quelle che gli occhi nostri ci rappresentano.
Conciossiacosachè assai maggiore senza comparazione sia il numero di
quelle, che i telescopj ci scuoprono. Perchè dove, per cagion di
esempio, le Plejadi, che noi con gli occhi soli veggiamo, non si
veggono che sei o sette, i telescopj ci mostrano essere intorno a
ottanta: e nel mezzo della spada d’Orione, ove gli occhi non ne
mostrano che una sola, moltissime ne discuoprono i canocchiali. Che
dirò io della Via Lattea, ove niun telescopio non è, che non ne
mostri un numero senza fine, sì ella è tutta quanta gremita di
stelle? Or va tu, e annovera, se tu puoi, quante quelle sieno che
per gli spazj a noi invisibili sono come disseminate. Ma noi abbiamo
detto esser molto verisimile e molto all’ordine di ciò
che del mondo conosciamo confacentesi, che ciascuna stella sia un
sole, che a tanto spazio presegga, quanto per lo meno quello è in
cui il nostro sole signoreggia. Quanto è dunque questo universo? E
noi comprendi tu ancora? Ma come il comprenderesti tu, che niun
termine gli puoi cotanto ampio dare oltre al quale maggiori spazi
ancora non sieno? No, tu non ne puoi intendere i limiti. Ma
tragghiamoci un poco da questa immensità, che nostro intendimento,
per troppo allargarlo, disperde, ecc. »
Da questo breve passo, che non
è neppure il più bello e il più nuovo del libro, e che io ho scelto
di qui trascrivere a preferenza d’ogni altro per la sua maggiore
distaccatezza, come dissi, dal resto del discorso, il leggitore
facilmente scorgerà che la mente del signor Genovesi non è da
confondersi nel volgo di quelle menti che non sanno produrre se non
un qualche bel sonetto di tanto in tanto, e che io non ho forse
tutto il torto se lo reputo dopo il Galileo, per il più profondo
speculatore e filosofo che abbia scritto in lingua italiana.
Non creda però alcuno, che
l’alto mio concetto di questo autore mi faccia sottoscrivere senza
restrizione alcuna a tutte quante le opinioni sue, e che io approvi
il suo libro da cima a fondo. Qual è quel libro che Ari-starco Scannabue possa da cima a fondo approvare? Non voglio però
neppur dire d’avere alcuna opinione diametralmente contraria ad
alcuna di quelle contenute in questo suo libro: voglio soltanto dire
che qui e qua non tengo nè dalla sua nè dalla parte avversaria, e
che in certi casi non ardirei di maestrevolmente sentenziare nè in
favore nè contro. L’abate Genovesi, esempligrazia, asserisce che i beni della vita sono più che non i mali, e
l’argomento principale da lui addotto per provare la sua tesi è, che
per tormentato da’mali che l’uomo sia, sempre impallidisce e trema
all’annunzio d’una morte, che porrebbe fine a que’suoi dolori, e
sempre vorrebbe schivarla se vi fosse modo, e vorrebbe continuar a
vivere un altro poco, cioè inferisce egli, continuare un altro poco
a soffrire que’suoi mali. Al che rispondo che il desiderio di vivere
è una cosa si può dire creata in noi da quello che n’ha creati, e
per conseguenza invincibile, se non talora per somma grazia dello
stesso Creatore; che questo desiderio è affatto indipendente
da’nostri mali; e che se desideriamo di vivere ad onta de’mali che
ne tormentano, questo desiderio nostro non può dirsi che provi altro
se non che ai tanti mali dell’uomo s’aggiunge anche quello di non
poter soffrire senza mentale spasimo l’idea della
dissoluzione di questo corpo, e che desideriamo di evitare un male
di più di que’tanti che già soffriamo quando desideriamo d’evitare
la morte. Concedo anch’io che l’uomo non calcola con giustezza i
suoi beni e i suoi mali; che nell’annoverare i beni che gode, ne
lascia molti fuor della lista e che allunga il catalogo de’suoi mali
con de’mali che non sono sovente tali in effetto; ma appunto questa
universale mancanza di lume bastevole a distintamente distinguere
quel che è bene e quel che è male, non è ella un vero male, e un
male grandissimo e deplorabilissimo? Non è ella forse un male,
quantunque pochi la mettano, o forse nessuno, nel catalogo de’mali?
È vero che questa mancanza non è un mal fisico, non è un dolor di
capo, un affanno di petto, non è una febbre, non è la gotta, non è
la pietra, non è una piaga, un’amputazione d’un membro, o altro
simil male; ma fa egli bisogno di dire che la natura nostra è
suscettibile, oltre ai mali fisici, di mali metafisici? Se non fosse
così, la privazione de’beni non s’avrebbe mai a chiamar male; e le
nostre innamorate e le mogli nostre e i figli e gli amici nostri
potrebbono a lor posta morire, verbi grazia; e le facoltà e gli
onori e ogni altra cosa non assolutamente necessaria al nostro
material vivere ne potrebbe esser tolta, o messa in
forse, senza lasciarci la minima ragione di rammaricarci e
d’affliggerci. Mi permetta però il signor Genovesi di rammentargli
una pur troppo vera osservazione fatta dall’Addisson, non mi ricordo
in qual parte del suo Spettatore.
« Se sur un qualche uomo, dice
l’Addisson, si accumulassero a piacere sanità, gioventù, forza,
bellezza, dovizie, onori, autorità, buona fama e ingegno e sapere, e
in somma tutte quante le cose, che a ragione sono dall’universale
consenso riputate beni, assai poco felice tuttavia sarebbe
quell’uomo così liberalmente arricchito; chè all’incontro quanto
sommamente misero non sarebbe colui nel quale si concentrassero
tutte quelle cose che noi chiamiamo mali? »
E la ragione (che non mi
sovviene se Addisson la dia) della poca felicità di quell’uomo
felice, è che in lui rimane sempre continua e indelebile l’idea
dell’inevitabil morte, da cui dovrà in breve essere spogliato di
tutti que’beni. Così la ragione della somma miseria di quell’uomo
misero è, che a que’tanti suoi mali s’aggiunge anche l’idea pure
indelebile e continua della vicina dissoluzione del suo corpo, la
quale idea, come dissi, è stata creata in noi, e immedesimata
nell’esser nostro. Io non voglio però dire con questo che dappersè
sola l’idea della morte ne rattristi di molto. Se
quell’idea ne rattristasse tanto in pratica, quanto pare in teorica
che dovesse fare; e se la Provvidenza avesse data a quell’idea
quella forza che tanti procurano di farle artificialmente
acquistare, l’uomo non camperebbe forse nè tanto tempo nè tanto
lietamente quanto lo vediamo per lo più campare. Nulladimeno
l’inevitabilità conosciuta d’un male che la debolezza umana
considera sempre come il maggiore di tutti i mali, basta per
inquietarci la mente, per farci considerare i beni come cosa
piccola, e i mali come cosa grande, i beni come cose rare, i mali
come cose numerose. Toglia dunque il signor Genovesi, se può, dal
numero de’nostri mali l’idea del morire, e allora sì che verrò
facilmente dalla sua, e dirò anch’io che il numero dei nostri beni
vince quello de’nostri mali; ma fintanto ch’io continuerò ad esser
certo ch’io debbo presto soffrire il natural dolore della
dissoluzione di questo mio corpo, il signor Genovesi non mi venga a
dire che in questa vita io godo più beni di quello ch’io mi soffra
mali, che non gliela potrei in coscienza menar buona, neppure s’egli
mi dotasse di tutta la sua filosofia, e soprammercato di tutta
quella eziandio d’Epitetto, di Zenone e di tutti i loro
insensibilissimi seguaci antichi e moderni. Qualche leggiera
diminuzione de’miei mali so che la filosofia può
cagionarla, e so che può infondere in me qualche costanza. So, per
esempio, ch’io mostrai forse men dolore quando la mia gamba sinistra
mi cadette in mare vicino allo stretto di Gibilterra, di quello che
ne mostri una leziosa dama quando il suo cagnolino si rompe una
delle sue gambe; ma quella costanza e quella apparente noncuranza
d’un vero male che sento, e che mi è mandata in certi casi dalla
filosofia, mi può anche venire dalla mia vanità stessa; onde per non
dovere a’poveri conforti della filosofia quello che anche un vizio
mi può dare, sarà bene che ne’miei mali io mi volga sempre per aiuto
alla mia santa Religione, la quale non pretendendo di annichilarli e
di rendermi ad essi stoicamente insensibile, si esibisce però,
quand’io il voglia, di somministrarmi tutta la pazienza che m’è
necessaria per soffrirli tranquillamente ed anche alacremente.
Con tutto ciò, tanto su questo, quanto sopr’altri punti toccati dal
nostro partenopeo filosofo, io torno a dire, che se non tengo da
lui, non ardisco nè tampoco assolutamente decidere contro di lui,
perchè so che tanto su questo quanto sopr’altri punti si possono
dire e replicare infinite ragioni.
Una cosa però disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile
suo, che propio m’annoja e m’infastidisce quasi da un
capo all’altro del suo libro, perche troppo a studio intralciato e
rigirato sì, che non poche volte abbuja il pensiero, e mi obbliga a
leggere due volte un periodo se voglio intenderlo. Com’è possibile
(ho detto fra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto
stimabili meditazioni), com’è possibile che un uomo, il quale è
un’aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando
si tratta d’esprimere i suoi pensieri? Come mai un Genovesi ha
potuto avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di
certi secchi e tisici uccellacci di Toscana? Eh Genovesi mio,
adopera gli abbindolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa,
quando ti verrà ghiribizzo di scrivere qualche accademica diceria,
qualche cicalata, qualche insulsa tiritera al modo fiorentino antico
o moderno; ma quando scrivi le tue sublimi meditazioni, lascia
scorrere velocemente la penna; lascia che al nominativo vada dietro
il suo bel verbo, e dietro al verbo l’accusativo senz’altri
rabeschi, e lascia nelle Fiammette, e negli Asolani, ne’Galatei, e
in altri tali spregievolissimi libercoli, i tuoi tanti conciossiacosacchè, e i perocchè, e gl’imperciocchè, e i
verbi in ultimo, e l’è tra un addiettivo
e l’altro, e il confacentesi, e il signoreggialo, e il manche-ranti, e il Dio ajutantemi, e tutte quell’altre cacheríe
e smorfie di lingua, che tenti nostri muffati grammaticuzzi
vorrebbono tuttavia far credere il non plus ultra dello scrivere. Nè
ti far dir questa cosa due volte, veh; e mandami il secondo, e gli
altri tuoi tomi scritti alla buona, altrimenti spedirò il mio
schiavo Macouf al tuo Vesuvio con essi; e gli ordinerò che li scagli
e precipiti in quel voracissimo suo fuoco.
La Dama cristiana nel secolo, Lettere familiari del marchese
Di . . . al conte Di . . . suo amico. In 8.o senza data.
Si va vociferando che questo
libro sia uscito dalla penna d’un principe napole-tano,
e sono stato assicurato da persone degne di fede che moltissime
copie ne vengono mandate nelle principali città d’Italia, con ordine
che sieno distribuite gratis. Quando questo sia vero, l’Italia si
deve assai rallegrare di aver un figlio dotato d’un’indole così
veramente principesca, che dopo d’avere scritto un libro con la
santa intenzione di migliorare la più amabil parte del genere umano,
ha ancora la magnanimità di farlo stampare a propie spese, e di
regalar al pubblico tutta l’edizione, affinchè più agevolmente si
diramino i suoi buoni documenti per tutta la sua nativa contrada.
Lodando adunque l’intenzione e
la magnanimità, ed eziandio la modestia di questo nobile autore per
aver fatto stampare il suo libro senza nome di stampatore e senza
data, onde potere, com’io suppongo, vieppiù celare al mondo la sua
beneficenza, passerò a dar contezza di questa sua opera, e farvi su
alcune osservazioni, ch’egli scuserai se gli riusciranno un
po’rigide, benignamente attribuendole a quell’indispensabile dovere,
che seco mi corre di dire con onesta arditezza quello ch’io credo
vero, quando si tratta di scritti che riguardano i costumi del
prossimo, e a quel vivissimo desiderio che ho con esso comune di
rendere le nostre dame vieppiù degne dell’affetto e della stima
d’ogni galantuomo.
La pittura dunque della Dama
Cristiana Nel Secolo è fatta con dodici lettere familiari,
che sono o si fingono scritte da un Marchese ad un Conte suo amico.
Il Marchese fa prima in queste
lettere la descrizione della figura, e poi delle occupazioni e
de’costumi d’una dama tedesca. Egli la dipinge donna di ventisei
anni, di salute perfetta, e bella come la bellezza; figlia d’una
madre ch’era un tipo di virtù, e moglie d’un cavaliere che è un tipo
di virtù anch’esso, pensa che tipo di virtù debb’essere ella stessa!
Ella va di buon’ora in letto ogni sera dell’anno, e non dorme che
sei ore la state e sette il verno. Per conseguenza si leva ogni
mattina per tempo, fa orazione un quarto d’ora; poi si sta mezz’ora
a farsi acconciare e vestire; poi fa di nuovo orazione per un’ora;
poi sente messa in casa; poi fa qualche faccenda domestica, per lo
più qualche ricamo; poi va in chiesa a sentire una seconda messa:
poi torna a casa a ricamare; poi viene il pranzo, ed ella vuol esser
sola a trinciare in tavola, e mangia poco, e non mangia de’piatti
più squisiti; poi giuoca un poco a picchetto; poi torna a ricamare;
poi esce, e va a veglia, e quivi torna a giuocare un altro poco a
picchetto; poi viene a casa, e quivi cena, e prega, e va a dormire.
Questo è il costante sistema di vita, che questa da-ma
vive cinque dì d’ogni settimana, e che non si cangia mai se non per
viva forza d’alcuno di que’comuni accidenti, che accadono a tutte le
dame di alto affare, com’è questa tedesca, vale a dire visite,
inviti, feste di corte, gale e simili cose, che da volere a non
volere interrompono qualche giorno l’esatta uniformità d’una tal
vita. Il sabato e la domenica la dama non vive coll’intero metodo
degli altri giorni, perchè il sabato riceve i conti del maggiordomo
e del computista, e li rivede; ascolta le informazioni del suo
cappellano, che invigila sul totale della sua famiglia, e del decano
degli staffieri, che ha l’incarico di badare alla condotta delle
livree e dell’altra servitù bassa. Le duplicate preghiere mattutine
e le due messe non se le scorda, e poi si prepara con più atti di
compunzione che non ne fece gli altri giorni, a santificare la
domenica, nel qual di, oltre all’ascoltare la solita messa in casa,
ne sente due altre in chiesa, fa la sua confessione e comunione, e
del dopo pranzo ne passa pure una non picciola parte orando tanto in
casa quanto in chiesa, e leggendo inoltre libri ascetici, e vite di
Santi e la Bibbia. Quantunque da alcun breve passo delle dodici
lettere si comprenda assai manifestamente ch’ella è alquanto accesa
d’amor platonico pel Mar-chese, pure le dodici lettere
ne fanno capire molto bene, che non ha mai la debolezza di spiegare
con parole questo suo amore; ma attende all’educazione di due suoi
figliuoli maschi, e studia continuamente il modo di renderli buoni
cristiani e insieme compitissimi cavalieri. Ha anche una figliuola,
che ben ci possiamo immaginare se può essere negletta un minuto solo
da una tal mamma. Per allevare questa prole come si deve, ella s’è
provvista d’un abate svizzero, che serve di precettore a’maschi, e
d’una vedova che sovrantende alla fanciulla. Tanto l’abate quanto la
vedova sono dotati d’ogni buona qualità; e se quello è molto dotto e
pratico del mondo, questa è anch’essa una matrona di garbo grande.
Per dar le ultime pennellate alla sua pittura, il Marchese ne dice,
che la sua dama intendeva, oltre alla propria lingua, anche la
latina perfettamente, l’italiana, la francese, e credo anche
l’inglese, colla giunta di sapere, come dissi, ben ricamare, e poi
ben ballare, ben la musica, bene il disegno, l’aritmetica,
l’istoria, la geografia, e alcune altre coserelle.
Ecco a un dipresso come debb’essere una dama per essere una dama
cristiana, cioè una perfetta dama, secondo l’idea dell’autore di
queste lettere. E a dir vero, il quadro ch’el ne presenta è un
quadro assai bello, nè pecca in altro il suo dipingere,
se non forse nella troppa secchezza de’suoi colori, che togliono in
gran parte, se non tutta, l’amabilità alla
stimevolissima immagine della sua
tedesca. Uscendo di metafora, voglio dire ch’egli non si contenta di
fare la sua dama tutta buona, ma la vuol fare
troppo buona; del qual difetto (se il
troppo buono si può chiamar difetto) io lo scuso facilmente, sul
riflesso che offrendo un modello di perfezione all’imitazione
altrui, gli è sempre meglio eccedere che scarseggiare. Oltre però a
quel soverchio di bontà, ch’egli attribuisce
a questo suo modello, m’è duopo dire ch’io trovo in esso più cose
che non mi quadrano in tutto e per tutto. Lascio andare che la sua
eroina si assomiglia talora un po’troppo alle pinzocchere; perchè
gli è vero che una dama, la quale non abbia assolutamente che fare,
fa bene a sentire anche dieci messe ogni dì, se non le bastano due:
ma quella singolarità di sentirne più d’una ne’dì di lavoro, anzi di
sentirne una in casa, e poi andare a sentirne un’altra in chiesa,
non mi pare che abbia ad essere uno de’necessarj caratteristici
d’una dama perfetta, massimamente quando ella è giovane, e madre
d’una mediocre famiglia che richiede da lei una vita che abbia molto
più dell’attivo che non del contemplativo. Ma torno a
dirlo, se pute un po’di santocchieria quell’andare i dì di lavoro a
sentire una messa in chiesa dopo d’averne sentita una in casa,
quando si poteva anche avere il comodo di sentirne due in casa,
questo è difetto a cui si può quasi dare
l’improprio addiettivo di buono. Approvo bene
che la festa una dama non faccia tanto uso della sua cappella o
oratorio domestico, quanto i dì di lavoro, perchè una dama,
egualmente che ogni altro mortale, è tenuta dar buon esempio al
prossimo e farsi vedere composta e divota frequentatrice della
chiesa ne’dì festivi.
Nella lettera sesta, mettendo la sua dama in conversazione, l’Autore
dice che « sentiva piacere straordinario all’udirla dare un
ragguaglio ben distinto e formato d’un’azione militare accaduta,
poichè ne segnava i tempi, i luoghi, le circostanze, le conseguenze;
e con la carta, o sia tipo alle mani, lo rendeva altrui più
intelligibile e piano. Lodava destramente la condotta e il valore
del comandante o d’uno o d’un altro uffiziale che v’era intervenuto
ec. » Ma, con buona venia del Marchese, l’intendersi di guerra e di
battaglie non è, e non debb’essere uno degli ingredienti che si
richieggono per formare la perfetta dama; e questi suoi segni di
virilità non mi pajono troppo acconci ad infiammare un uomo nè
d’amor platonico, nè d’amor matrimoniale. Non solo, per
l’universale consentimento di tutti gli uomini, sconviene a una dama
il parlare con minutezza, e con la carta
topografica in mano, di battaglie e di fatti guerreschi; ma
si reputa perfino mala creanza negli uomini l’entrare nel distinto
dettaglio d’un solo fatto di tal sorte in presenza di donne civili,
e di giovani dame spezialmente. Questo però non è il solo indizio di
mascolinità, che il Marchese ne fa dare
dalla sua cara dama. Nella stessa lettera sesta egli dice così: « Ho
detto di sopra che fu richiesta di consiglio da una dama sua amica;
e bisogna in ciò ch’io mi spieghi. Veramente ella non aveva
particolari amicizie. Serbava con tutte una uguale maniera di
trattare cordiale e graziosa, ma conservava in suo cuore una non so
s’io mi dica più nobile o cristiana indifferenza ». Se io intendo bene questo passo,
in cui v’è qualche imbroglio di grammatica e di sintassi, il
Marchese vuol dire che la sua dama non sentiva veramente amicizia
per alcun’altra dama; e con quella cosa ch’egli chiama nobile o
cristiana indifferenza ne vuol dire che tutte le creature del suo
sesso le erano in sostanza indifferenti, quantunque in apparenza le
fossero care e stimabili. Se egli l’intende così, io dico che egli ha qui fatto un brutto sfregio in faccia alla sua
dama, palesandola al mondo o non capace o non vogliosa di alcuna
amicizia verso il suo proprio sesso; e tanto più grande è lo
sfregio, quanto che ne la dà ad intendere suscettibile di amicizia,
anzi d’amor platonico verso gli uomini; una volta, cioè, per lui
medesimo, e un’altra per un altro, che le fu amico prima di lui. Nè
giova mascherare questo difetto della sua dama, ficcando così alla
meglio nel periodo quella cristiana
indifferenza; perchè la nostra santa legge ne proibisce
ogni soverchio e vizioso affetto verso tutte le cose sublunari; ma
la nostra santa legge non ne proibisce il dar ricetto nel nostro
cuore ad una onesta e tenera amicizia. Se l’amicizia ne fosse
proibita, e se l’indifferenza verso le nostre consimili creature
fosse incoraggita solamente e approvata dalla nostra santa legge,
l’amicizia o l’amor platonico della dama verso i due suoi amici, uno
Generale e l’altro Marchese, avrebbe dovuto meritare qualche biasimo, o
almeno qualche censura, da uno scrittore che pretende di offerire un
modello di perfezione all’imitazione altrui. Non v’è egli un po’di
falsità che offende nel carattere d’una dama, che si mostra cordiale e graziosa con un’altra dama,
senz’avere alcuna cordialità per essa, senza esser tocca dal minimo
senso d’amicizia?
Io lodo poi la dama, che chiude coraggiosamente la bocca
con due o tre proposizioni secche e calcate ad un gentiluomo assai
giovane, che si lascia sfuggire dinanzi a lei qualche piacevole
motto allegorico, cioè qualche equivoco disonesto; ma non approvo
già che in casa propria, e in presenza di una conversazione, con
viso e atteggiamento severo minacci un’altra giovane dama di non più
trattarla, e di escluderla dalla sua conversazione, perchè la sente
dir del male d’un qualificato soggetto. In un simil caso una dama
ben creata e cristiana non deve avventarsi così villanamente addosso
ad una sua ospite e dama quanto lei; ma deve cercare bellamente il
modo di farla accorta che non istà bene il mormorare d’un soggetto qualificato, senza minacciarla di
cacciarla via di casa sua, come se fosse una qualche berghinella. La
virtù cristiana non si palesa con atti severi e feroci, e il Galateo
delle dame richiede che le dame si abbiano dei reciprochi
riguardi.
L’Autore ne ha detto sin da principio, che la sua dama intendeva, fra
le altre lingue, perfettamente il latino; e nella lettera undecima
ne dice ch’ella « faceva il maggiore studio e la più ordinaria
lettura sopra la Bibbia, di cui tenea le migliori impressioni, le
versioni più purgate, e i più accreditati commenti ». Mia sia un’altra volta con buona venia del Marchese autore, e di
chiunque si volesse sottoscrivere alla sua opinione, io non vorrei
che questo suo modello di dama fosse imitato in questi due
particolari. No, non vorrei che le dame nostre s’impossessassero
troppo del latino, e facessero il maggiore studio
e la più ordinaria lettura del testo della Bibbia. La moda
in tali studj dovrebbe, secondo il Marchese, introdursi e farsi
universale fra le dame per meritarsi il titolo di dame perfette; ma,
secondo me, questa sarebbe la più breve via che si potesse trovare
per renderle insopportabili. Delle lingue viventi lasciamo che ne
imparino una, due e anche tre, e raccomandiamo loro che studiino
specialmente di parlare e di scriver bene la propria; ma il latino,
per amor del Cielo non me lo tocchino; chè se il latino ne acconcerà
una o due, ne guasterà sicuramente mille con renderle troppo
sacciute e pedantesche. E col testo della Bibbia non vorrei che le
dame si assorellassero nè anche troppo: che se tanti uomini di gran
mente hanno inciampato in mille intoppi leggendola e studiandola, e
son diventati o deisti, o eresiarchi, o altra simil cosa, a
rivederci poi le donne! Se il Marchese fosse stato in Inghilterra, e
l’avesse esaminata bene, non approverebbe le donne che leggono e
studiano il testo della Bibbia, che ne hanno le
migliori impressioni, che ne confrontano le più purgate versioni, e
che fanno uso de’più accreditati commenti. La libertà che hanno gli
Inglesi di leggere a piacere il testo della Bibbia tradotto nella
loro lingua, rende una troppa quantità di donne interamente
fanatiche, non che d’uomini, in quell’isola; e sovente si trova in
una sola britannica famiglia, che il padre pende, verbigrazia al
Calvinismo, la madre all’Arianismo, il figlio al Deismo, e la figlia
al Metodismo. Pensate se queste varietà in fatti di religione
apportino giocondezza e tranquillità in una casa! E la nostra santa
Chiesa fa una cosa molto santa a non permettere che il testo della
Bibbia si legga dal volgo, in cui è forza che sieno almeno in questo
caso incluse anche le dame.
Un’altra cosa disapprovo in questa dama tedesca: cioè
quell’assolutissima stoichezza di cui la trovo armata, quando
cascando nel fango s’imbratta la ricchissima veste donatale dalla
sua sovrana, perde i giojelli che le adornano il capo, e si sconcia
tutta quanta la persona. Un po’di confusioncella che in tal caso le
apparisse in viso, prodotta da un po’di scompiglio d’animo, me la
farebbe comparire donna qual ella è; ma quel suo non turbarsene
punto, ed eroicamente rimontare in carrozza, come se avesse ricevuto
un leggiero spruzzo sur una mano d’acqua della regina
d’Ungheria, mi pare uno sforzo d’una mente troppo maschile, anzi
troppo cinica. E se disapprovo la sua stoichezza, quando la vedo
uscire di quel fango senza mostrare il menomissimo sconcerto d’animo
e di volto; molto più ancora mi dispiace quel vederla stupidamente
rinunciare alla natura, e soffrire un bruttissimo affronto da
un’altra dama in un solenne ballo, lasciandosi come vilissima serva
cacciare con violenza dal posto dove l’accidente l’aveva condotta a
sedere; e poi opporsi a quelli che la volevano pigliar per lei, con
dir loro sino una bugía, cioè che quella
superba non l’aveva costretta con villania a togliersi di dov’era,
ma che se n’era tolta ella stessa volontariamente. E non contenta di
questo, ecco che si vuole anche opporre a un atto di giustizia, e si
vuole sbracciare, perchè il sovrano non mandi
in esilio quella stessa insolentissima creatura che l’ha trattata
così poco damescamente, che soverchia tutto il mondo, e che è il mal
esempio e la vergogna del suo sesso tanto in corte quanto fuor di
corte. E un altro tratto in lei di disapprovabile stoichezza è
quello di sapere che suo marito è calunniato presso al sovrano,
eppure non volersi valere di alcun mezzo umano perchè sia
discolpato, quasi che pretenda di vederlo discolpato per forza d’un
miracolo.
Mi resterebbono a dire alcune altre bagatelle sul troppo
esaltato carattere di questa dama; come sarebbe a dire sul suo
ottenere assoluzione e libertà a de’bricconi che hanno calunniato un
uomo dabbene e condottolo sull’orlo della sua rovina; sulla sua
durezza di non poter soffrire un cagnolino, o altra bestiuola
graziosa; sul suo tanto amore per la musica, e sul voler vedere,
sentire, e poi regalare tutti i musici forestieri che ode esser
giunti, o passare pel suo paese; sul suo pagare la roba più di quel
ch’ella vale, per aver poi luogo di fare una predichina a’mercanti
che gliela vendono così cara; sul suo non volere assolutamente che
alla sua conversazione si parli neppur un momento di religione e di
morale; e più di tutto potrei diffondermi sull’amor platonico
leggermente insinuato in qualche luogo di queste lettere. Mi darebbe
anche l’animo di convincere il Marchese, che noi abbiamo, malgrado
l’universal corruttela, qualche dama in Italia, che posta al
confronto non sarebbe facilmente ecclissata da questa sua
maravigliosa Tedesca; e riguardo poi al libro considerato
semplicemente come libro, avrei anche qualche cosa da apporgli
intorno alla lingua e allo stile; ma per non iscoraggiare con una troppo feroce
critica i nostri nobili dallo scriver libri, e tornando a riflettere
che l’intenzione di chi ha scritte queste dodici
lettere è stata evidentemente di giovare al prossimo e di renderlo
migliore; e considerando altresì, che le cose buone sono in tali
lettere assai più numerose che non le cattive, farò fine a queste
mie osservazioni, dalle quali spero che l’Autore si avvedrà, come
dissi dapprima, che anch’io son al pari di lui desideroso di vedere
le nostre dame italiane superare tutte quelle degli altri paesi in
virtù, come certamente le superano in bellezza.
Sacre antiche iscrizioni segnate a cesello sopra la cassa di
piombo contenente i sacri corpi de’santi martiri Fermo e Rustico,
lette ed interpretate dall’abate Domenico Vallarsi. In Verona, 1759,
in 4.o
Non vive forse alcun uomo a cui non sia avvenuto più volte
di vedere delle cose che non son cose. Voglio
dire che tutti quelli i quali non sono nati ciechi, sanno in prova
che l’immaginazione fa talora gabbo a’nostr’occhi, facendone sovente
scorgere o nel muro, o nel fuoco, o nelle nuvole, o nelle macchie
d’un marmo, o sulla scorza d’un albero, eccetera, eccetera, delle
rappresentazioni molto al naturale di questa cosa e di quell’altra,
quando il fatto sta che non è quivi alcuna
rappresentazione di cosa, nè vi può essere.
Ed io mi ricordo che un
giorno, passeggiando bel bello con un certo villano chiamato Johnny Blockhead lungo le rive del bel
fiumicello, che scorre nell’amenissima valle di Dove-dale nella provincia di Derby
in Inghilterra, quel villano che m’era ito additando, come a curioso
forestiere, questo e quell’altro oggetto, si volse di repente a me
nel girar d’un canto, e mi gridò con molto trasporto d’animo: Look there, sir, look to that lion. Guarda,
signore, guarda là quel lione. Che lione, sangue di me? Vi
son eglino de’lioni in Dove-dale? Eh non dico
un lione vivo, riprese stizzosamente il villano; ma non vedete voi
là quella rupe, che è esattamente fatta come un lione? Io guardai la
rupe, e poi tornai a guardarla; ma ella aveva un aspetto di rupe,
non di lione. Eppure il villano si voleva sbattezzare perchè io
vedeva la rupe in forma di rupe, e non voleva vederla in forma di
lione; e poco mancò che, secondo il costume della canaglia inglese,
colui non mi sfidasse a’pugni perchè io non vedeva il lione ch’egli
vedeva.
Il signor abate Vallarsi in questa sua eruditissima dissertazione
mostra d’aver molto del Johnny Blockhead,
vedendo in certi brutti e insignificanti segni e ghirigori, fatti
dal caso in una cassa di piom-bo, delle iscrizioni che
non vi sono, e mettendosi quasi in collera con chi non le ha vedute,
come le vede lui. Ma così va sovente con questi antiquarj benedetti!
Sacre antiche iscrizioni lette ed interpretate dal signor don
Domenico Vallarsi, e dimostrate puramente ideali dal marchese Luigi
Pindemonti gentiluomo veronese. In Verona 1762, in 4.o
Quantunque io abbia vedute e toccate le piramidi d’Egitto,
e le rovine di Mensi, e quelle di Palmira, e quelle di Persepoli, e
lette innumerabili iscrizioni, e avute in mano innumerabilissime
medaglie, e cammei, e altre simili bazzecole qua e là per l’Asia
maggiore e per l’Asia minore, pure non mi s’è mai potuta appiccare
la smania di fare il balordo e facchinesco mestiere dell’antiquario.
Aggirandomi per questo e per quell’altro paese, ho voluto dare
qualche leggiera occhiata di quando in quando a questo ed a
quell’altro rimasuglio d’antichità; ma la mia principal faccenda fu
sempre di esaminare gli uomini vivi, e d’apprendere i loro costumi,
e d’informarmi del lor poco o del lor molto sapere, e delle loro
varie idee sì generali che particolari, senza mai buttar via troppo
tempo in ammucchiare incertezze ed inutilità. Quindi è che poco
parlerò in questi miei fogli di que’tanti insulsi libri che tuttodì
si stampano in italiano su questo e su quell’altro o vero o supposto
frammento o reliquia di cosa che esisteva già cinquecent’anni, già
mill’anni, già mille secoli.
Siccome però so che moltissimi de’miei dolci compatrioti amano
d’avere di questa razza di magre notizie, m’è venuto in pensiero di
mandare una mia patente in cartapecora al signor marchese Luigi
Pindemonti di Verona, e con essa crearlo mio coadjutore. In virtù di
tal patente il signor Marchese potrà scrivere de’supplementi a
questa mia Frusta letteraria, e dar al mondo un distinto ragguaglio
di tutte le corbellerie che si anderanno stampando, o che si sono in
questi ultimi anni stampate, ne’nostri paesi sulla lingua etrusca,
sul dittico quiriniano, sui vetri cimiteriali, sui rottami delle
pignatte che si vanno tratto tratto scavando nell’Umbria, sui
tripodi, sulle lucerne, e sui chiodi trovati nelle città d’Industria
e d’Ercolano, e sopr’altre simili importantissime materie che
giovano quanto i raggi del sole a rischiarare l’intelletto. Io vedo
da questo suo libro che il signor Marchese sa molto bene smascherare
e mettere in ridicolo l’impostura e la ciarlataneria degli
antiquarj, onde è assai probabile che gli manderò tosto la suddetta
patente.
Lettera di Filalete ad Areteo con le osservazioni di Filopatridre
all’Epistola de Diis Topicis Fulginatium, del sig. Jacopo N. In
Lucca 1763, in 8.o
Ognuno sa che le scimmie non
moltiplicano che di rado in Italia per mancanza d’un caldo costante
e proporzionato alla natura loro. Quindi è che per non perdere le
varie razze di quelle recate meco d’America, io ho fatto fabbricare
delle stufe in fondo al mio giardino, e a ciascuna di quelle stufe
coll’ajuto de’miei barometri faccio dare de’gradi di caldo
esattamente uguali ai diversi caldi de’nativi climi di quelle
bestie; e con questa semplicissima invenzione le mie scimmie
propagano talora anche più ch’io non vorrei; e così mi sono
conservato il divertimento che mi danno, con poca più spesa che
quella d’alcune centinaja di carra di legna e di carbone. Quel
divertimento consiste spesse volte (sentite bel capriccio) nel
togliere a ciascun maschio la catena che porta al collo tosto
ch’egli è un po’grandotto; e non si può dire quanto faccia
smascellar dalle risa il vedere un bel pajo di que’furfantacci così
scatenati avventarsi l’uno all’altro con molta malignità, e
stizzosamente strillare, e digrignare i bianchi denti, e spiegare
gli acuti unghioni, e graffiarsi il muso, e pelarsi la
schiena, e mordersi via qualche buon pezzo di coda (che molte spezie
delle mie scimmie sono di quelle codate), e farsi in somma l’un
l’altro ogni più possibil male.
Sappiate però, leggitori, che quando mi voglio procurare questo
passatempo, come amante di giustizia e d’equità in ogni minima cosa,
io uso ogni avvertenza nello scegliere fuora due scimmioni che sieno
di pari età, di grandezza pari e di pari forza, onde la battaglia si
faccia senza soverchieria, non v’essendo cosa nel mondo che induca
tanto sdegno negli animali gentili quanto la soverchieria, cioè il
vedere un animalaccio vigoroso dar addosso a una debole bestiuola, e
farle ogni mal giuoco senza che quella si possa in alcun modo
ajutare e difendere. E questo appunto è il caso dell’Autore, che
celato sotto il nome di Filalete, si scaglia
contro un certo Gianni, e con questa sua Lettera ad Areteo lo graffia e lo morde, e
gli dilania tutta la persona a bel diletto.
Ma per farmi ab ovo, e perchè
vi sia dilucidata bene tutta questa bellissima novella, è d’uopo che
sappiate, leggitori, che in Fuligno si trova (e dove non se ne
trovano?) un’antica lapida, sulla quale v’è una iscrizione.
Su quella iscrizione venne
voglia a un certo letterato, in oggi assai famoso e chiaro in
Fuligno, chiamato Jacopo N., cioè Biancani, di scrivere
una dissertazione eruditissima, intitolata Epistola de Diis Topicis Fulginatium. Concepito che Jacopo
ebbe questo disegno, questo glorioso disegno, questo disegno tanto
utile alla letteraria repubblica, anzi a tutto il genere umano,
d’illustrare con una dissertazione erudita quella lapida, scrisse a
un certo Gianni N. che sta a Fuligno, di mandargli tutte le notizie
che avesse potuto raccogliere intorno ad essa, egualmente che una
esatta rappresentazione di quella lapida, fatta col toccalapis o
coll’inchiostro della Cina. Gianni mandò a Jacopo tutto quello che
Jacopo seppe chiedere, e Jacopo quindi scrisse la sua erudita
dissertazione sulla lapida, o sia sull’iscrizione della lapida,
mentovando in essa con molte sbracate lodi l’amico Gianni, che per
quanto vedrete or ora, non debb’essere persona meritevole di lodi
troppo sbracate. La dotta fatica (chè così si chiamano sempre le
dissertazioni sulle lapidi), la dotta fatica di Jacopo fu poscia
mandata all’Accademia Fulginia, i di cui
sapientissimi membri risolvettero subito di far gemere i torchi,
cioè di farla stampare. Ma una cosa dava alla più parte d’essi un
po’di fastidio; voglio dire le suddette sbracate lodi date da Jacopo
a Gianni. Dall’un canto la dotta fatica, a detta degli accademici,
copriva d’onore immortale la loro città, come un’ampia
coltre copre un letto piccino; e dall’altro canto la dotta fatica
conteneva le sbracate lodi di Gianni, da essi riputato un fagiuolo.
Che diavolo fare in una congiuntura di tanto momento? Sentite mo a
qual savio partito que’machiavellisti accademici s’appigliarono per
vedere di salvare la capra e i cavoli. Eglino dettero
astutissimamente l’incombenza allo stesso Gianni di sovrantendere
alla stampa dell’erudita dissertazione di Jacopo, assicurandosi che
Gianni, conscio del suo poco merito, l’avrebbe mutilata e tagliatene
fuora tutte quelle sue sbracate lodi. Gianni accettò l’incombenza;
ma senza punto ricordarsi che la modestia è come uno zucchero che
non guasta mai alcuna minestra, lasciò stampare dallo stampatore la
dissertazione intatta intattissima, e non tolse via neppur una
sillaba di quelle lodi sbracate dategli dal buon Jacopo. Quando la
stampa fu finita, e trovata dagli accademici Fulginj tale e quale
come era nel manoscritto, non si può dire il tumulto che si destò in
tutto il paese. È pareva proprio che la città e tutto il territorio
andasse a fiamma e a fuoco. Chi schiamazzava di qua, chi urlava di
là. Uomini e donne, giovani e vecchi, poveri e ricchi, nobili e
plebei, dotti e ignoranti, tutti gridavano dagli dagli dietro a
Gianni, che non avea castrata di quelle sbracate lodi
quella dotta fatica, e che aveva così delusa la sopraffina politica
di quegli acutissimi accademici. Ma Gianni, non si sa se intrepido o
insensato, stette saldo al macchione, e non fece alcun conto di
quegli schiamazzi, e di quegli urli, e di quelle universali grida.
Una tanta o intrepidezza o insensataggine fu interpretata
tracotanza, e offese tutta quanta quella gran gente di Fuligno, e
più di tutti un dottore in utroque, uomo celebre, o celebrissimo, o
vogliam dire celeberrimo da Fuligno sino al Monomotapa per la sua
immensa dottrina, e più per la cristiana dolcezza dell’animo suo.
Questo dottore (chi sel saria creduto!) era destinato
dall’incomprensibil fato a vendicare la sua gran patria della
barbara ingiuria fattagli da Gianni col non mutilare di quelle lodi
la dotta fatica di Jacopo; ond’è che, levando la mente in su quanto
più potette, si pose a pescare nell’ampio oceano della sua dottrina
un qualche nome sotto cui nascondersi, e, dopo un lungo pescare,
finalmente pescò quello di Filalete, che
deriva dal greco, e sotto quel nome scrisse questa Lettera ad Areteo, nella quale si avventa, come uno
de’miei stizzosi e maligni scimmioni, addosso a Gianni, e il
graffia, e il morde, e il dilania senza che il poveretto, come
debole e intisichito scimmiotto, si possa difendere da
tanta soverchieria.
Ed ecco come finisce la
bellissima novella della lapida di Fuligno, e della iscrizione sua
illustrata dallo spettabilissimo viro Jacopo Biancani, ed ecco come
adoprano i loro pochi talenti molti de’nostri sacciuti d’Italia,
massime quando si tratta di corbellerie tanto frivolissime, quanto
lo sono la lapida e l’iscrizione di Fuligno.
Don Petronio vuole ad ogni
patto che io registri qui una lettera da esso ricevuta, la quale
dice così:
Carissimo cugino.
Al primo apparire della Frusta
letteraria, anche a me fu detto da certi letteratuzzi in un caffè,
che tutta questa metropoli s’era levata a romore, e che tutti i suoi
abitanti dichiarandosi ferocemente chi pro chi contra essa Frusta,
erano in procinto di venir all’armi con uno scompiglio e tumulto
orribile. Questa novella, caro Petronio, non mi piacque punto,
perchè anch’io sono prete e uomo di pace come voi. Corsi adunque
precipitoso al palazzo della Ragione; ma con mia inesprimibile
allegria vidi ognuno quivi attendere con la solita gravità e
saviezza ad amministrar la giustizia, nè sentivasi altro vociferare
intorno a’tribunali, se non quello d’alcuni veementi avvocati
intenti a vincere le cause che patrocinavano. Uscito di palazzo,
volli entrare nella cattedrale, e quivi non trovai
neppure il minimo segno di perturbazione e di guerra. V’era un
grasso canonico che celebrava la sua santa messa ad uno degli altari
laterali, e alcune donne che l’ascoltavano con molto silenzio e
quiete. Gli uomini, Petronio mio, voi sapete che non sono in
generale tanto divoti quanto il bel sesso; onde non mi meravigliai
se, essendo dì di lavoro, non ve n’erano quivi, eccetto che due
grami vecchierelli. Visto così il palazzo e la chiesa in quella
piena tranquillità che desideravo, m’andai aggirando per le strade
abitate da mercatanti, e non potetti scorger altro nelle loro
numerose botteghe che padroni e garzoni tutti affaccendatissimi a
misurare chi panni di seta, chi panni di lana, chi tele, chi nastri:
e tutti insomma intenti a vendere le loro infinite zacchere a’loro
pacifici avventori. Pensate, cugino, se mi confortai tutto nel
vedere co’miei proprj occhi, che ognuno seguiva oggi a fare con
sicura calma tutte quelle stesse stessissime cose che faceva jeri e
jer l’altro! Per finire tuttavia d’acquetarmi l’animo, volli andare
ad esaminare la piazza. Quivi trovai, a dir vero, un po’di
scompiglio e di tumulto; ma accertatevi, cugino carissimo, che la
Frusta non ne era cagione. Ne era cagione il collerico Pulcinella
che dava a Pagliac-cio suo odiatissimo rivale un buon
carpiccio di sode bastonate. Tanto può amore in
uman petto, come dicono spesso i poeti.
In conseguenza di queste scoperte da me fatte in palazzo, in chiesa,
nelle strade e nella piazza, conchiusi che tutto quel disperato
fracasso, di cui que’letteratuzzi mostravano tanto timore nel
sopraddetto caffè, non era altro che un effetto delle loro
immaginazioni alquanto riscaldate dalla lettura di quella Frusta;
onde, don Petronio mio, rasserenatevi, e non abbiate paura per
l’amico Aristarco. Ditegli anzi che seguiti valorosamente a
combattere la sciocchezza, a deprimere i vizj, ad esaltare la virtù,
e a procurare quanto potrà di accrescere il numero de’galantuomini e
de’buoni Cristiani.
Di V . . . addì 9 ottobre
1763.
Vostro affezionatissimo
cugino
Marcantonio Zamberlucco
».
N. B. La lettera di Cosmopoli mi piace. Vorrei conoscerne
l’autore.