Numero XV Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-099-368

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 64-68 L’Osservatore veneto 1 015 1761-03-25 Italien
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N° XV

A dì 25 marzo 1761.

. . . Et quæ divisa beatosEfficiunt, collecta tenes.

Claud.

Sono in te raccolte tutte quelle cose che diviserendono gli altri egregi e beati.

Dovendo l’Osservatore, secondo l’ufficio suo, per quanto egli può, comporre una storia degli animi umani, non è sempre obbligato, come per avventura potrebbero credere alcuni, a ragionare de’ difetti degli uomini, per procurare di far sì che sieno fuggiti; ma talvolta anche delle virtù, acciocchè vengano volonterosamente imitate. Egli è il vero che laddove, ragionando de’ primi, s’ingegna a tutto il suo potere di scostarsi dalle persone particolari, acciocchè il suo desiderio di giovare non sia creduto maldicenza; all’incontro, avendo a favellare di queste ultime, non solo egli si mette dinanzi all’intelletto qualche persona, ma cerca di dipingerla con tutti que’ lineamenti che possono farla altrui conoscere ed ammirare.

Avendomi adunque la buona ventura mia condotto ad avere la conoscenza d’una delle più belle e virtuose anime che in donna qui nel mondo abitasse, non crederò che sia cosa lontana dal debito mio, s’io intratterrò chi legge i presenti fogli col ragionare qualche tempo delle sue qualità, e di quelle doti che la fornivano. Nel che non solo intendo d’eseguire l’ufficio ch’io mi sono da me medesimo imposto nel pubblicare queste scritture, ma quasi di rizzare un picciolo monumento in suo onore, per fare qualche ricordanza di lei, che sia cara a molti e molto suoi cordiali amici; e testificare al mondo, se non altro, una parte della gratitudine ch’ io debbo a quelle cortesi parole e opere, che tante volte nell’oscurità in cui m’ ha gittate la mia burrascosa fortuna, furono mio conforto ed alleviamento. Ma che?

Volgomi intorno, ed è sparito il lume Della pietà che mi porgea conforto;Lo cerco invano; e mentre il piede io portoDovunque egli era, invan seguo il costume. So che mal di trovarlo ornai presume, Dal desir ingannato, uomo non morto:Non è, non in’ ode; il cerco, il chiamo a torto;Pur convien ch’occhi e voce e cor consume. Ahi! tu che sola mi presenti ancora, Viva memoria, il raggio onesto e santo,Che già tanto giovommi ed or m’ accora, Pungimi sempre; e mi ricorda quanto Mi fu benigno, ond’ io mi mostri ognoraGrato a mill’ opre sue con doglia e pianto.

Nè veramente potrà essermi in ciò manchevole la mia memoria, conservatrice fedele di tutte le qualità ch’io ammirai nella grande anima ora sparita dal mondo, dappoichè la mia buona ventura m’aperse la via d’essere ammesso fra quelle persone che seco viveano più spesso, e notare con frequenza i suoi sentimenti.

In ottime lezioni e in isquisito conversare avea l’intelletto suo, per natura penetrativo e vivace, di belle cognizioni fornito; ma non era perciò sì vaga di tale acquisto, che con lieta faccia ad ogni altro favellare non s’ adattasse al bisogno. Laddove s’introducevano ragionamenti di lettere, più volentieri che gli altri gli udiva: non sentenziava mai; un breve assenso o dubbio manifestavano il suo pensiero: assenso o dubbio erano però ragioni sì diritte, che aveano colpito nel segno. Della vera amicizia più maravigliosa estimatrice non vidi mai; nè chi più presto conoscesse la falsità, e l’abborrisse. Uomini e donne di grande affare si tenea carissimi, dicea, per poter essere talvolta mezzo a giovare agl’infelici, e avvisare di loro calamità chi potea alleggerirgli. Non avrebbe, affermava ella, cotanti sventurati il mondo, se lingue fedeli si frammettessero, e fossero ambasciatrici all’udito di chi può, e dicessero il vero degli afflitti. Rimangono ancora sue lettere non poche, scritte a grandi uomini, eloquentissime, tutte anima, e dettate con uno stile da non poterle sorpassare qualsivoglia ingegno; per iscrittura varie, d’argomento simili; ognuna fa instanza per giovare, o ringrazia d’aver ottenuto benefizio in altrui pro. Quanta rettorica hanno le scuole non insegna quello che a lei dettava il suo cuore. È maraviglia a dirsi con qual facilità comprendesse tutte le circostanze d’un caso, anche il più intralciato, le inutili separasse in un subito, cogliesse la verità e desse consigli, accompagnati da tanta cordialità e calore d’espressioni, che meglio non avrebbe parlato dentro il cuore di chi ne abbisognava. Vedevi anima intrinsecatasi nella tua, affare di lei più che tuo proprio. Alle parole, dove potea, aggiungeva l’opera, non richiesta; senza tuo sapere, o attendere, ti vedevi d’improvviso giovato. Quasi temea di dartene la nuova, perchè non ti piombassero addosso le obbligazioni. Aresti detto che scegliesse le parole più leggiere: non era vero; assecondava in ciò sua natura senza pensiero. L’aver fatto vantaggio agli amici, glieli rendea solo più cari; compenso di sua cortesia. Ritrovò molti ingrati; potea offendergli, se ne scordò, nè l’ingratitudine d’alcuni la fece indispettire della beneficenza. Nelle avversità ebbe animo sofferentissimo; nè mai l’avresti per esse veduta a cambiare nelle compagnie la sua ilarità naturale. Nell’ultima sua infermità, breve di quattro dì, è impossibile a dirsi il suo doloroso male e la sua costanza. Fino agli ultimi momenti ebbe chiarissimo intelletto, vivo e presente. Conobbe il suo stato il primo dì, non volle lusinghe, con cattolico cuore si scordò tosto del mondo non invitata. Finì di vivere la notte dei 20 di marzo con somma fermezza e religione.

Puro spirto in terrena e gentil vesta Lïonora poc’ anzi era tra noi;Or sua parte migliore in ciel si è desta,Solo vestita de’ be’ raggi suoi.O tu che passi, leggi e t’ addolora:Qui fredde spoglie, e nome è Lïonora.

Oppidum condunt. Æneas, ab nomine uxoris,Lavinium appellat.

Tit. Liv., lib. I.

Edificano un castello. Enea lo chiama Laviniodal nome della moglie.

Oh com’ erano rozzi gli antichi! dice quasi ognuno a’ nostri giorni. Le morbidezze, gli aspetti delle cose studiate in dilicatezza, che ci attorniano, un certo che d’affettuoso e di garbato, che suona nelle nostre parole quando favelliamo alle femmine, ci fa credere che noi facciamo maggiore stima del fatto loro di quello che facessero gli antichissimi uomini, tanto che al presente ci pare di conservarle nella bambagia. Io per me sono d’opinione che questa bella metà del mondo fosse carissima all’altra metà in tutti i secoli, e che sempre le fossero fatti vezzi e usate cortesie. Ma sia come si vuole, io trovo almeno certamente che gli uomini cercavano di dar loro qualche parte della gloria nelle proprie città, acciocchè le s’ innamorassero anche d’altro che di bagattelluzze e di ciance. Tito Livio me ne dà due begli esempi. Quando Enea pose il piede in Italia, e s’ ammogliò a Lavinia, veduto che l’era una giovane di garbato ingegno, come la si scoperse appresso in effetto, per conservare eterno il nome di lei, chiamò Lavinio un castello che venne dai Troiani nei luoghi suoi edificato. Quando poi per opera delle donne Sabine nacque fra’ Romani e Sabini la pace, di che fu una letizia universale, non solamente divennero esse, dice lo scrittore, « più care a’ mariti e a’ padri, ma furono principalmente grate a Romolo, il quale dividendo poscia il popol suo in trenta curie, ad ognuna di queste pose il nome d’una d’esse donne, per rendere con quest’atto pubblico di gratitudine, in tutti i secoli avvenire, la virtù e i nomi loro immortali. » E afferma un altro autore, che tutta la discendenza di quelle fu per legge liberata da ogni esercizio d’uffizi vili e plebei. Va’ a dire che oggidì le povere donne abbiano da noi uomini una grazia di conto, o che cerchiamo di far loro qualche onore se le faranno una bell’opera. Se una avrà più cervello che il marito, e reggerà bene la casa sua, che fra le mani di lui andrebbe in rovina, nelle compagnie si dirà male di lei che fa, e di lui che lascia fare. Ci sarà un’altra di giudizio, che darà un buon consiglio; il suo parlare s’ascolta come se la fischiasse; e si domanda ove la s’è addottorata; tanto che bisogna ch’ ella si stringa nelle spalle, e stiasi sofferente a vedere mille pazzie, e le assecondi se occorre. Non è maraviglia poi se il cuore umano, che pur vuole qualche onore per natura, e tanto è di carne e vivo nelle donne, quanto negli uomini, le ha stimolate a gareggiare con esso noi per un altro verso; nel che noi le abbiamo aiutate e le aiutiamo a tutto nostro potere. Quel pensiero ch’esse avrebbero posto tutto in cose grandi, l’hanno all’incontro occupato nell’ingrandire le picciole; e non hanno fatto debole impresa, a vedere come sia riuscita bene la loro intenzione. Io giocherei la vita mia contro un morso di berlingozzo, che se noi maschi avessimo alle mani telerie, nastri, pizzi e altre sì fatte cosette, non ci darebbe mai l’animo di condurle a quella grandezza e solennità alla quale furono dalle donne condotte. No, non lo sapremmo fare. Per confortare, come si dice, i cani all’erta, noi siamo buoni; perchè quella che fra esse sa meglio guernirsi di sì fatte gentilezze, vien da noi senza fine lodata; tanto che dal vedere l’ammirazione de’ maschi è nata la concorrenza generale fra loro: e io non posso fare a meno di non ridere quando odo alcuni a biasimarle di ciò, e a dire ch’esse hanno del cervellino e dello sventato. Che avranno esse a fare? A starsi con le mani alla cintola e senza pensieri, come se le fossero statue? Se quando le reggono bene una famiglia, s’ andasse sotto alle loro finestre con una schiera di musici e di strumenti a cantare le loro lodi; se le potessero acquistare gli amanti, quando si rendono celebrate per nobiltà e grandezza di cuore, noi le vedremmo scambiate mentre ch’ io scrivo. Non veggiamo noi forse che le ci annoiano quando dicono sei parole sul sodo? Che se le ci appariscono dinanzi vestite senza mille squisitezze, diciamo che le sono idiote? Che se le non dicono mille cose per diritto e per traverso, le chiamiamo pezzi di carne con gli occhi? Il continuo cianciare, moversi, dibattersi, e quasi far visacci e bocche, lo chiamiamo vivacità; il dir male, arguzia; il far peggio, spirito; e abbiamo tanto lodato le poche forze e la dilicatezza di complessione, che le si sono ridotte quasi tutte a soffrire mille maluzzi, e a starsi a letto più giorni della settimana per acquistarsi anche quest’onore.

All’Osservatore

Mandovi una scrittura alquanto lunghetta, la quale non è veramente cosa mia, ma d’uno scrittore forastiero. A me sembra essa cosa dettata con molto giudizio e senno, e non posso negarvi che avrei piacere di vederla pubblicata ne’ vostri fogli. Lascio però che ne facciate la vostra volontà; nè intendo che per favorirmi sconciate punto quelle misure che avete prese. Se potete, vi sarò obbligato io, e insieme quel cavaliere che me l’ha spedita; se non potete, ci vorrà pazienza. Sappiate almeno che son uno il quale v’ama cordialmente e fa vera professione d’esservi amico. V’abbraccio.

Mio Signore

Ho letto la favola allegorica da voi mandatami; e, se non m’inganno, giurerei ch’ ell’ è cosa d’uno scrittore inglese. La morale v’ è ottima, ed è espressa felicemente. Io l’avrei collocata nel foglio presente, se la materia non fosse già per questo stata apparecchiata e disposta. Occuperà il foglio dietro a questo. Pregovi bene, se voi da qui in poi mi favorirete mai più, a non mandarmi cose molto lunghe. Non posso negarvi che la favola non sia bella e degna d’esser veduta e letta: onora i miei fogli, ma questi amano la varietà e la brevità de’ componimenti. Voi sapete la fatica che si dura a leggere oggidì, e molta è anche la fatica dello scrivere, onde non vorrei mettere in voga lo scrivere lungamente; perchè il balzare da un argomento all’altro mi riesce di stento minore. Quando piglio per le mani un’impresa che non sia per finir tosto, mi pare impossibile di poterne mai venire a fine. Intanto vi ringrazio di cuore, e poichè siete mio amico, comporterete che liberamente vi parli. Non cessate di favorirmi, e accertatevi della mia stima e gratitudine. Tutto vostro

L’Osservatore

N° XV A dì 25 marzo 1761. . . . Et quæ divisa beatosEfficiunt, collecta tenes. Claud. Sono in te raccolte tutte quelle cose che diviserendono gli altri egregi e beati. Dovendo l’Osservatore, secondo l’ufficio suo, per quanto egli può, comporre una storia degli animi umani, non è sempre obbligato, come per avventura potrebbero credere alcuni, a ragionare de’ difetti degli uomini, per procurare di far sì che sieno fuggiti; ma talvolta anche delle virtù, acciocchè vengano volonterosamente imitate. Egli è il vero che laddove, ragionando de’ primi, s’ingegna a tutto il suo potere di scostarsi dalle persone particolari, acciocchè il suo desiderio di giovare non sia creduto maldicenza; all’incontro, avendo a favellare di queste ultime, non solo egli si mette dinanzi all’intelletto qualche persona, ma cerca di dipingerla con tutti que’ lineamenti che possono farla altrui conoscere ed ammirare. Avendomi adunque la buona ventura mia condotto ad avere la conoscenza d’una delle più belle e virtuose anime che in donna qui nel mondo abitasse, non crederò che sia cosa lontana dal debito mio, s’io intratterrò chi legge i presenti fogli col ragionare qualche tempo delle sue qualità, e di quelle doti che la fornivano. Nel che non solo intendo d’eseguire l’ufficio ch’io mi sono da me medesimo imposto nel pubblicare queste scritture, ma quasi di rizzare un picciolo monumento in suo onore, per fare qualche ricordanza di lei, che sia cara a molti e molto suoi cordiali amici; e testificare al mondo, se non altro, una parte della gratitudine ch’ io debbo a quelle cortesi parole e opere, che tante volte nell’oscurità in cui m’ ha gittate la mia burrascosa fortuna, furono mio conforto ed alleviamento. Ma che? Volgomi intorno, ed è sparito il lume Della pietà che mi porgea conforto;Lo cerco invano; e mentre il piede io portoDovunque egli era, invan seguo il costume. So che mal di trovarlo ornai presume, Dal desir ingannato, uomo non morto:Non è, non in’ ode; il cerco, il chiamo a torto;Pur convien ch’occhi e voce e cor consume. Ahi! tu che sola mi presenti ancora, Viva memoria, il raggio onesto e santo,Che già tanto giovommi ed or m’ accora, Pungimi sempre; e mi ricorda quanto Mi fu benigno, ond’ io mi mostri ognoraGrato a mill’ opre sue con doglia e pianto. Nè veramente potrà essermi in ciò manchevole la mia memoria, conservatrice fedele di tutte le qualità ch’io ammirai nella grande anima ora sparita dal mondo, dappoichè la mia buona ventura m’aperse la via d’essere ammesso fra quelle persone che seco viveano più spesso, e notare con frequenza i suoi sentimenti. In ottime lezioni e in isquisito conversare avea l’intelletto suo, per natura penetrativo e vivace, di belle cognizioni fornito; ma non era perciò sì vaga di tale acquisto, che con lieta faccia ad ogni altro favellare non s’ adattasse al bisogno. Laddove s’introducevano ragionamenti di lettere, più volentieri che gli altri gli udiva: non sentenziava mai; un breve assenso o dubbio manifestavano il suo pensiero: assenso o dubbio erano però ragioni sì diritte, che aveano colpito nel segno. Della vera amicizia più maravigliosa estimatrice non vidi mai; nè chi più presto conoscesse la falsità, e l’abborrisse. Uomini e donne di grande affare si tenea carissimi, dicea, per poter essere talvolta mezzo a giovare agl’infelici, e avvisare di loro calamità chi potea alleggerirgli. Non avrebbe, affermava ella, cotanti sventurati il mondo, se lingue fedeli si frammettessero, e fossero ambasciatrici all’udito di chi può, e dicessero il vero degli afflitti. Rimangono ancora sue lettere non poche, scritte a grandi uomini, eloquentissime, tutte anima, e dettate con uno stile da non poterle sorpassare qualsivoglia ingegno; per iscrittura varie, d’argomento simili; ognuna fa instanza per giovare, o ringrazia d’aver ottenuto benefizio in altrui pro. Quanta rettorica hanno le scuole non insegna quello che a lei dettava il suo cuore. È maraviglia a dirsi con qual facilità comprendesse tutte le circostanze d’un caso, anche il più intralciato, le inutili separasse in un subito, cogliesse la verità e desse consigli, accompagnati da tanta cordialità e calore d’espressioni, che meglio non avrebbe parlato dentro il cuore di chi ne abbisognava. Vedevi anima intrinsecatasi nella tua, affare di lei più che tuo proprio. Alle parole, dove potea, aggiungeva l’opera, non richiesta; senza tuo sapere, o attendere, ti vedevi d’improvviso giovato. Quasi temea di dartene la nuova, perchè non ti piombassero addosso le obbligazioni. Aresti detto che scegliesse le parole più leggiere: non era vero; assecondava in ciò sua natura senza pensiero. L’aver fatto vantaggio agli amici, glieli rendea solo più cari; compenso di sua cortesia. Ritrovò molti ingrati; potea offendergli, se ne scordò, nè l’ingratitudine d’alcuni la fece indispettire della beneficenza. Nelle avversità ebbe animo sofferentissimo; nè mai l’avresti per esse veduta a cambiare nelle compagnie la sua ilarità naturale. Nell’ultima sua infermità, breve di quattro dì, è impossibile a dirsi il suo doloroso male e la sua costanza. Fino agli ultimi momenti ebbe chiarissimo intelletto, vivo e presente. Conobbe il suo stato il primo dì, non volle lusinghe, con cattolico cuore si scordò tosto del mondo non invitata. Finì di vivere la notte dei 20 di marzo con somma fermezza e religione. Puro spirto in terrena e gentil vesta Lïonora poc’ anzi era tra noi;Or sua parte migliore in ciel si è desta,Solo vestita de’ be’ raggi suoi.O tu che passi, leggi e t’ addolora:Qui fredde spoglie, e nome è Lïonora. Oppidum condunt. Æneas, ab nomine uxoris,Lavinium appellat. Tit. Liv., lib. I. Edificano un castello. Enea lo chiama Laviniodal nome della moglie. Oh com’ erano rozzi gli antichi! dice quasi ognuno a’ nostri giorni. Le morbidezze, gli aspetti delle cose studiate in dilicatezza, che ci attorniano, un certo che d’affettuoso e di garbato, che suona nelle nostre parole quando favelliamo alle femmine, ci fa credere che noi facciamo maggiore stima del fatto loro di quello che facessero gli antichissimi uomini, tanto che al presente ci pare di conservarle nella bambagia. Io per me sono d’opinione che questa bella metà del mondo fosse carissima all’altra metà in tutti i secoli, e che sempre le fossero fatti vezzi e usate cortesie. Ma sia come si vuole, io trovo almeno certamente che gli uomini cercavano di dar loro qualche parte della gloria nelle proprie città, acciocchè le s’ innamorassero anche d’altro che di bagattelluzze e di ciance. Tito Livio me ne dà due begli esempi. Quando Enea pose il piede in Italia, e s’ ammogliò a Lavinia, veduto che l’era una giovane di garbato ingegno, come la si scoperse appresso in effetto, per conservare eterno il nome di lei, chiamò Lavinio un castello che venne dai Troiani nei luoghi suoi edificato. Quando poi per opera delle donne Sabine nacque fra’ Romani e Sabini la pace, di che fu una letizia universale, non solamente divennero esse, dice lo scrittore, « più care a’ mariti e a’ padri, ma furono principalmente grate a Romolo, il quale dividendo poscia il popol suo in trenta curie, ad ognuna di queste pose il nome d’una d’esse donne, per rendere con quest’atto pubblico di gratitudine, in tutti i secoli avvenire, la virtù e i nomi loro immortali. » E afferma un altro autore, che tutta la discendenza di quelle fu per legge liberata da ogni esercizio d’uffizi vili e plebei. Va’ a dire che oggidì le povere donne abbiano da noi uomini una grazia di conto, o che cerchiamo di far loro qualche onore se le faranno una bell’opera. Se una avrà più cervello che il marito, e reggerà bene la casa sua, che fra le mani di lui andrebbe in rovina, nelle compagnie si dirà male di lei che fa, e di lui che lascia fare. Ci sarà un’altra di giudizio, che darà un buon consiglio; il suo parlare s’ascolta come se la fischiasse; e si domanda ove la s’è addottorata; tanto che bisogna ch’ ella si stringa nelle spalle, e stiasi sofferente a vedere mille pazzie, e le assecondi se occorre. Non è maraviglia poi se il cuore umano, che pur vuole qualche onore per natura, e tanto è di carne e vivo nelle donne, quanto negli uomini, le ha stimolate a gareggiare con esso noi per un altro verso; nel che noi le abbiamo aiutate e le aiutiamo a tutto nostro potere. Quel pensiero ch’esse avrebbero posto tutto in cose grandi, l’hanno all’incontro occupato nell’ingrandire le picciole; e non hanno fatto debole impresa, a vedere come sia riuscita bene la loro intenzione. Io giocherei la vita mia contro un morso di berlingozzo, che se noi maschi avessimo alle mani telerie, nastri, pizzi e altre sì fatte cosette, non ci darebbe mai l’animo di condurle a quella grandezza e solennità alla quale furono dalle donne condotte. No, non lo sapremmo fare. Per confortare, come si dice, i cani all’erta, noi siamo buoni; perchè quella che fra esse sa meglio guernirsi di sì fatte gentilezze, vien da noi senza fine lodata; tanto che dal vedere l’ammirazione de’ maschi è nata la concorrenza generale fra loro: e io non posso fare a meno di non ridere quando odo alcuni a biasimarle di ciò, e a dire ch’esse hanno del cervellino e dello sventato. Che avranno esse a fare? A starsi con le mani alla cintola e senza pensieri, come se le fossero statue? Se quando le reggono bene una famiglia, s’ andasse sotto alle loro finestre con una schiera di musici e di strumenti a cantare le loro lodi; se le potessero acquistare gli amanti, quando si rendono celebrate per nobiltà e grandezza di cuore, noi le vedremmo scambiate mentre ch’ io scrivo. Non veggiamo noi forse che le ci annoiano quando dicono sei parole sul sodo? Che se le ci appariscono dinanzi vestite senza mille squisitezze, diciamo che le sono idiote? Che se le non dicono mille cose per diritto e per traverso, le chiamiamo pezzi di carne con gli occhi? Il continuo cianciare, moversi, dibattersi, e quasi far visacci e bocche, lo chiamiamo vivacità; il dir male, arguzia; il far peggio, spirito; e abbiamo tanto lodato le poche forze e la dilicatezza di complessione, che le si sono ridotte quasi tutte a soffrire mille maluzzi, e a starsi a letto più giorni della settimana per acquistarsi anche quest’onore. All’Osservatore Mandovi una scrittura alquanto lunghetta, la quale non è veramente cosa mia, ma d’uno scrittore forastiero. A me sembra essa cosa dettata con molto giudizio e senno, e non posso negarvi che avrei piacere di vederla pubblicata ne’ vostri fogli. Lascio però che ne facciate la vostra volontà; nè intendo che per favorirmi sconciate punto quelle misure che avete prese. Se potete, vi sarò obbligato io, e insieme quel cavaliere che me l’ha spedita; se non potete, ci vorrà pazienza. Sappiate almeno che son uno il quale v’ama cordialmente e fa vera professione d’esservi amico. V’abbraccio. Mio Signore Ho letto la favola allegorica da voi mandatami; e, se non m’inganno, giurerei ch’ ell’ è cosa d’uno scrittore inglese. La morale v’ è ottima, ed è espressa felicemente. Io l’avrei collocata nel foglio presente, se la materia non fosse già per questo stata apparecchiata e disposta. Occuperà il foglio dietro a questo. Pregovi bene, se voi da qui in poi mi favorirete mai più, a non mandarmi cose molto lunghe. Non posso negarvi che la favola non sia bella e degna d’esser veduta e letta: onora i miei fogli, ma questi amano la varietà e la brevità de’ componimenti. Voi sapete la fatica che si dura a leggere oggidì, e molta è anche la fatica dello scrivere, onde non vorrei mettere in voga lo scrivere lungamente; perchè il balzare da un argomento all’altro mi riesce di stento minore. Quando piglio per le mani un’impresa che non sia per finir tosto, mi pare impossibile di poterne mai venire a fine. Intanto vi ringrazio di cuore, e poichè siete mio amico, comporterete che liberamente vi parli. Non cessate di favorirmi, e accertatevi della mia stima e gratitudine. Tutto vostro L’Osservatore