Francesco D´Ovidio an Hugo Schuchardt (91-08491)

von Francesco D´Ovidio

an Hugo Schuchardt

Neapel

25. 11. 1920

language Italienisch

Schlagwörter: Südtirolfrage Accademia dei Lincei (Rom) Salvioni, Carlo Schuchardt, Hugo (1915) Covino, Sandra (2019) Ovidio, Francesco d' (1910) Ovidio, Francesco d' (1920)

Zitiervorschlag: Francesco D´Ovidio an Hugo Schuchardt (91-08491). Neapel, 25. 11. 1920. Hrsg. von Sandra Covino (2022). In: Bernhard Hurch (Hrsg.): Hugo Schuchardt Archiv. Online unter https://gams.uni-graz.at/o:hsa.letter.7702, abgerufen am 19. 03. 2024. Handle: hdl.handle.net/11471/518.10.1.7702.


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Napoli, 25 novembre1

Caro amico,

perché hai voluto credere che all’altra tua lettera io abbia deliberatamente mancato di rispondere2? Tu conosci bene la mia infelice condizione fisica, e già ti scrissi, quel che del resto è di per sè facile immaginare, che la guerra ha finito di sconcertare le mie faccende. Ti avrei già risposto dunque se avessi potuto, e se non ci fosse anche che la tua lettera voleva una risposta delicatamente ponderata. Anche a quest’altra recentissima men che mai vorrei mancar di rispondere. Ho dunque letto il tuo articolo e ho ben visto come debba essere stato intaccato dal giornalista3. Ma, anche a prescinder da ogni intacco io mi metto perfettamente nei panni altrui. È mia costante abitudine, e non vorrei venirci meno giusto per te, mio vecchio e caro amico. Io |2| capisco perfettamente come ad ogni buon tedesco debba far dolore che alcune decine di migliaia di tedeschi siano staccati politicamente dalla Germania, e perfin dalla Austria4. Quanto a me, e credo d’interpretare anche il sentimento della più parte degl’italiani, vorrei che nessun bisogno di difesa nazionale ci avesse costretti ad occupare l’Alto Adige. Vorrei che fosse possibile che invece esistesse una chirurgia geografica con la quale si potesse fare la prodigiosa operazione di abbassare le cime del Brennero e di tutto lo spartiacque e innalzare le cime che sono al di qua di Bolzano, o insomma trasportare più al sud la barriera alpina in modo che tutto l’elemento germanico rimanesse collegato alla propria nazionalità, senza che l’Italia rimanesse con un lembo del suo naturale territorio in mano di un altro popolo. Vorrei che tutta l’Italia non contenesse |3| che italiani e che nessun altro popolo avesse a soffrire quel che noi italiani abbiamo sofferto per secoli, nemmeno quel popolo che più ce l’ha fatto soffrire. Vorrei che nessun popolo avesse a penare neppure per poche migliaia dei suoi connazionali obbligati a vivere sotto un governo straniero, e neanche quel popolo che obbligò milioni d’italiani a vivergli soggetti. Nessuna recriminazione o rancore o spirito di vendetta sento in me, e so che i più degli italiani sentono come me.

Una cosa però non posso tralasciar di dire, e non già per ripicco, ma per semplice desiderio di farti presenti quelle considerazioni che valgano a consolare e temperare il tuo dolore patriottico. I tedeschi dell’Adige non saranno sottoposti al giogo straniero, come furono i veneti e i lombardi ed anche altri italiani, bensì faranno parte d’uno stato straniero che da molti |4| anni è libero, e, se oggi per effetto della guerra sembra turbato dalla licenza, è da sperare che presto tornerà veramente libero. Quei tedeschi son pochi, e questo è sempre da considerare; e son gente dedita alla vita pratica, e troveranno facili consolazioni negli utili che ritrarranno dalla convivenza con l’Italia. Tu pensa al Canton Ticino. Sono italiani i ticinesi, eppure non consideran sè come irredenti: perché? Perché a star con la Svizzera non soffrono e ci trovano il loro tornaconto. Dirai che gl’italiani son lì alla pari con altre due nazionalità, che lo stato svizzero è essenzialmente un aggregato di popoli diversi; ebbene i Côrsi sono italiani e stanno bene con la Francia. Migliaia di tedeschi vivevano in Italia prima della guerra e ci stavano molto volentieri. Che ora alcune migliaia sien costretti a starci in modo più radicale, non è cosa da dovere angosciare tanto l’animo del patriota tedesco5. Il quale non si dispera |5| che molti milioni di tedeschi sien divenuti cittadini americani. In Italia nessun tedesco del Tirolo farà la fine atroce dei nostri martiri di Belfiore o del Battisti6. Il congresso di Parigi ha fatto molti spropositi, non lo nego, e il dar milioni e milioni di tedeschi a Stati non germanici non può parere cosa nè prudente nè umana. Forse io ignoro le ragioni precise del fatto, ma certo il mio sentimento vi ripugna. Ma per quel che riguarda l’Italia torno a dire che neppure il ricordo angoscioso degli spasimi patriottici sofferti da vaste e nobili regioni italiane, che potevano annoverar cittadini come Alessandro Manzoni, basta a impedirmi di comprendere il dolore dei patrioti tedeschi per la striscia di territorio, quasi in tutto germanizzato, ch’è stato staccato dal territorio germanico transalpino, come non basta a impedirmi di deplorare che la coinci|6|denza tra l’Italia etnica e l’Italia geografica non sia così piena come dovrebb’essere per poter dire che neppure uno straniero è costretto a divenir italiano7.

Che tu sia stato sempre amico dell’Italia, lo so e sarei pronto ad attestarlo se avvenisse quel che tu minacci, cioè che tu mi precedessi nel lasciare questa valle di lacrime. Ma non è detto che i pochi anni d’età che ci separano debbano per forza fare che io pianga la tua fine, anzichè tu compatire alla mia. Il povero Salvioni aveva otto anni meno di me, ed è toccato a me di commemorarlo ai Lincei la passata domenica8. Amico dell’Italia, sì, tu fosti, e credo che sii anche adesso; ma solo vorrei che non ti paresse cosa tanto deplorevole che alcuni tedeschi siano obbligati per ragioni topografiche ineluttabili a convivere con questa Italia così pronta ad esser benigna ai non italiani, |7| così aliena dal volerli opprimere, così disposta a dimenticare d’essere stata essa lungamente e fieramente oppressa.

Di tutto cuore, e sempre vivamente desideroso di tue notizie,

sono il tuo vecchio amico
F. d’Ovidio

D.S. Ricevesti dai Lincei una mia grossa Memoria sulla arcaica versificazione francese, e una noterella su veintre? Ti prego di farmelo subito sapere9.


1 Su carta intestata SENATO DEL REGNO.

2 D’Ovidio si riferiva alla lettera del 6 giugno 1920 e alla successiva del 10 novembre in cui Schuchardt aveva scritto di non aspettarsi, come per la precedente, alcuna risposta.

3 Cf. il secondo capoverso della lettera precedente di Schuchardt, CASNS, FDO, HS 34, e la nota 1.

4 Cf. la lettera LXXXIX, CASNS, FDO, HS 33, e la nota 5.

5 D’Ovidio cercò di appoggiare Luigi Credaro, commissario generale civile per la Venezia tridentina, nel suo tentativo di porre le basi per una convivenza pacifica, facendo tra l’altro dialogare studiosi italiani e tirolesi sulla spinosa questione dell’Alto Adige, ma fu fortemente osteggiato da altri accademici dei Lincei, come Antonio Salandra e Vincenzo Crescini. Quanto al rapporto tra lingua e nazione, la posizione di D’Ovidio, certo non esente da spirito di parte, sembra comunque superare la concezione romantico-ottocentesca; in particolare, l’idea della convergenza tra frontiera linguistica e frontiera politica impostasi con particolare vigore alla fine del XIX secolo. Significativo il suo riferimento al caso dei Ticinesi e dei Corsi. Al contrario, proprio l’idea “naturalistica” della nazione – ovvero di un implicito e vincolante rapporto tra lingua, Volkstum ed entità statale – appare alla base della critica rivolta da Schuchardt (in AHR, pp. 9-10) al comportamento degli Italiani verso la Corsica, che essi non consideravano “irredenta”, come il Südtirol e la Dalmazia, e dove avevano lasciato regredire allo stato di patois la “voce dell’italiano”. Su questi temi, cf. Covino, Linguistica e nazionalismo, cit., pp. 154-161, 186-187.

6 Il riferimento è al gruppo di cospiratori mazziniani torturati e condannati a morte tra il 1852 e il 1855 per ordine del governatore generale del Lombardo-Veneto, Josef Radetzky, e all’impiccagione per alto tradimento di Giuseppe Cesare Battisti (Trento 1875-1916), che allo scoppio della guerra si era arruolato tra gli Alpini dell’esercito italiano.

7 Com’è noto, il nono dei quattordici principi proclamati alla Conferenza di Parigi dal presidente statunitense Woodrow Wilson, che ottenne ampio consenso presso l’opinione pubblica europea, prevedeva il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Tuttavia, Ia complessa realtà etnica del vecchio continente rese impossibile tracciare frontiere che non lasciassero minoranze alloglotte all’interno di vari paesi. Una deroga ai principi wilsoniani fu stabilita anche per il confine sudoccidentale dell’ex impero asburgico, con lo spostamento della frontiera al Brennero, cioè alla barriera delle Alpi, considerate già da Mazzini e dalla tradizione risorgimentale italiana confine naturale. Furono accolte, dunque, le ragioni della sicurezza militare invocate dall’Italia, che prevalsero anche per il timore delle potenze vincitrici di un possibile “revanchismo” tedesco (cf. Erik Goldstein, Gli accordi di pace dopo la grande guerra, 1919-1925, trad. it., Bologna, il Mulino, 2005, pp. 44-47 e 53).

8 Schuchardt aveva preconizzato che la sua scomparsa avrebbe preceduto quella di D’Ovidio; avverrà invece il contrario. Carlo Salvioni (Bellinzona 1858-Milano 1920), socio nazionale dell’Accademia dei Lincei dal 1916, era deceduto il 20 ottobre 1920. D’Ovidio dette un breve annuncio della sua morte nella seduta del 21 novembre: cf. RAL, serie V, XXIX, 1920, p. 338.

9 Cf. F. D’Ovidio, Studii sulla più antica versificazione francese, in MAL, serie V, XVI/4, 1920, pp. 115-180 (rist. in Opere, IX.2, pp. 9-136) e Seduta del 16 maggio 1920 […], L’antico francese veintre. Nota del socio Francesco D’Ovidio, in RAL, serie V, XXIX, 1920, pp. 167-176.

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