Zitiervorschlag: Gioseffa Cornoldi Caminer (Hrsg.): "Num. IX", in: Donna galante, Vol.2\09 (1786), S. NaN-288, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.4794 [aufgerufen am: ].


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Num. IX.

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L’impero della natura.

Fremdportrait► Eugenia era debitrice della vita a de’Genitori virtuosi e rispettabili: precetti ed esempj [sic] di virtù le ispirarono essi sempre, perciò poteva rallegrarsi di non averli a rimproverare alcuna eccessiva sensibilità, sorgente per noi donne pur troppo seconda di calamità e di disgrazie, e sovente ancora di rovina totale. Questa è quella sensibilità sì cieca, e perigliosa che ci seduce, e che per vie coperte di fiori ci trascina nell’abisso, dove appena cadute non possiamo più emergere anche all’evidenza del nostro danno.

L’interesse, quell’universale motore della Società, a cui pure cagiona tanti disordini, e tanti disastri, l’interesse, le convenienze, gl’impegni di famiglia, l’uso vecchio tiranno del Mondo diedero un marito ad Eugenia. Era egli un uomo stimabile ripieno di eccellenti qualità. Una donna di esperienza l’avrebbe amato, ma Eugenia non aveva che dieciotto [sic] anni, ed a quest’età non si consulta che l’impressione del cuore: questa è la sola misura delle direzioni giovanili.

Alla fine di due anni un maschio fu il frutto di questa unione, a cui l’innocenza, la sicurezza [260] dell’animo, il vantaggio di star bene con se stesso prestarono delle dolcezze, che sono forse molto superiori ai piaceri: e in fatti vi ha forse vero piacere discordante dalla ragione e dall’onestà? Oh Dio! La pura felicità, quella felicità che nasce dalla sola virtù ci sarebbe forse estranea? Saremmo noi condannati a desiderare la tempesta delle passioni!

Uno di quegli uomini del mondo sì colpevole che dovrebbero essere dalle leggi puniti, e che ad un tempo vanno fastosi degli abbominevoli loro successi, e della loro impunità il Marchese di . . . . viene in iscena, s’apre l'adito in quella casa, e mette tosto in uso tutti i suoi artifizj [sic] : sentimenti falsi, grazie, spirito, lettere seducenti, proposizioni animate dall'allegria e dalla tenerezza, Feste ingegnose, lusinghevoli sagrificj [sic] , nulla viene trascurato fra il numero di quegl’incanti, ond’è circondato un giovine senza sperienza, senza riflessione, e che non conosceva nè la società nè se stesso. Finalmente Eugenia perdette venti anni di saviezza, la sua felicità, la sua propria stima, quella stima che sovente in un momento svanisce per sempre.

Eugenia più non provò dunque che un tumulto continuo di sentimenti, un’insopportabile agita-[261]zione . . . . . Non assaporò ella più quella calma sì dolce dell’anima, quella specie di terrestre beatitudine che felicitava i primi suoi bei giorni. Lo scherzo infelice d’una continua tempesta entrò nel suo cuore per non sortirne mai più. Qual parola! Per non sortirne mai più! È vero che il fulmine non era ancora scoppiato, ma il delirio d’una passione cieca, e colpevole tutte annientava le sue riflessioni: troppo abbandonata all’indegno suo seduttore, che regnava sopra tutti i suoi sensi.

Per un affare di alcune settimane il marito di Eugenia era stato chiamato in una vicina Provincia. Si può agevolmente considerare con quale avidità scegliesse il Marchese una tale occasione. Ei diventò più sollecito, più imperioso, e la sua complice più debole, più colpevole, poichè la ragione si era in lei totalmente perduta. La donna tanto stimata, la sposa, la madre, si cambiò in una pazza amante, o piuttosto in una schiava la più sommessa, la più vile, umiliata da un mostro di corruzione e di scelleratezza. Quell’infame seduttore indusse la sua vittima a sagrificargli ogni cosa; l’amore dovuto alla sua famiglia, a suo marito, a suo figlio; lo stato; la fede coniugale, la vergogna, l’onore: ella acconsentì in una parola ad affidare tutto alla pubblica esecrazione. Euge-[262]nia dunque abbandonò tutto, e suo figlio medesimo per correre in esteri paesi, per pubblicare la sua infamazione ed un inutile dispiacere, seguendo l’odioso suo rapitore.

La sua partenza, ossia la sua fuga è decisa. Il figlio di quella donna sì poco degna di esser madre trovavasi in campagna presso una sua parente. Eugenia non la vedrà più. Si reca essa in una piccola Città poche leghe distante dalla Capitale; colà dovevansi consumare gli orrori del rapimento. Eugenia seguendo le convenzioni era giunta la prima a quel luogo funesto, ed ivi abbandonata a lei sola, tormentata involontariamente dall’idea d’un contegno troppo colpevole, provava successivamente mille orribili contrasti: struggevasi in lagrime, e non poteva soffocare una voce che internamente la tormentava. Un bel figliuolino si trovava a caso in quel luogo, vede quella donna piangendo sembra che già conosca il sentimento sì dolce della compassione: corre verso di lei colle braccia aperte, l’abbraccia, l’accarezza, e si sforza di proferire il dolce nome di madre. Alza Eugenia i suoi occhi molli di pianto e resta colpita alla vista di quell’amabile creatura, che le richiama alla memoria suo figlio. Ed io ho potuto, esclama Eugenia, stringendosi quel figlio al seno, [263] ho potuto risolvermi ad abbandonare il mio? Infelice! Ho potuto scordarmi di esser madre; ho potuto dimenticarlo? Questa semplice riflessione bastò per farla risolvere a tornare indietro: vola per così dire, si fa portare il proprio figlio, lo stringe con trasporto nelle sue braccia, lo bagna con un diluvio di lagrime, e non può che proferire in mezzo ad un’abbondanza di singhiozzi che queste parole: caro figlio, amato figlio, tu non avevi più madre!

Sorpreso il Marchese che fossegli fuggita di mano la sua preda, ardì di comparire di nuovo ad Eugenia davanti. La vede a coprire di bacci, e di pianto suo figlio; vorrebbe parlare. -- Ritirati vile scellerato, fuggi dagli occhi miei, corri ad applaudirti di tutti i delitti; in cui mi hai sepolta, a strappare dal seno di una tenera madre il suo figlio. Va, ch’io mi sono a lui restituita, alla natura, ai miei doveri, a quella virtù che tanto amava, e che ho tanto oltraggiato; ma tu m’hai tolto il riposo, la stima ch’io aveva di me stessa per sempre, e ch’io piangerò per tutto il resto della mia vita. ◀Fremdportrait ◀Ebene 3

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[264] Aneddoto storico-galante.

Exemplum► Una Inglese che si trovava a morte fece chiamar suo marito, e dopo di aver procurato di muovere a sua sensibilità col dettaglio dei suoi patimenui, lo scongiurò di perdonarle un fallo di cui era verso di lui colpevole. Il Marito avendole promesso ciò che desiderava, le confessò di essergli stata infedele. Io ve lo perdono, rispose il marito; ma aspetto parimenti da voi il perdono del male che vi ho fatto. Sua moglie glielo promise di cuore. Il fallo da me commesso si è di avervi avvelenata, essendomi avveduto della confessione che mi avete fatta, onde la vostra morte è quella che dovete perdonare. ◀Exemplum ◀Ebene 3

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Le pernici

Novella.

Exemplum► Il mio vecchio Avo ciagliero, ma nemico delle menzogne, mi diceva un giorno, e certamente me ne ricorderò per molto tempo, credimi, che quanto può farsi dall’arte e dall’astuzia verrà dalla donna praticato. Sono queste le ciarle di mio [265] nono; per me altro non vi dirò che una novella bene o male inventata, di cui riderò se mi riuscirà di farvi ridere. Un certo contadino prese avea in un bosco due pernici, e gonfio di se stesso stabilisce di manucarsele a pranzo. Vi gettava sopra dei sguardi di compiacenza, ed impaziente incamminandosi verso la cucina le spiumava la strada facendo. Giunto a casa dileguando di gioja, sorride colla moglie e le consegna la caccia. Quel pajo d’uccelli così nudi mutoli, e rappiccioliti, traforati da lungo ferro già lentamente si girano e si raggirano avanti al fuoco che gli arrostisce.

Girardo, il marito, come dabbene ed onesto parrocchiano, non men delle pernici amava il suo curato: pertanto da lui si reca con ansietà ad invitarlo alla festa, ma dilungando alquanto il ritorno già cotto era lo squisito arrosto. Elisabetta la moglie, ritirò dal fuoco le pernici, perchè era, se mai altra vi fu una valente cuciniera; ma il caso o il diavolo volle che certa pelle ben abbrustolita rimanesse attaccata allo spiedo, che di botto Elisabetta se la ingojò, come ciascun altro avrebbe fatto in simil caso. In codesta pelle così bene arrostita essa ritrovò un gusto, un odore, che le mise appetito di vedere e sentire se tutto [266] corrispondeva al saggio. Si piglia dunque la più bella delle due pernici, ne distacca una coscia, e se la mangia calda e fumante. Cospetto! ella dice; quale squisito sapore! Se così saporita è la coscia cosa sarà l’ala? E l’ala di botto fa la stessa fine: l’altr’ala le vien dietro, e così l’altra coscia, e tutta in fine fu disossata la pernice. Ma non viene ancora Girardo: la di lui moglie ha sotto gli occhi l’altra pernice ancor ben grassa e passuta. Elisabetta si sente una viva voglia di mangiarsela? Ma che? Sarebbe un’indiscretezza di due pernici averne mangiate due. Più modesta, e più discreta essa le taglia il collo, lo fiuta . . .  quale fragranza! Essa lo assaggia. Qual sapore! Oh! questa sì, vi scommetto, è più buona il doppio che non l’altra. Diceva ben Essa il vero, ma per assicurarsene la femmina ne assaggia un tantino, indi un poco più, finalmente a forza di assaggiarne se la mangia bella intiera.

Appena ebbe finito questo importante affare, nè avendo il di lei ingegno apparecchiata la risposta da farsi, ecco che il Consorte ritornando avvisa che viene il Curato. Ebbene, egli gridò, è cotta o moglie mia la selvaggina? Ah non me ne parlate, ella sospirando rispose; io mi sento morire; un gatto scellerato; il più maledetto fra i [267] gatti si portò via le nostre pernici. -- Eh! sì un gatto! Come sarebbe a dire, gridò Girardo furibondo? Egli si avventava a cavar gli occhi a sua moglie, quando Elisabetta . . . Eh via, l’ho detto per ridere. -- Sì per ridere, o stordita, e che? non te ne accorgi ancora? -- Io mi pigliavo spasso: colà sono le due nostre pernici: non è brucciata pur una, ma ho coperto il piatto affine di mantenerlo caldo. In buon ora disse Girardo, altrimenti te le faceva pagar più care che al verzaro: almeno mi preparava a caricarti di bastonate: ma il Signor Curato è già in istrada: fa presto, fuori la più bella biancheria. Allegramente! Per star meglio ci adagieremo in giardino: mi piace una sala verde, mangeremo sotto una pergola. -- Benissimo. Mentre apparecchio il resto, va intanto o Girardo ad arruotare il coltello: egli n’ha molto bisogno. Io già vi pensava, rispose il marito, e discende in corte, e mette in terra la guarnaccia, indi aprendo il coltello lo gira a dritta e a sinistra in varie guise sull’agitato dorso della stridente mola per aguzzarlo.

Intanto arrivò il Curato, cui la speranza di far galloria aveva renduto più allegro dell’ordinario, e abbracciar vuole la moglie di Girardo. Eh! mettetevi in salvo, ella gli disse, non è tempo di [268] ridere: mio marito sta per venire di sopra; s’egli meco vi trova, voi siete perduto. -- E che? Siete voi matta? Che volete voi dire? Io vengo per mangiare con voi due pernici là giù sotto la pergola: mi ha pregato egli stesso. -- Mettetevi in salvo, io vi dico, è questi un pretesto che si pigliò: pretende colui di tagliarvi amendue le orecchie: voi quì non vedete già nè pernici, nè perniciotti, ma osservatelo giù nella corte come arruota il suo coltello. A queste parole la paura entrò quali di un salto nel cuore del buon Piovano: egli si mette a fuggire, e ad Elisabetta allora domanda Girardo. -- Cos’hai, moglie mia? -- Eh! io ho che il Signor Curato si acchiappò ambedue le pernici, e se ne fugge a gran passi; se tu presto non gli corri dietro resteremo a bocca asciutta. Girardo senza deporre il coltello corre precipitoso alla di lui volta per ricuperare il supposto latrocinio. Il Curato vedendo alle spalle Girardo che lo inseguiva col coltello fra le mani, levò il galoppo verso la sua casa parrochiale [sic] , e così andarono ambidue per lungo tempo, e per gran tratto, uno vomitando ingiurie e minacce, l’altro in procinto di morir sulla strada di paura: ma il Curato per buona ventura, avendo avantaggiato di corso il nemico entrò in casa, appuntellò la por-[269]ta, e lasciò sulla piazza Girardo ad esalare la rabbia. Dentro le domestiche mura il Curato si sentì risvegliare il coraggio e l’orgoglio, e ripigliando un autorevole tuono di voce lo sgridò dalla finestra: ma Girardo esso pure non finiva di gridare; e che, gli disse, perché ambidue voi li volete. -- Sì affè le voglio, rispose il Piovano, sempre credendo che la collera del villano avesse di mira le sue orecchie – Come voi taner le volete ambidue? Ah facciamo, ve ne prego un’amichevole convenzione -- In qual maniera? Accordatemi . . . . Ah! di grazia datemene una almeno – Nò per Bacco. E chiude insieme sdegnoso la finestra: l’ostinato Girardo lo supplica con alte grida, che gli dia la più piccola; ma viene costretto di ritornarsene a casa senza risposta, e senza pernici.

La donna seppe in tal guisa sottrarsi allo sdegno del marito: però ben presto si rischiarò l’avventura; ma chi sa schivar il momento della collera viene più facilmente prescielto: il raggiro mi è sembrato sottile, ma in somiglianti affari ebbero le donne per quanto si dice degli avvenimenti si costanti, che volendosi prestar fede a certe persone, dobbiam credere che codesta scaltrezza oggidì sia famigliare, come già fu nei passati tempi. ◀Exemplum ◀Ebene 3

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[270] Enimma III.

Una povera cieca miserabile,

Che taciturna ognor rassembra estatica,

Antica di natura, e variabile,

Oscura di natal mezza lunatica:

Pigra, oziosa, e alle opre illustri inabile,

Ma in affari d’amor maestra pratica

Sempre nel mondo inganni e inciampi semina;

Eppure ha mille Amanti questa femmina.

Quello accennato nel passato N. VIII. ha per significato la Donna. ◀Ebene 3

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Enimma IV.

Quanto son grave al sen di chi mi porta,

E quanto son legger quando son nato,

Dove il desio mi guida, e mi trasporta,

Corre acceso, e veloce al par d’un fiato:

Veggo talor la speme altrui risorta,

E senza lingua il favellar mi è dato:

Son forier di contenuto, e di dolore

E ben m’intende chi conosce amore. ◀Ebene 3

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[271] Parruche singolarissime.

Al Numero 37 del Corriere d’Europa dell’anno pr. sc. 1786 leggesi che un Parruchiere di Dublino ha fatto annunziare in quei Pubblici Avvisi un articolo assai curioso riguardo la propria abilità, e perizia, dicendo, ch’Egli è capace di dare un’aria di solennità, e molto seria alle Parruche Ecclesiastiche: un’aria di sagacità a quelle con nodi alle persone di Legge: a quelle di Professori di Medicina un carattere di gravità, e di riserva, che annunzia la più profonda scienza: egli aggiunge alle Parruche de’ Militari il così detto Riccio Animato, che fa prendere a chi le porta la fiera guardatura d’un Guerriero: Non mancano le Parruche proprie per la galanteria: vi sono quindi i ricci cascanti, ed appassionati; gl’intraprendenti, ed arditi; i sofferenti, e rispettosi ec. ec. Ha poi immaginato ad uso de’Cittadini, e Trafficanti una Parucca economica, la cui coda potrà togliersi, e mettersi a piacere: tali Parruche potranno servire a due oggetti; per li giorni di travaglio, e per quelli di comparsa. Inoltre per commodo de’ giovani Avvocati ha inventato delle Parruche, i cui ricci potranno [272] esser chiusi, e ristretti nel loro catognan in tempo delle ferie, e sciogliersi, e rimettersi nello stato di prima al riaprirsi de’ Tribunali. ◀Ebene 3

Amena letteratura.

Sua Eccellenza Niccola Beregani Patrizio Veneto, e Senatore ha scritto, com’è noto, eccellenti Poesie. Furono queste date ora alla luce da mano rispettosamente amorevole, e stampate a Padova dal Conzatti. V’ha fragli altri un Sonetto che riguarda anche il nostro Sesso; ed è all’incomparabile Augusto Imperatore Giuseppe II. Re, ec. ec, che viaggiando riconosce, e felicita i vasti suoi Stati, ed onora gli altrui, mentre non ammette né favor di donne, nè poter eccedente di Cortigiani.

[273] Ebene 3► Zitat/Motto► O Nuove Sole, che rischiari il Mondo

Mentre lo scorri con rapido giro,

E’l suol riempj [sic] di vigor fecendo,

Di quell’Altro benigno al par Ti ammiro.

Ma più: che Te non vedrò mai sospiro

(Febo tue debolezze io non ascondo)

Per Dafni trar, ond’aspro ebbe Ei martiro

Nè dar tuo carro a chi’l ruini al fondo.

Tu non curar fu i perigliosi vezzi:

Tu fai pesar d’ognun forze, ed ardire:

Teco è virtù, seco ogni froda sfidi.

Qual Donna, o Dea sia mai, che non delire

Per Te d’amor? Ma amor saggio Tu sprezzi

Qual Genio sia che Tuo gran Genio guidi? ◀Zitat/Motto ◀Ebene 3

Di un Sovrano Eroe del nostro secolo si pubblica ora la Vita in 4 tomi, e non per associazione, dal Negozio Pitteri à S. Canciano unito al S. Francesco Sansomi Stamp. Veneto; ed è di Federigo II. Re di Prussia ed Elettore di Brandembur- [274] go. L’Editore risolve pienamente le obbiezioni alla arditezza di voler dar una tal’opera, mentre sono, per così dire, ancora fumanti le ceneri del grand’Uomo. La prima si è che con tante celerità non possa uno Scrittore procurarsi tutti i fondamenti opportuni; l’altra, che dovendo parlare di Personaggi ancora viventi, sono indispensabili tante reticenze, che possono rendere o oscura, o non imparziale la storia. Fortunamente [sic] però avendo egli rilevato, che uno Scrittore noto per altre Opere di simil genere fino dal 1779 andava raunando Documenti con regolari corrispondenze, onde scrivere una tal vita, esso Editore si procurò dunque quell’Originale, e quindi lo pose sollecitamente sotto al Torchio. Circa all’altra difficoltà, versato essendo il Scrittore della vita medema da più di sei lustri in opere di egual genere, pubblicate e ristampate da differenti Torchi, anche Oltramontani, non che di sua regolare avvedutezza dando annuali saggi nella Storia appunto dell’Anno ch’esce dalla sua penna da già quindici anni continuati, perciò ben a ragione può credersi che un tale Autore non sia per cadere in ommissione alcuna, o per troppi riguardi o per mancanza di Arte Storica.

Una difficoltà circa alla qualità dello Scrittore po-[275]trebbe pur farsi, ed è ch’essendo egli Italiano, ben poco può saperne di un Sovrano, di una Corte, e di fatti Tedeschi. Cadde da se stessa anche questa Critica preventiva all’opera. Voltaire non era nè Russo, nè Svedese, pure scrisse le vite di Pietro I, e di Caro XII, Laugier non era Veneziano pure scrisse la Storia della Repubblica Veneta; Tito Livio era Padovano, e scrisse il pezzo più interessante della Storia Romana, altri avendone scritti e prima, e dopo non già Romani, ma Greci Scrittori.

Posto ciò, palesiamo l’Autore (abbiatene egli a bene, a male) Egli si è il Sig. Domenico Caminer, che nella sua Opera non solo detagli a le guerre, ed i tratti Politici del Gran Federico, ma altresì la Vita Privata, e singolari Aneddoti del Mecenate, e Protettore delle Scienze, e Belle Lettere; il tutto convalidato da classici Documenti, L’Opera è adornata di Ritratti in rame, di scelta Edizione non dimeno si venderà a sole tre lire al Tomo.

Notizie nè politiche nè letterarie.

Ci scrivono da Parigi un’avventura, cui nel suo genere non è affatto, nè è rara. Pur troppo succedono, quando noi altre femmine ci vogliamo dare un’aria di faccenti.

[276] Ebene 3► Allgemeine Erzählung► Una Dama del Liceo1 incontrò un’amica, che voleva trascinarla dalla sua Mercantessa di mode per vedervi un capello di nuovo gusto. La giovine Liceena si ostinò a ricusare di portarvisi, adducendo per iscusa, ch’ella andava alla lezione della Harpe2 . Come della Arpa, soggiunse la amica? Si suona dunque questo strumento? Non già, non già, replicò l’altra. Così chiamasi un’Accademico, cui insegna il gusto della letteratura al Liceo. Addio vado ad udirlo; oggi parla sopra le pelotes, e le poupees (corselli, e bambole.) Anche la Signora Letterata aveva però preso un granchio ben grosso. Il Professore doveva parlare al suo auditorio di Plauto, e dell’Epopea. Ecco però un terribile epigramma contro il nostro Sesso quando è fanatico per farsi credere un bel spirito. ◀Allgemeine Erzählung ◀Ebene 3 Io sono ben persuasa, che quelle due Signotine non hanno letto, nè veduto rappresentare la Commedia delle Femmine Letterate di Moliere, e che non la leggeranno, nè vorranno veder-[277]la. Quanti difetti ha il nostro Sesso! Quanto però sono facili da correggerli? Quello, cui la suddetta avventura ci rimette alla vista non è per altro raro nemmeno in voi uomini. La occasione della Maschera mi conduce qualche volta a più frequenti Caffè. Oh quante ardite sciocchezze! Oh quai scimuniti che tentano d’imporre, e si credono persuasi di loro riuscita con tutti quei che gli ascoltano!

Avviso del mio Corrispondente Giornalista delle Mode, e di cui saprò bene approffittarmi.

Metatextualität► In avvenire non solo si daranno le nuove Mode di Francia, ma altresì quelle della Inghilterra, e perciò facciamo spedirci mensualmente il Thè Fashionabbe Magazine, cioè Magazzino delle mode Inglesi. Tutto ciò, ch’è relativo agli abiti, ai costumi, ed all’abbigliamento de’ due Sessi; ai mobili, al gusto, alla forma delle vetture, ed a tutti i lavori di bijouteria formerà la principal base del nostro Giornale. ◀Metatextualität

[278] Teatro.

Siamo al Carnovale, eccoci a nuovi Teatri, ossia nuove considerazioni. Non è certamente fuor di tempo quella, di essere ben meschine cose i generi d’applausi, che ora ricevono tutti quelli, che concorrono a divertirci sulle Scene! Sonetti, ed altre più seccanti Poesie! Perchè? Solamente perchè il Signor Virtuoso si gonfj, e controregali, o ciò faccia il Protettore della Signora Virtuosa. Tamburri, trombette, fuochi di gioja ne accompagnano alcuni, o alcune dopo la rappresentazione alle loro Case. Perchè? Perchè alcuni affammati, che non hanno veduto nè l’Opera, nè la Commedia, vogliono una mancia. L’Uditorio vuole a forza di sbattimenti di mani, che Attori, Compositori, ec. si presentino, e ne sieno sempre spettatori. In tal modo l’uditorio rappresenta una Burletta, ed i Signori Virtuosi hanno l’onore d’inchinarsi. Infelice quel Scenico Personaggio, che abbisogna di tali dimostrazioni, ora miserabili, una volta profuse al solo vero merito! Pure alcuni ne sono ebbrj, e perfino ricorrono a’Scrittori delle Gazzette, onde gli lodino a dritto, ed a rovescio! Non possono pertanto gli esteri dalla Città amanti delle [279] Rappresentazioni sapere se il lodato Personaggio sia Virtuoso, o nò, e sia nemmeno tollerabile. Tali riflessi, (ben ci accorgiamo) sono quelli altresì del Scrittore del Nuovo Postiglione, e ben ciò si conosce dall’articolo datoci nell’ultimo Foglio dell’anno pr. fc.

Fortunatamente poi Venezia ebbe nell’Autunno, ed ha questo Carnevale Soggetti, che non abbisognano nè di Tamburri, nè di Sonetti, nè di Evviva Uditoriali, nè di mendicare altre lodi. Fragli altri il Sig. Gaspare Pachiarotti, sempre commendabile, e la Signora Cecilia Giuliani nell’Opera Seria meritano certamente elogj [sic] sinceri. Non crediamo ingannarci nel supporre, che il celeberrimo Metastasio stesso si sarebbe compiaciuto di vedere eseguite le Parti principali del suo Demofoonte da que’due Soggetti.

Nel Teatro a S. Samuele abbiamo graziosissimi Balli, ben composti, e ben’eseguiti dal Mussarelli. Il primo è l’Impostore punito, e questo è Maometto, ed il secondo le Barruffe Chiozzote del gran Goldoni. Ecco per altro un’altra osservazione. Come Diamine il Ballo, che non deve avere altro oggetto sennon di divertire, rappresenta omicidj, assassinj ec. ec. Il Sceriffo della Mecca viene ammazzato dal proprio suo figliuolo. Questo [280] muore (eccellentemente convulsivo) avvelenato da Maometto, e questo pure è accoppato da una Saetta. Noverre, Noverre! Tu hai molto raigliorati i Balli Teatrali, ma hai molto assassinata la Tragedia! I tuoi esemplari sono molto male imitati!

Nel Teatro a S. Moisè abbiamo l’Opera bussa l’Amore incostante del noto Sig. Bertati. Buon libretto, buonissimi la Musica del Gazzaniga, ed i primi Attori. Vengono applauditi a tuttissima ragione. Che folla! Che meritata folla ogni sera!

Due altri Teatri abbiamo di Commedie, ma finora nulla di nuovo.

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La gamba di legno.

Allgemeine Erzählung► Il giovine Marchese di F. venne a ritrovarmi, ed appena gli dissi, che non aveva verun impegno in tutto quel giorno, egli volle ad ogni patto, che me ne andassi seco lui a pranzare nella sua casa di campagna donde potevamo ritornare in Città per il Teatro.

Avevamo appena fatto tre miglia quando all’ombra d’una pianta in qualche distanza del sentiero o viddi da lontano un giovane di bella presenza, [281] ed un vecchio uniforme ch’era assiso sull’erba e si divertiva suonando il violino. A misura del nostro avvicinarsi ci accorgeremo ch’egli aveva una gamba di legno, di cui una parte giaceva al suo fianco stritolata in varie scheggie.

Che fate voi qui o soldato, gli disse il Marchese? Signor Ufficiale, gli rispose il soldato, io sono sulla strada del mio villaggio. Ma povero galantuomo, ripigliò il Cavaliero, volete voi ben molto stare in cammino, se non avete altra cavalcatura che codesta, segnando a dito i pezzi della di lui gamba di legno. Io aspetto il mio equipaggio, e tutta la mia compagnia, soggiunse il soldato, e mi inganno assai se non la vedo io questo puuto [sic] .

Noi vedemmo di fatti una specie di cocchio trascinato da un cavallo in cui v’erano una donna giovine, ed un villano che guidava la vettura. Nell’intervallo di tempo che impiegarono a raggiuogerci, il soldato ci raccontò, com’ebbe in Corsica un colpo di fucile, onde venne obbligato al taglio delle gamba; che prima di partire per quell’infelice impresa aveva egli stretti degli impegni con una figlia del suo vicinato; che dilazionate s’erano le nozze al di lui ritorno; ma che quando si presentò colsa gamba di legno, tutti i parenti della giovine si erano opposti al loro nodo. La ma-[282]dre della Sposa ch’era la sola da cui essa doveva dipendere, allorchè cominciò egli a farle la corte, aveva mai sempre pigliato il suo partito, ma era morta la pietosa fautrice nel tempo di sua lontananza. Sia ciò che si voglia, la Sposa fedele mantenuto gli aveva il costante effetto, e fatte le più vive accoglienze, ed acconsentito ad abbandonare la famiglia per seguitarlo alla Città, donde risoluto aveano di recarsi nel suo villaggio col mezzo di qualche condotta, ed ove vivea il di lei genitore. La mia gamba di legno in questo punto mi si fracassò, il che ha obbligato la mia moglie a lasciarmi affine di ricercare qualche comodo per trasporportarmi [sic] alla prima terra, dove mi si rinnovi la gamba. È questa una disgrazia, Signor Ufficiale, che sarà ben presto riparata, ed eccovi la mia Amica.

La giovine si slanciò dalla carrozza, afferrò la mano che le stendeva l’Amante, e gli disse con un sorriso pieno d’affetto, ch’ella aveva ritrovato un eccellente artefice che s’era impegnato di fargli una gamba a tutta prova, che questa sarebbe stata allestita per l’indomani, e ch’eglino potrebbero ripigliare a loro grado il viaggio. Il Soldato accolse da passionato Amante le affettuose premure della sua Sposa. Era questa una giovane [283] che dimostrava venti anni in circa: era avvenente, grande, e ben fatta; gli occhi ed il portamento promettevano del sentimento, e dalla vivezza. ◀Allgemeine Erzählung ◀Ebene 3

Metatextualität► (Il Fine nel Libretto prossimo.) ◀Metatextualität

Gabinetto delle mode di Francia.

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Tavola I.

Fremdportrait► Ad Ognissanti si presero, gli abiti d’inverno. Il raso fu l’abito di moda delle donne, come lo è già da gran tempo. Ci sembrava che dovesse dominare il color soglio, il violetto, o il verde carico; ma si viddero molti abiti di raso a righe verdi e violette, che portano il vanto sopra le atre due qualità. Con tutto ciò queste ultime non annientano la moda delle prime, di cui sono un composto: non fanno che andare sull’ordine istesso lasciando libera la scelta. Tutte tre possono essere successivamente portare dalle dame, che non si limitano ad un solo abito.

[284] Bisogna convenire che il verde carico ed il violetto sopra una stessa stoffa si uniscono per così dire benissimo, e si rendono all’occhio assai omogenei: per conseguenza è impossibile che non si adattino alla figura, e non facciano risaltare perfettamente la carnagione di quelle che lo portano.

Questo effetto è sensibilissimo nella Dama qui rappresentata: riceve essa dal suo abito un gran lustro. Eccola: la sua veste è fatta a la Turca: è di raso a righe violette e verdi: le maniche, ed il corsetto sottoposto alla veste sono di un raso color di coda di canarino.

La sottana è di raso bianco soglio dentellato nelle sue estremità.

Le maniche della veste sono guarnite di manichette a due giri di garza guarnita di blonda.

La Dama porta al collo un fazzoletto di rasetto bianco guarnito di una blonda attaccata davanti con una spilla d’oro, la di cui testa rappresenta una medaglia.

Le scarpe sono di raso simile a quello dell’abito, con falbalà, e guarnite d’una piccol rosa di nastro a due larghe righe violette e verde.

La sua pettinatura è tutta fatta a ricci, due dei quali più grossi degli altri staccati vanno a di-[285]scenderle flottanti sul seno. I capegli di dietro sono rilevati in un grande chignon molto basso.

Porta dei braccialetti, le di cuì medaglie sono circondate di diamanti.

Sulla testa ha posato un bonnetto alla Turca. La parte inferiore di tal bonnetto forma una specie di larga benda fatta di velo bleu ornata superiormente da una blonda. La parte superiore montata in alto è una garza Inglese a piccole puntine o a piccoli disegni. Questa partita superiore è di dietro assai gonfia, e le estremità della garza, da cui viene composta, cadono pure di dietro in varie punte. Alla destra è ornato il bonnetto da due piume bleu con puntine color di fuoco, e con un mazzetto di fiori artefatti.

Non sarebbe del tutto sorprendente, che questa nuova forma di bonnetto, che si confà sì bene alla figura, e le dà molt’anima e libertà facesse spariee per qualche tempo tutti i capelli di paglia foglj, ed i bonnetti fatti a cappello che ne estinguono tutta la vivacità.

Se i cappelli convenissero egualmente a tutte le donne, se li portassero tutte egualmente, noi ci guardaressimo dal criticarli, e di trascurarne l’uso; ma veramente da poche sono essi ora adottati. Tutte le donne di piccola statura devono [286] esigliarli, perchè fissando la vista precisamente a tale altezza le fanno comparire ancor più piccole. Se le donne grandi non sono perfettamente belle, se non hanno un bell'occhio che brilli disotto a tali cappelli, devono esse pure privarsene perchè le sanno comparire brutte, non si sviluppa tutta unita la figura, e le piccole bellezze restano nascoste.

Non credasi nò, che l’abbandonare questi cappelli di paglia, o i bonnetti fatti a cappello sia per le donne una gran perdita per ritornare ai cappelli guarniti di piume. Questi si collocano in maniera di lasciar vedere intiera la faccia; oltredicchè i gran bonetti montati allungano la corporatura, e riescono d’un’eleganza, che da tutte le donne non se ne conosce il vantaggio. ◀Fremdportrait ◀Ebene 3

Ebene 3►

Tavola II.

Fremdportrait► Qual è quell’uomo che vedendo una donna per di dietro con un bel portamento non corra subito davanti per vederne la figura? Chi non è sedotto dall’eleganza d’una giovane, o d’un uomo che non si è ancora veduto in faccia? E dunque assai importante di rappresentare anche una donna visibile al dorso per vedere se il di lei abbigliamento faccia un buon effetto.

[287] Non si può negare che il redingotto che porta la donna quì raffigurata non prenda perfettamente la taglia, e non s’allunghi piacevolmente sino ai taloni. Tutto è fino; tutto è largo, tutto è morvido [sic] nel suo composto: il busto è svelto, le braccia ritonde, e ben pieghevoli.

Il redingotto a due colletti, e colle maniche alla marinaja è d’un panno verde d’acqua a grande di mosche verdi più cariche.

I bottoni alle faccoccie, alle maniche, e sui fianchi sono di metallo dorato foglio.

Porta al collo un ampio fazzoletto di garza per davanti assai gonfio.

La pettinatura è in ricci, due dei quali più grossi cadenti sul seno. Di dietro i capegli restano flottanti à la Conseillère e collegati più sotto del collo con un largo spillone à la Cagliostro.

Sulla testa ha un cappello feltrato color di coda di canarino guarnito intorno al bordo di un folto, e lungo pelo di castoro naturale formante una piuma; e intorno alla testa due nastri color di rosa componenti insieme di dietro un grosso gruppo coll’estremità del nastro cadenti a capriccio.

Tiene con una mano una piccol cannetta [288] guarnita di un cordone di seta nera con due drappi.

I redingotti che le donne portano adesso in grande quantità sono di panno verde dragone con larghi bottoni dorati. ◀Fremdportrait ◀Ebene 3 ◀Ebene 2

Tavola.

Delle Materie contenute in questo IX. Numero.

L’Impero della Natura Pag. 259

Aneddoto Storico-Galante 264

Le Pernici. Novella ivi

Enimma III, e IV 270

Parruche singolarissime 271

Amena Letteratura 272

Notizie nè politiche nè letterarie 275

Avviso del mio Corrispondente Giornalista delle Mode, e di cui saprò bene approffittarmi 277

Teatro 278

La Gamba di Legno 280

Gabinetto delle Mode di Francia. Tavola I 283

Tavola II 286 ◀Ebene 1

1Quanto il presente Liceo Parigino è dissimigliante dall’Ateniese! Qual’usurpo di denominazione!

2Notissimo anche all’Italia per le ottime sue Poesie, ed altre Opere.