Principe, e che il Governo, ch’è indivisibile, tocchi al solo
primogenito, perchè non venga a sciogliersi la Monarchia, e da possente ch’essa era ridursi in
piccoli Principati, preda sicura d’un vicino più grande. Ma la cosa và diversamente nelle famiglie
private. Abbandonansi da ridicole leggi alla miseria i Cadetti in una Casa dove siavi primogenitura,
e rendonsi vittima alla felicità del primogenito. E questo dirassi mantener la Casa in lustro? Cosa
è mai questa Casa, e questo lustro? Pel nome di Casa, credo doversi intendere non il solo
primogenito, ma i membri tutti d’una famiglia: E per lustro d’una Casa io intendo gli agi, e le
ricchezze distribuite nei componenti della Casa. Conservasi forse il lustro d’una famiglia rendendo
infelici i Cadetti, per caricare di ricchezze quello che ha avuta la sorte di nascer prima? Allora
solo dovrassi chiamare una famiglia ricca ed illustre, quando una facoltosa sostanza sia, più
egualmente che si può, distribuita ne’membri della famiglia; quando tutt’i fratelli siano messi in
istato di vivere comodamente, di scegliersi ciascuno una Sposa, e di dare alla Patria de’Cittadini.
Pare che l’uso della Primogenitura sia incompatibile colla mira della popolazione, che pur
dev’essere la principale. Chi asserisse, che divise le sostanze tra molti fratelli, nissuno d’essi
si crederebbe in istato di caricarsi dell’ormai eccessiva spesa del mantenere la
Moglie, e che per voler dare moglie a tutti, tutti si ridurrebbono alla impossibilità di prenderla;
questi mostrerebbesi ben poco pratico de’principj delle scienze economiche; poichè allora il lusso
si diminuirebbe a proporzione della ricchezza de’particolari; ed in vece che la Moglie del
primogenito ha più cocchj, e più paja di cavalli, e più paggi, e più servidori al suo comando, non
avrebbe nella mia ipotesi che una carrozza, ed un discreto numero di servi, quanto appunto ne
manterebbono gli altri fratelli, non richiedendo il ben pubblico, cioè la maggiore felicità
possibile divisa colla maggiore egualità possibile, che un Nobile abbia venti cavalli, dieci
car-rozze, trenta servidori ec. Qual maggior disordine (per quanto a me sembra) autorizzato dalle
nostre leggi di quello, che un figlio che trovisi beni Fedecommissarj possa impunemente defraudar’i
Creditori del Padre col ripudiarne l’eredità? Questo mezzo d’arricchirsi a danno altrui, e di
burlarsi de’Creditori, e dell’onestà è ormai divenuto sì comune, che niente perde della sua
riputazione chi se ne serve. Cosa dirà mai il povero Creditore schernito e ridotto alla povertà nel
vedere il suo Debitore strascinato indolentemente in dorate carrozze, sfoggiare livree superbe, dar
sontuosi banchetti, e vivere deliziosamente? Dirà, che questo è un’aperto insultare a’principj tutti
della Morale, e della Legislazione; ch’egli è una manifesta violazione del patto sociale; che ben
vedesi da chi siano fabbricate coteste leggi, che tutto l'avvantaggio danno al Nobile, ed in preda
gli abbandonano il Plebeo. Dirà che i denari, co’quali il Nobile appaga i suoi vizj, stipendia i
servi, convita gli amici, è tutto denaro ad esso rubbato; che per queste frodi, mentre
chi ha dichiarato fallito il Padre, vive nel lusso, la povera sua famiglia giace squallida nella
miseria; che egli ha dovuto interrompere i suoi traffichi, ch’è costretto a pagare a chi doveva, non
ha potuto esigere da chi gli era debitore. Altro dunque non sono i fedecommessi, e le primogeniture,
che un ritrovato per sorprendere i Creditori, e defraudarli. A che altro mai servono, che a
fomentare l’ozio, ed a rendere inutili, anzi perniciosi alla Patria que’Cittadini, che avendo
dinanzi gli occhi i virtuosi esempi de’loro gloriosi Antenati, dovrebbero più degli altri esercitare
la virtù per non essere creduti degenerare da’loro Maggiori? A che giovano le primogeniture, che a
render ineguali quei che hanno un diritto eguale a’beni paterni; ed i fedecommessi, che ammassando,
e conservando i beni in una famiglia, ad accrescere la disuguaglianza delle fortune tra i Cittadini?
Fingasi il territorio d’una Nazione esteso di cento mila pertiche; di queste sia la metà sottoposta
a’fedecommessi, od altri vincoli, ed in mano di cinque o sei famiglie. Lascisi la facoltà
a’Testatori di toglier la libertà al resto de’beni col vincolo del fedecommesso, od altro. E’ certo
che in poco tempo tutte le sostanze saranno inalienabili, che tolto sarà l’adito all’industria, che
i soli ricchi saranno i Cittadini, il resto del popolo languirà nella miseria, e nella schiavitù,
tanto più detestabile, quanto che non vi sarebbe mezzo per redimersene. I Politici del secolo
addietro avevano più in mira il presentaneo utile del Principe, che’l suo suo vero interesse, che
non va mai disgiunto dalla felicità de’popoli. Purchè i fondi non andassero esenti dal pagare
tributo al Sovrano, loro poco importava se accumulati fossero in poche famiglie, se
vincolati, ed obbligati ad arricchire perpetuamente una famiglia. Adesso però che lo spirito
filosofico s’è molto esteso, che le Potenze tutte considerano il Commercio, l’agricoltura,
l’industria, la popolazione de’Sudditi come oggetti importantissimi; adesso che più che colle armi
si fa una vivissima guerra d’industria da Nazione a Nazione, dovrebbero le Leggi stendere le loro
mire a far fiorire queste sorgenti della ricchezza d’una Nazione, e prendervisi con tutt’i mezzi. È
vero che alcuni Pubblicisti stimando i fedecommessi, e le primogeniture contrarie al buon governo
delle Repubbliche, le asserirono però necessarie in una Monarchia per conservarvi il lustro della
Nobiltà da loro stimata indispensabile. Io quì non esaminerò, se negli Stati Monarchici sia
necessaria la Nobiltà ereditaria, quale sconosciuta nel resto del Mondo, è in uso nella sola Europa;
solo dirò, che parmi strano che il bene d’una Monarchia esiga, che un fratello viva nell’opulenza,
gli altri non abbiano come maritarsi, come appagare que’desiderj, che la loro necessità, ed
educazione ha convertiti in veri bisogni; parmi strano che in una Monarchia sia necessario che un
Cittadino faccia de’debiti, e non li paghi, allegando che i suoi beni sono fedecommissarj; parmi
strano che in una Monarchia si richieda una somma disproporzione di fortune, e che i Nobili vivano
oziosi. Se ciò fosse vero, avrebber avuto certamente torto quegli Scrittori, che hanno tanto
esaltato il governo Monarchico sopra ‘l Repubblicano.
Metatextualité
Per quanto sia
rispettabile l’autorità di Montesquieu, e benchè io pensi di trattar’altra volta della Nobiltà, pure
stimo indispensabile il doverne qui dire qualche cosa, perchè que’che leggeranno questo foglio,
abbagliati dal nome di quell’illustre Autore, non abbiano a credere piuttosto alla di
lui asserzione, che alle ragioni che l’abbattono.
Pone dunque per fondamento il Signor di
Montesquieu, che l’essenza della Monarchia richiede un’autorità intermedia, cioè dei canali pei
quali operi il Monarca. Dice in seguito, che questo potere intermedio dev’essere la Nobiltà, poichè
dove non v’è Monarca non vi può essere Nobiltà (1)
1; e tolta la
Nobiltà, è distrutta parimente la Monarchia, ed introdotto in vece o ‘l dispotismo, o lo stato
repubblicano (2).
2Richiede in oltre
nella Monarchia un corpo depositario delle Leggi, quale per sua confessione non può essere la
Nobiltà per la sua ignoranza, ed indolenza, nè meno il Consiglio privato del Principe. Asserisce,
che essendo l’onore il mobile degli Stati Monarchici, le leggi debbonvi proteggere la Nobiltà,
debbono renderla ereditaria, perchè serva di vincolo tra l’Principe, e ‘l Popolo; che però è
necessario ammettere le sostituzioni per conservare i beni nelle famiglie, e ‘l diritto di
ricomperare i già alienati: Che queste prerogative devono accordarsi alla sola
Nobiltà; Che è bene per i sopraddetti motivi permettervi il diritto di primogenitura. Riconosce
però, che le sostituzioni impediscono ed opprimono il Commercio; che il diritto di ripetere i fondi
fedecommissarj è la sorgente d’infiniti litigi; che i privilegj annessi alla Nobiltà sono d’un
eccessivo carico per il Popolo. Mostra dappoi, coll’esempio della Francia, e dell’Ungheria, che la
Nobiltà, quale esso la vuole, è il più saldo sostegno della Monarchia; che perciò il corpo de’Nobili
dev’essere ereditario (1).
3 Ardisco dire, che il Signor di Montesquieu
in ciò, come alcun’altra volta, ha piuttosto avuto in vista la costituzione della Francia, che gli
universali principj del diritto Pubblico. Forse una esatta definizione delle due voci Onore e
Nobiltà avrebbe resa questa materia più chiara (2).
4 Io stimo che l’essenza d’una Monarchia consista in ciò, che
siavi un corpo di Cittadini depositario delle Leggi, e che fissate queste Leggi, possano i
Magistrati eseguirne la determinazione costantemente e liberamente. . . . . . Per altro conveniva
distinguere tra potere intermedio, e ranghi intermedj, perchè anche il Tiranno non potendo operar
tutto da se medesimo, è obbligato ad avere dei canali per i quali passi la sua autorità. Nella Monarchia adunque non pare indispensabile, che vi sia uno stato di persone distinto dal
Popolo, non già come esecutore della volontà del Principe, ma solo come immaginario vincolo tra esso
e il popolo. Questo vincolo non dev’esser altro, che Leggi fisse, chiare, certe, inalterabili, che
determinino, e contengano ne’giusti limiti l’autorità di ciascheduno. Il solo merito dovrebbe in
qualunque stato elevare gli uomini all’amministrazione della giustizia, ed alle cariche che lo
suppongono. Ma dato ancora che sia necessario ammettere una classe di persone distinte con
privilegj, ed animate dall’onore, che formino una specie di scala dalla Plebe al Sovrano, non vedo
in primo luogo come convenga rendere ereditario il diritto di tali persone a certe prerogative, cioè
come la Nobiltà si richieda ereditaria. Non basterebbe egli che fossevi un dato numero di Nobili in
maniera che la Nobiltà potessesi e perdere coll’ozio, ed acquistarsi colla virtù? Così tutti
potrebbero partecipare de’privilegj de’Nobili, e sussisterebbe questo grado intermedio. Non capisco
in secondo luogo, come anche nella Nobiltà ereditaria siano assolutamente necessarie le
sostituzioni, e le primogeniture, che pure, anche, secondo il Sig. di Montesquieu, si strascian
dietro tanti disordini. Ma quand’anche fosse vero interesse del Monarca il conservare la Nobiltà
ereditaria, non sarebb’ella bastantemente conservata conferendo ai soli Nobili le cariche della sua
Corte; col promoverli a preferenza degli altri nella milizia; col riservar loro certi onori, e
distinzioni; con ciò almeno non s’indebolirebbe il commercio, non si aggraverebbe il popolo, nè si
defrauderebbero i creditori; e col pretesto di favorire un Nobile, non si sacrificherebbero i suoi
fratelli egualmente nobili. Del resto le ragioni, e gli esempj addotti dall’Autore
dello spirito delle Leggi provano bensì, che la Nobiltà ereditaria senza giurisdizione, che riceve
unicamente il suo lustro dalla volontà del Principe, è il più saldo sostegno della persona del
Monarca. Ma dubito che se ne cavi, che questa Nobiltà faccia fiorire la Monarchia, e ne renda felici
i Sudditi. Vi sono de’Regni, che forniscono una prova costante di quanto io dico, malgrado
l’ampiezza delle Provincie, la felicità del clima, e la fertilità del loro terreno. Ma sia pure
necessaria in una Monarchia la graduazione delle condizioni, sia pure indispensabile la chimera
della Nobiltà; anzi sia cosa utile al ben pubblico il conservare l’antico lustro ad alcune famiglie
(cosa ch’io credo falsa); come dovremo noi agire per arrivare a questo fine? Forse rendendo oziosa,
ed inutile, e perniciosa eziandio la classe de’Nobili, con permettere, che le loro ricchezze siano
assicurate alla loro discendenza? O anzi col permettere che esercitino il negozio, e che
s’arricchiscano, arricchendo anche la Patria; col determinare che ‘1 Commercio niente deroghi alla
Nobiltà; coll’animar’anzi i Nobili al traffico, e correggere di maniera l’opinione del Volgo, che il
Negoziante non sia rigettato dall’esser ammesso nel corpo della Nobiltà; ed ammessovi non sia più
considerato come nobile di data recente, nè più serva di bersaglio a’motteggi de’Nobili anticamente
oziosi. Avvi un’altra specie di fedecommessi non meno assurda dell’altre, ed egualmente comune; e
sono i fedecommessi fiscali. Gli antichi Legislatori hanno creduto di prevenir i delitti col
decretare per loro pena l’intera perdita di tutte le sostanze del reo. Questi
Legislatori, non so come abbiano scordato, che i figlj del reo sono Cittadini innocenti, e che pare
che per il delitto del Padre non meritino d’esser ridotti da uno stato comodo alla più ingiusta e
compassionevole povertà. Io sono ben lontano dal voler diffinire, che questi Legislatori siano stati
mossi dal loro privato interesse a far cotali Leggi; anzi nè pure diffinirò se una tal Legge sia
utile o dannosa al Pubblico. Vedo ragioni favorevoli, e contrarie d’ogni parte, e non è mio carico
il doverne quì pesare la forza; ma poichè tal Legge esiste, e si suppone giusta, parmi che ogni buon
Cittadino vi si dovrebbe assoggettare. La Pratica però (nome da cancellarsi da’Dizionarj Legali a
pubblica utilità) dispone diversamente. Sogliono quasi tutt’i Testatori ordinare, che se un loro
discendente incorresse la disgrazia del Principe, s’intenda, un’ora prima della trasgressione delle
Leggi, spogliato dell’eredità, e questa devoluta al più prossimo parente; con che però il reo subito
rimesso nella buona grazia del Sovrano per diritto di Postliminio rientri nel possesso della
medesima eredità. Pare strano che si soffra una sì manifesta violazione della Legge; pare strano che
i Magistrati incaricati a far eseguire le Leggi giudichino in favore della validità di tali
disposizioni testamentarie. Tant’è vero, che la Giurisprudenza non ci offre per lo più che un
ammasso di contraddizioni, di sutterfugj, di sottigliezze. Tanta è la venerazione nostra per le
Leggi Romane, che abbiamo voluto adottarle, benchè incompatibili colle nostre circostanze; e tanto
può negli animi de’Giuristi l’avidità del denaro, che hanno saputo introdurre, ed autorizzare mille
finzioni per servirsene a deludere le Leggi da loro stimate le più salutevoli. Ma
vediamo noi forse, che questi vincoli di primogenitura, di fedecommessi operino ciò di che si
lusingarono i loro istitutori? Anzi l’esperienza c’insegna il contrario. Basta che uno voglia
scialacquare, che non gli mancano pretesti per carpire da’Giudici la licenza d’alienare; e per
questo il vincolo non ha servito ad altro, che a sottoporlo alla spesa di queste dispense; e così
arricchire i Curiali che hanno saputo sì bene raggirar le cose che alla fine da ogni parte e per
ogni cosa cola il denaro nelle loro borse. Chi è che non sappia quanto mai queste istituzioni
rendano spinosi e pericolosi tutt’i contratti? Sulla buona fede compro un podere, che a’miei nipoti
sarà coll’autorità sacrosanta delle Leggi involato da uno che produrrà una rancida carta, tarlato
testamento fatto varj secoli prima, nel quale chi possedeva quel podere ha disposto che non avesse a
sortire dalla sua discendenza. Quindi una scambievole universale diffidenza nel contrattare; quindi
mille frodi, mille litigj, e l’incertezza in cui uno sempre trovasi di vedersi cacciato dal possesso
d’una roba da lui comperata. E queste Leggi dirassi, che assicurino la proprietà e ‘l diritto a
ciascun Cittadino? Hanno ben veduto tutti questi disordini quegli antichi Curiali, che tanto
estesero la giurisdizione de’fedecommessi, e l’incertezza de’beni. Videro costoro che i fedecommessi
sono una perenne sorgente di denaro per se medesimi; che Baldo assicura aver guadagnato nel
consultare sulla sola materia delle sostituzioni fedecommessarie quindicimila scudi d’oro; videro,
che tolti i fedecommessi sarebbe distrutto il dispotico loro impero; che l’incertezza
della proprietà assicurava loro grossi salarj (1)
5; che tolti i fedecommessi sarebbero obbligati od a
servire colle armi la Patria, od a esercitare l’industria nel Commercio. Perciò, invece di giudicare
in caso di dubbio per la libertà de’beni, non v’è quasi testamento, nel quale essi non arrivino a
farvi sviluppare un fedecommesso in virtù d’una stiracchiatissima interpretazione di clausole
infinitanti, mente del Testatore, particelle d’orazione, avverbj stesi per lo più da un ignorante
Notajo, senza che v’abbia riflettuto il moribondo Testatore. Chi s’è qualche poco applicato al
nojosissimo studio dell’informe caos della Giurisprudenza, e letto que’seccantissimi Autori, che il
volgo venera come tanti Legislatori, avrà veduto i varj sensi, che si danno alle espressioni le più
chiare e limpide, ed i mezzi di sostenere in ogni cosa il prò ed il contro. Potrebbesi quì cercare
d’onde proceda, che i Testatori tanto siano inclinati a fondar primogeniture, e fedecommessi. Di
fatti poichè la morte spoglia gli uomini di quanto possedono, qual mai è il motivo che gli interessa
tanto a voler disporre delle loro sostanze anche per il tempo in cui non esisteranno?
A mio avviso questa ne è la cagione. Siccome essi hanno co’loro stenti accumulate le ricchezze senza
goderle, ne invidiano a’successori il libero godimento, vogliono comandar dopo morte, vogliono che
tutto seguiti a servire a’loro capriccj anche molti secoli dopo la loro vita; e poichè non giunsero
ad immortalare il loro norne colla virtù che disprezzarono, godono di conservare alcuna memoria di
sè ne’testamenti, e nelle intralciate continue sostituzioni d’eredi chiamati alla loro eredità. Ma
esprimano pur costoro quanto più sanno chiaramente la loro intenzione, ne manifestino i motivi,
aggiunganvi pene a’trasgressori, che tutto sarà indarno. La dubbia interpretazione a cent’occhi, e
cento facce offrirà un ampio campo a’Dottori di deludere i ridicoli loro comandi, mostrando di
volerli scrupolosamente adempire; sicchè nient’altro avranno guadagnato, se non che il loro nome
sarà ripetuto negli atti delle cause, stampato nelle allegazioni, deriso da’savj pensatori, e
venerato da coloro che fossero vili ed avidi ministri del loro interesse, piuttosto che delle Leggi
e della Giustizia. Se però alcuno vi fosse, che ciò non ostante stimasse questi mali irreparabili, e
piccoli sacrificj, e compense di grandi vantaggi, a questi io guarderommi di voler persuadere più
oltre, giacchè chi non vuol ragionare, nè merita, nè deve, nè può essere illuminato.
Metatextualité
Ho esposto fin’ora quale sia il frutto de’fedecommessi, e quanto male dalla
loro istituzione avvenga al ben pubblico. Parrebbe conveniente l’aggiungervi que’rimedj, che mi
sembrassero opportuni a torre questo disordine.
S’io dovessi parlare ad un Filosofo, direi,
che non vedo come nel patto sociale gli uomini si siano ragionevolmente riservata la
podestà di disporre de’loro effetti dopo la loro morte. Ciascuno in vigor di questo patto dev’essere
assoluto e certo padrone delle cose sue finchè vive, ma alla sua morte dovrebbe lasciar il carico di
disporre dell’eredità a provide Leggi che regolino le successioni, e le regolino in maniera più
chiara e ragionevole, che non fanno quelle stabilite ne’passati tempi, che sempre sono in
contraddizione o colla buona morale, o con se medesime. Un’Amico, un Parente, al quale vogliasi
esser grato, e si può, e si deve beneficare intanto che si vive, lasciata la libertà delle
donazioni: altrimenti esso non deve saperne buon grado al testatore, il quale non s’è mai voluto
privare del suo; ma sì bene la morte deve ringraziarsi; che abbia fatto venire l’unico caso nel
quale il morto volesse soddisfare a’suoi doveri; direi, che tolta la libertà del fare testamento,
col partaggio continuo delle successioni le fortune de’Cittadini si rimetterebbono sempre
nell’eguaglianza; che avremmo pochissimi Avvocati, Procuratori, Sollecitatori, Notaj ec, ma più
Negozianti e più Agricoltori; che anche i secondogeniti potrebbero ammogliarsi, e contribuire
onestamente alla popolazione; che il secondogenito non sarebbe per conseguenza la vittima d’un
immaginario lustro della famiglia rappresentata dal solo primogenito; che indarno si pensa a
togliere gli abusi, ed i vizj in una legislazione, se non se ne sradica la sorgente; che sembra
ridicolo, che un uomo comandi quando ha cessato d’esser uomo. Direi, che Solone proibì il far
testamento, poichè i Figlj ereditavan de’loro Padri, ed in loro mancanza i Fratelli, i Nipoti, i
Parenti possedevan le sostanze del morto; che appresso i primi Romani, più felici benchè non ancora
conquistatori, tanto era sconosciuto il testamento, che quel che voleva lasciare dopo
sua morte la roba ad un Cittadino, cui la Legge non l’attribuisse, doveva far un contratto di
vendita della sua eredità coll’erede prescelto, qual vendita in principio non fu immaginaria, e
fittizia, ma vera e reale. Direi col Sig. di Montesquieu, che l’illimitata facoltà di far testamento
introdottasi fra i Romani rovinò poco a poco la politica disposizione sopra il parteggio delle
Terre; che ad essa facoltà dovevasi in massima parte ascrivere la funesta differenza tra la
ricchezza e la povertà; che essendosi riunite più porzioni in una sola famiglia, alcuni ebber
troppo, ed una infinità d’altri Cittadini dovettero menare una vita stentata e precaria; che con
ragione il Popolo Romano defraudato dall’inalterabile diritto di possedere la sua parte di poderi,
continuamente anche ne’tempi di Roma frugale chiese una nuova distribuzione di Terre. Direi
liberamente che Grozio, Barbeyrac, Buddeo, ed altri s’ingannarono quando asserirono essere di
diritto naturale la podestà di fare testamento; poichè non può esservi testamento dove non v’è
proprietà; e ‘l diritto di proprietà esso medesimo e derivato non già dalla Legge naturale, ma sì
bene dal Gius delle genti. Direi che può sussistere una società civile, senza diritto di proprietà;
che ammesso ancora il diritto di proprietà non ne deriva che chi coll’autorità delle Leggi ha
posseduto vivendo, possa comandare dopo che ha cessato d’essere; che i morti non avendo più parte
ne’beni di questo Mondo, non è necessario che la proprietà d’un Cittadino s’estenda fino ad esiggere
in esso la libertà di disporre del fatto suo con Testamento. Direi con Bynkershoek, che la terra è
destinata all’uso degli uomini di tutt’i secoli, e che ciascuna delle generazioni, che
si succedono le une alle altre deve avere libero il godimento de’suoi beni; direi francamente che
Puffendorf, ed i sopra nominati Pubblicisti Grozio, ec. ragionano male, asserendo il primo utile,
gli altri necessaria la podestà di far testamento, perchè i beni dei defunti non siano dilapidati, e
dirubati dal primo occupante; poichè le Leggi, che sono il risultato della pubblica volontà debbono
regolare chiaramente la materia delle successioni. Oserei dire in fine, che ha ragionato peggio dei
detti Dottori il per altro dottissimo Leibnitz quando disse;
Niveau 4
Citation/Devise
“che per la forza del solo diritto i testamenti non avrebber alcun
effetto, se l’anima non fosse immortale; ma siccome i morti vivono ancora effettivamente, restano
perciò sempre padroni de’lo-