Il Caffè: III

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Num. III

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Metatextualidade

Ricevo una lettera portata al nostro Demetrio, e diretta Agli scrittori del nuovo foglio il Caffè. Essa cosi dice:

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Carta/Carta ao editor

Amici miei. Bravi, bravissimi. L’idea del foglio è buona, lo stile piace, e vi annunzio, che sebbene gli studj vostri non si chiamino studj utili, frappoco avrete fatto più bene alla vostra Patria di quello che non ne facciano due Avvocati, tre Causidici, quattro Sollecitatori, e cinque Notai de’ più esperti a procrastinare la decision d’una lite per vent’anni. Il progetto di presentare al Pubblico le verità utili, spogliandole della noja Magistrale, è degno di veri Filosofi, e di onesti Cittadini. Ricevete dunque l’approvazione d’un incognito, la quale avrà in seguito quella di tutti gli uomini dabbene; e preparatevi a lasciar dire quegli avversari, i quali non si scansano da nessun uomo, se non ascondendosi nella oscurità. Chiunque compera il vostro Foglio, ha comperato il diritto di farne e dirne quel che gli piace. Riceverete unitamente a questa lettera gli Elementi del Commercio, che ho fatti anni sono. Credo che eglino sieno ancora più popolari di quei del Sig. Forbonnai, siccome quelli dell’illustre Franzese sono più grandi e più filosofici de’ miei. Se li credete adattati a spargere i buoni principi nella Nazione, stampateli nel vostro foglio; se siete di contrario parere, rendeteli onestamente a Demetrio, e saremo in ogni caso buoni amici. Filantropo
Rispondo al signor Filantropo, che quanto noi siamo insensibili alla opinione volgare, tanto siamo contenti ottenendo quella de’ pari suoi. Gli Elementi del commercio ci pajon buoni al nostro fine di pubblicare verità utili, senza noja. Chiunque vorrà somministrarci cose non anco stampate, le quali contenghino verità utili, senza noja, sarà il ben venuto; e le pubblicheremo col nome, o colla divisa che sceglierà l’Autore. Si faccian cuore i giovani di talento, che avranno a fare con chi non giudicherà nè dall’ardimento, nè dal nome, nè dal vestito. Non venghino essi, mandino i Manoscritti, poiché noi non amiamo a perder tempo in visite o ufficj; ci dieno l’indirizzo, e avranno risposta. Nessuna autorità, nessun impegno ci farà mai piegare ad inserire in questi foglj cosa che a noi non piaccia. La Società de’ Letterati è Repubblicana, e questo foglio è cosa nostra, nè vi si devon porre che gl’innesti che vogliamo noi. Ora eccovi gli Elementi:

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Elementi del commercio Il Commercio consiste nella permutazione d’una cosa coll’altra. È cagionato dal bisogno che si ha della cosa che si vuole acquistare, e dall’abbondanza che si ha della cosa che si vuole cedere in contracambio. Quando il Commercio è prodotto più dal bisogno delle cose straniere, che dall’abbondanza delle proprie, si chiama Commercio passivo: cosi chiamasi Commercio attivo quello, che viene cagionato più dall’abbondanza delle cose proprie, che dal bisogno delle straniere. Per nome di bisogno si sottintendono due diverse idee, l’una è il bisogno assolutamente detto, il quale è nella serie naturale delle cose, e tale è quello che ci porta ad evitare il proprio deperimento: l’altro è il bisogno artefatto, nato dalla opinione, e dal lusso. II primo cerca le cose necessarie, 1’altro le utili. L’abbondanza pure ha due aspetti: una è l’assoluta, la quale anche può dirsi superfluita, l’altra è relativa, ossia un minor bisogno che sacrifichiamo a un maggiore, e in questo senso non v’è Nazione comunicante colle altre, che non abbia abbondanza. Nel Commercio attivo l’abbondanza dev’essere assoluta. La Nazione avendo più a dare, che a ricevere, quella somma che resta di credito viene compensata colla Moneta, contrasegno con cui, per universale consentimento delle Nazioni, si valutano le azioni che gli uomini hanno sulle cose. Questa somma che resta a compensarsi in moneta si chiama la Bilancia del Commercio. La Nazione, che ha il Commercio attivo preponderante, si rende ogni anno per moltiplico padrona, se non di diritto, di fatto delle Nazioni che hanno il Commercio meno in vigore del suo. Allora la Nazione diventa veramente ricca; la coltura delle Terre, la popolazione, i comodi della vita, la copia di tutto sono i beni che un felice Commercio produce nell’interno; la stima e i riguardi sono quelli non minori che produce al di fuori. La Nazione presso cui prepondera il Commercio passivo perde ogni giorno cotesti beni, e corre alla propria distruzione. Il male va crescendo per moltiplico, i cattivi effetti diventano cagioni sin tanto che ridotta alla perfetta dipendenza da’ suoi vicini, priva d’Abitanti diventa un Paese non ad altro buono che a traspiantarvi colonie. Il Commercio interno impedisce la perdita delle ricchezze della Nazione, l’esterno ha per oggetto d’aumentarle: II primo s’oppone al passivo, 1’altro lo compensa. Di qualunque specie sieno i tributi, che paga una Nazione al Sovrano, essi rimontano tutti a un primo principio, che è la Capitazione: o sia il tributo sulle Terre, o sulla consumazione, ovvero sulle merci; è sempre vero che a misura della popolazione si accresce il numero de’ consumatori, e de’ compratori, e che le Terre rendono più, dove sono più coltivate. Un Re che comandi a due milioni d’uomini sparsi nello spazio di mille miglia, è dieci volte almeno più debole d’un Re che comandi a venti milioni d’uomini sparsi nello spazio di cinquecento miglia. Le rendite del Sovrano crescono colla popolazione dello Stato, e scemano con io essa, e la popolazione dello Stato dipende interamente dalla natura del Commercio. Dove l’industria e l’Agricoltura danno più facili mezzi a sussistere, ivi non mancano giammai gli abitanti. È dunque massimo interesse del Sovrano la buona direzione del Commercio. Se tutte le Nazioni intendessero i proprj vantaggi, farebbero in modo d’avere nel loro interno le cose, che loro bisognano per quanto fosse possibile. Allora il Commercio esterno farebbe il minimo possibile, essendosi ridotto al minimo possibile il bisogno che lo produce. Cresce il Commercio sin tanto che egli è ben inteso da alcune Nazioni, e scema quando è universalmente conosciuto. Intanto però che i corpi Politici non giungano a questo forse chimerico grado di perfezione universale, la Nazione che avrà in prima aperti gli occhi sul Commercio profitterà della indolenza delle altre, e diverrà ricca, popolata e florida a loro spese. Quando una Nazione è giunta ad avere dentro di se quanto occorre al compimento de’ suoi bisogni, ella è nella intera indipendenza dalle altre, nè ha più a temere il Commercio rovinoso; ma per ottenere questo conviene che la Nazione sia estremamente ristretta o vasta estremamente: Nel primo caso il Governo travaglia più a diminuire i bisogni che a soddisfarli, e questo freno alle passioni degli uomini non si può imporre che a un numero limitato, e per un tempo pure limitato, gli antichi Lacedemoni furono in questo caso. Quando poi la Nazione sia vasta in guisa da potere cogli interni frutti della terra, e dell’industria soddisfare interamente i proprj bisogni, allora pure è nell’indipendenza: ma la natura in un ristretto spazio non suole produrre quanto richiedono i bisogni d’opinione degli uomini. Nella China cento milioni d’Abitanti in un clima de’ più felici hanno potuto rinunziare ad ogni straniera mercanzia senza invidiar nulla ai forestieri. Ogni Nazione che sia nella mediocrità non può sperare nè di contenere interamente le voglie degl’individui, nè di naturalizzare entro di se tutte le cose delle quali è avvezza a far uso. Egli e però vero che se questo non è sperabile perfettamente, pure a misura che una Nazione s’accosta a questo stato d’indipendenza ne risente efficacemente i vantaggi, e col commercio attivo può ricompensare, e sorpassare le perdite che le restano, e decidere per se la bilancia. Questo è il solo scopo che si può proporre nel sistema presente d’Europa. Tutto si fa per gradi nella Natura. II corpo politico è una macchina, le di cui diverse e complicate ruote nè sono percettibili a molti, ne soffrono impunemente d’essere molte ad un tratto scomposte. Ogni scossa è fatale, e dai funesti effetti discoprono poi gl’incauti la contiguità che non avevano ravvisata in prima. Vi vuole 1’opera di chi perfettamente ne conosca tutta la Meccanica per mettervi mano. I Progetti più pronti e universali se più abbagliano, sono altresi più difficili, e pericolosi ad eseguirsi, ed è tanto più stabile la felicità d’una Nazione, quanto per gradi se ne innalza l’edificio. Miglior metodo di tutti è il cominciare dal por rimedio alle perdite attuali, alle quali provveduto che si sia, più facile assai riesce il distendersi al Commercio lucrativo. L’umanità non consente che si facciano de’ saggi a spese della Pubblica felicità, sulla quale nulla conviene intentare di nuovo, se la evidenza non ci previene sull’esito felice della nostra intrapresa. I primi oggetti i quali si presentano sono quelli che riguardano la più grande, la più utile, e la più infelice parte della Nazione, che è il Popolo. Quanto è di suo uso, forma i capi prin-cipali del Commercio, come quelli, che sebbene separatamente presi sieno di poco valore, riuniti però e tante volte ripetuti formano le somme più considerabili. Chi vive nelle Città è colpito d’ordinario dalle sole spese del lusso, di alcuni pochi Cittadini, in vista delle quali sembrano non degne d’attenzione le più grandi realmente, cioè quelle della Plebe e de’ Contadini: ma chi vi riflette, vede che appena un uomo, ogni trecento, spende negli oggetti del lusso, e che gli abiti di duecento novanta nove uomini comuni costano assai più della gala del ricco. Non v’e paese in cui non si possa introdurre fabbrica di Panni, e Tele quali fanno bisogno al vestito del Popolo, e quand’anche le terre non somministrassero lini e lane bastanti, o le somministrassero di qualità cattiva, è sempre vero che converrebbe anzi prendere da’ forestieri queste materie prime e tesserle, che comperare le manifatture, poichè tutto il prezzo della manifattura non uscirebbe; e tanti Cittadini di più avrebbero il vitto nel paese, quanti sono impiegati nella manifattura. Frattanto però pongasi ogni studio per migliorare il prodotto delle lane, e de’ lini nello Stato. Le manifatture per i bisogni del popolo sono, come si è detto, le più importanti per ritenere la maggior somma del denaro; ma di più sono le più facili a stabilirsi non richiedendosi per esse nè una straordinaria destrezza, o eleganza ne’ manufatturieri, nè i grandiosi capitali, che vi vogliono per le fabbriche di lusso. Molti non intendono questi principi, e in una Nazione rovinata vorrebbero cominciare dalle Stoffe di lusso, come se a un ammalato, che sviene per la perdita del sangue, se un Chirurgo negligentando di chiudergli la vena cominciasse a proporgli di cavalcare per rendere più robusto il temperamento. Le Tele, e più ancora i Panni difficilmente si distinguono, se sieno legalmente tessuti e tinti allorché sono nuovi, l’uso soltanto lo discopre. Se si lascia ad ogni fabbricatore la libertà di tessere e tingere come vuole, nessuno nemmeno nell’interno della Nazione si fiderà delle manifatture del suo paese. Come v’è una marca legittima agli argenti, senza di cui nessun uomo cauto li comprerebbe, così deve esservi una marca legittima ai Panni, senza di cui nessuno arrischia il suo denaro. Nessuna fabbrica di panni può riuscire senza questa precauzione eseguita a rigore. La facilità d’un lungo uso nel Commercio, ovvero la scarsezza del denaro della Nazione, che ci vende le merci, fa sì che talora esse giunghino a minor prezzo di quanto costerebbero fabbricate da noi medesimi, d’onde ne nasce una sorte di ritrosìa in chi deve metter mano al Commercio, come se fosse una legge poco giusta e umana l’obbligare il minuto Popolo a pagare di più quanto può ottenere a minor prezzo. Questa difficoltà cessa qualora s’abbi di mira il pubblico bene, e si rifletta che chiudendo questa uscita del denaro della Nazione essa ne rimarrà tanto più fornita, onde crescendo la copia del denaro, il prezzo delle opere tutte e de’ generi crescendo a proporzione, s’accresceranno nelle mani di ognuno i mezzi per provvedersi colle interne manifatture. In un Paese, che non sia un’Isola, la proibizione d’una merce che vi ha spaccio è un inutile tentativo, che essendo inosservato ricade in discredito del Legislatore. Perchè il Popolo non preferisca le merci forastiere alle nazionali, conviene primieramente diminuire quanto è possibile il prezzo delle nazionali; 2. accrescere il prezzo delle manifatture straniere; 3. procurare che le manifatture nazionali non la cedino in bontà alle forestiere. Questo timone della Nave è sempre nelle mani del Sovrano. Colle esenzioni, o colle somministrazioni fatte ai fabbricatori, egli diminuisce il prezzo delle interne manifatture; aggravando le imposizioni alla introduzione delle merci straniere egli accresce il prezzo delle manifatture esterne; e con abili Ministri e buone Leggi egli perfeziona le interne manifatture. II primo passo naturale dunque verso la riforma del Commercio è la deputazione di persone di zelo e d’intelligenza, la retta costruzione delle Tariffe, e la rettificazione delle Leggi Commercianti. L’uomo naturalmente corre all’utile, e sebbene non sia per lo più sensibile alle attrattive della verità per se stessa, pure per un secreto niso la sente, quando questa lo conduce a migliorare la sua fortuna. Travaglia esso per il bene della Società, quando vi trova l’utile proprio. La grand’arte del Legislatore è di sapere ben dirigere la cupidigia degli uomini. Allora si scuote l’utile industria de’ Cittadini; l’esempio, l’emulazione e l’uso fanno mol-tiplicare i cittadini utili, i quali cercano a gara di farsi più ricchi col somministrare alla Patria merci migliori a minor prezzo. La libertà e la concorrenza sono l’anima del Commercio; cioè la libertà, che nasce dalle Leggi, non dalla Licenza. Quindi ne siegue, che 1’anima del Commercio è la sicurezza della proprietà fondata su chiare Leggi non soggette all’arbitrio; ne siegue pure che i Monopolj, ossia i Privilegj esclusivi sieno perfettamente opposti allo spirito del Commercio. Stabiliti che sieno in una Nazione i buoni principj del Commercio, all’ora s’accrescono le nozze de’ Cittadini abilitati a mantenere una famiglia; allora vengono da’ paesi esteri e meno attenti al Commercio nuove famiglie chiamate dall’utile e dai maggiori comodi della vita, e si naturalizzano tanti Cittadini, quanti erano in prima gli Operaj, che in paesi esteri vivevano colle manifatture comperate da noi; allora consumando essi il prodotto delle terre sull’agricoltura ricade una nuova rugiada che la rinvigorisce; in somma il primo passo al bene come al male facilita gli altri come i gravi, il di cui moto s’accellera colla caduta. Nè alcuna Nazione disperi di avere dentro di se questi beni soltanto che lo voglia. I varj giri che ha fatto il Commercio sulla Terra, ora per l’Asia, ora sulle coste d’Africa, ora in Grecia, ora in Marsiglia, ora in Italia, ora nel Portogallo, ora nell’Olanda, consecutivamente mostrano ch’egli non è legato dal clima. Il buon Governo lo invita, lo scaccia il cattivo; onde dovunque il Commercio è in rovina, è legittima conseguenza il dire che vi sia un difetto organico nel sistema, a meno che un’accidentale cagione e passeggera non possa assegnarsi. Gli uomini del volgo credono che sieno in contraddizione gli attuali interessi della Nazione con quelli del Sovrano in fatto del Commercio. Credono essi impossibile rianimare il Commercio, se il Principe non diminuisce le imposizioni per qualche tempo. Ora essendo ogni anno necessaria al Sovrano la stessa rendita sulla quale è fondato il mantenimento della Milizia e de’ Magistrati, ogni riforma si risguarda come una bella speculazione e nulla più. Questa falsa supposizione non deriva da altro se non dalla poca riflessione che fassi sulla diversa natura de’ tributi de’ quali se una parte si trova attualmente così incautamente posta; che s’opponga all’utile Commercio, è sempre però vero che dall’abuso di una cosa non si può provare l’intrinseca pravità della sua indole. I Tributi sono per loro natura indifferenti al Commercio, al quale anche possono contribuire; nè lo rovinano che quando o sono mal diretti, o quando realmente eccedono le forze d’uno Stato. Ogni Tributo sulla uscita delle manifatture fabbricate internamente, ovvero sulle derrate nate nello Stato, e che non possono ridursi a manifattura, è pernicioso al Commercio. Ogni Tributo sulla introduzione delle materie da lavorarsi nello Stato è pernicioso al Commercio. Ogni Tributo sulla uscita delle materie Nazionali, che servono alle manifatture interne, è salutare al Commercio. Ogni Tributo sulla introduzione delle manifatture straniere è salutare al Commercio. Tali sono i principj universali per regolare le Tariffe, i quali si moderano ne’ casi particolari, avendo riguardo alla dipendenza de’ Forestieri, ed all’’incentivo al contrabbando, il quale cresce colla Gabella. Ed ecco come il Principe possa, conservando i Tributi, animare il Commercio, togliendo soltanto la viziosa ripartizione del Tributo medesimo: Un milione in mano d’un imbecille fa men bene ad una Nazione, che la sola penna in mano d’un abile ministro. Finalmente altri vi sono, i quali credono, che il primo passo per rianimare il Commercio, sia promulgare Leggi, ossia Prammatiche per annientare il lusso; cioè quel lusso sul quale vive la maggior parte degli Artigiani; quel lusso il quale è il solo mezzo per cui le ricchezze radunate in poche mani tornino a spargersi sulla Nazione; quel lusso il quale lasciando la speranza ai Cittadini d’arricchirsi è lo sprone più vigoroso dell’industria; quel lusso finalmente il quale non va mai disunito dalla universale coltura e ripulimento delle Nazioni. Ovunque il suolo basti ai bisogni fisici degli Abitanti, non può esservi industria senza lusso. Le Terre sono in proprietà della minor parte della Nazione; i Proprietarj se non hanno lusso, non le fanno coltivare che quanto giovi a riceverne i bisogni fisici: ma conosciuti i bisogni del lusso promoveranno l’agricoltura, cercando da essa come soddisfare, oltre ai primi bisogni fisici anche ai bisogni sopravvenuti del lusso: Quindi i Contadini troveranno facile sussistenza, s’accresceranno le nozze, e si moltiplicherà la popolazione. Le Prammatiche non convengono che a quelle Terre ingrate che non somministrano quanto basta alla vita fisica degli Abitanti; ed è ben miserabile quella pretesa Politica che insegna a conservare le ricchezze nelle mani d’alcune Famiglie; poichè dovunque sieno disugualmente distribuite le ricchezze, tutto ciò che tende a diminuire la diseguaglianza è un bene prezioso agli occhi d’un illuminato Legislatore, a cui deve esser noto, che più le ricchezze sono egualmente distribuite su molti, più s’accresce la ricchezza Nazionale, poichè un piccolo patrimonio viene con più attenzione coltivato che un grande. È pure agli occhi d’un illuminato Legislatore un bene tutto ciò che tende a riscuotere i poveri e ad eccitarli all’industria coll’aspetto della fortuna. II solo lusso veramente pernicioso in una Nazione, che abiti un suolo fecondo, è quello che toglie alla coltura le terre, consacrandole alle Cacce, ai Parchi, ed ai Giardini. Ogni vantaggio d’una Nazione nel Commercio porta un danno a un’altra Nazione; lo studio del Commercio, che al dì d’oggi va dilatandosi, è una vera guerra che sordamente si fanno i diversi Popoli d’Europa. Se i buoni Autori fossero intesi, si vedrebbe che essi hanno palesato il vero secreto degli Stati, ma per la maggior parte gli uomini non accordano la loro stima che alle cose straordinarie, nè sospettano che i principi della Politica sieno sì semplici come lo sono.
P.