La Gazzetta Veneta: N. XCVII
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N.o XCVII.
Mercoledì addi 7. Gennaio 1761.
Che contiene Quello, ch’è da vendere, da comperare, da darsi a fitto, le cose ricercate, le perdute, le trovate, in Venezia, o fuori di Venezia, il prezzo delle merci, il valore de’cambj, ed altre notizie, parte dilettevoli, e parte utili al Pubblico.Ebene 2
Metatextualität
Questa, ch’io dirò al presente è una Novelletta accaduta non sono molti giorni, la quale sarà per dimostrare, che la paura mette così fatta alterazione nell’animo, che una cosa pare un’altra. E dopo di questa verrà la seconda, che sarà il suo contrario, della quale furono testimonio alcuni di veduta, che l’hanno a me raccontata.
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Allgemeine Erzählung
UN (sic.) Giovane di buon’aria, volendo avere un luogo da sè per passatempo, lontano da casa sua, prese a fitto una casettina con poche Stanze, e guernitala a volontà sua di quello, che gli piacque, andava quivi talvolta a starsi in ozio, e a godersi qualche ora tranquilla. Fra l’altre cose avea fornito benissimo uno Stanzino di bottiglie, e v’avea tovagliuolini, posate e ogni altra cosa, che appartenea a far buona vita, per sè, e per gli amici suoi. Prese al servigio suo un Cameriere, e fatto fare due chiavi della Casettina, una ne tenne per sè, e l’altra la diede a lui dicendogli: Vedi. Tu, ed io soli possiamo liberamente, entrare in questo luogo, e le robe, che in esso sono vengono alla fede tua commesse. Pensa, che sè qualche cosa mi mancherà, io saprò a chi darne la colpa. Il Cameriere prese le chiavi, commendò grandemente la fede sua, e ringraziando il Padrone, che in quella s’affidasse, e promise di far sì, che ne sarebbe rimaso contento. Comecchè fosse, il Padrone, pel corso d’un mese, si ritrovò in tante faccende impacciato, che a pena da sei volte in sù potè entrare nel luogo suo, e starvi anche sì poco, che non ebbe mai cagione di valersi di alcuna delle masserizie che quivi erano. Pur finalmente entratovi un giorno, in cui avea un poco più d’agio, gli venne in cuore di rivedere così da sè a sè le cose sue, e tratto fuori da un armadietto l’inventario, che avea, incominciò a noverare le bottiglie. Una, due, tre ec. l’inventario n’ebbe in fine la metà più, che lo Stanzino, in cui erano rinchiuse. Va a tovagliuolini. Uno, due, tre. Non ci fu caso di poter allungare il numero d’essi fino a quello, ch’era segnato nella carta. Che dirò io più? D’ogni cosa gli era stato tolto la metà. E veramente io trovo, che nelle faccende un poco di disordine non è male. E s’egli non avesse fatto la scrittura, non avrebbe forse avuto il dispiacere di saper quello che gli mancava. Quivi non v’era da storiare. Il Cameriere solo v’era stato, e potea egli solo aver trafugato quel, che non v’era. Lascia passare due dì, a capo de’quali la sera, chiamato a sè il Servo, s’avvia seco verso la Casettina, e gli dice: apri. Così fa. Entrano. Il Padrone gli dice. Chi ha avute le chiavi di questa Casa? Voi, e io, risponde il Servo. E le desti tu mai ad alcuno? Risponde il Padrone. No; le non sono uscite mai delle mie mani; io so quanto Vussignoria mi raccomandò il primo giorno. Egli è sì lungo tempo, dice il Signore, che non ci fui, ch’io non sò quello, che ci abbia, e ho a trattare alcuni miei amici. Riscontriamo le robe all’inventario. Il Servo copre il suo battimento di cuore col miglior viso che può e con le carte in mano si va a noverare. Ogni cosa è la metà. Il Servo comincia ad imbiancare, e la lingua parea d’uomo, che parli col ribrezzo della terzana. Il Signore, che buon animo avea, e forse anche incominciava a temere di trovarsi quivi soletto con un ladroncello, gli fece una garbata diceria, infine della quale gli disse, che gli avrebbe perdonato ogni errore, se gli confessava il vero. Il Servo colpevole, tocco il cuore da tanta generosità, pieno di vergogna, e di rabbia contro di sè medesimo, datosi un pugno nel petto, e strabuzzando gli occhi, che parea invasato, gridò: Ahi! ch’io sono disperato, ed era vicino a gittarglisi dinanzi inginocchioni. Ma il Padrone non gli diede tempo, perchè, veduto il pugno, e gli occhi stralunati, e udite le parole, fatta riflessione alla solitudine, credendosi morto, senza altro attendere balzò all’uscio, e la diede a gambe quanto potè, spacciando il cammino come una Lepre. L’altro vedendolo a correre con quella furia, e desideroso di chiedergli perdono, va dietrogli con quella fretta, che può, onde tanto più il Padrone menava le calcagna, che gli parea d’avere alle spalle un basilisco. Egli era più giovane, e più gagliardo, onde gli riuscì di sparirgli davanti, e correndo, e ansando entrò nella casa paterna, salì le scale come un Uccello, e per avventura ritrovata la Madre in un Salotto, la fece quasi spiritare di paura. Che è, dic’ella? che hai tu figliuol mio? Ho dietro un disperato, risponde, e senza punto arrestarsi corre nella camera sua, e col chiavistello si chiude forte. Intanto la Madre ode il secondo romore; e vede il Cameriere. Pure parendole, ch’egli avesse in viso altri segni, che di disperazione gli domanda, che sia: e quegli inginocchiatosi dinanzi alla Madre le narra il fatto, e domanda di poter chiedere perdono al suo buon Padrone. La Madre s’accosta allo imprigionato, e gli dice: apri, figliuolo, non è nulla. Egli grida di dentro: Non voglio vedere disperati, odo la voce del disperato. No dico, ascolta. Madre mia, egli è disperato, dategli danari, dategli roba, a tale ch’esca di Venezia, se volete, ch’io esca di quà, altrimenti io ci starò, fin che vivo. Finalmente, se la Madre volle, ch’egli uscisse di carcere, le convenne sborsare una buona quantità di danari al Cameriere, il quale si partì da Venezia, e il Giovane uscì della Stanza, e fra pochi giorni licenziò la sua Casettina, e vendette le masserizie senza più voler vedere nè questa, nè quelle, tanto avea agli occhi, e negli orecchi la faccia, e le parole del disperato.
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Allgemeine Erzählung
Ci sono alle volte alcuni, i quali postisi con arme in certi cantoni della Città la notte, s’avvisano forse pel soverchio vino, ch’hanno bevuto, o per altre cagioni peggiori, di far braverie, e di spaurire le genti che passano. E talora giungono a tanto, che, come se avessero a guardare una Fortezza, non vogliono, che passi di là persona, ma con le bestemmie, e col fregare coltella, e spade nelle muraglie fanno tornare indietro chi passa. Due così fatti uomini si ritrovarono poche sere fa verso il Ponte a San Felice, che mettendo a romore il vicinato, spaventarono più persone, le quali, se vollero andare a casa, convenne, che v’andassero per altra via. Andavano verso a quel luogo due Maschere, e s’abbatterono per sorte ad un uomo, che tutto atterrito era stato scacciato dal suo diritto cammino. Questi vedendo le due Maschere, le fece avvertire di quanto era. Ma esse, alle quali venne speranza, che i due bravi potessero esser quindi partiti, andarono oltre. Non sì tosto s’udì lo scalpitare loro nella strada in cui erano gli armati, che quelli dal fondo incominciarono a menar vampo, e furore, e faceano tanto fracasso con l’arme per le muraglie, che parea l’abisso. Le Maschere udite le voci, e lo strepito, che a loro s’avvicinava, per non dare in qualche scoglio, invocarono la gagliardìa delle ginocchia, e posero le punte de’piedi, dove poco prima aveano poste le calcagna, con un’agilità, che pareano Daini; nè si fermarono, se non furono buona pezza di là lontani. Stavansi fra la paura, e il ridere insieme del loro trotto; quando eccoti venire da un lato un Vecchiotto, che al lume d’una lanterna parve loro di settant’anni, di mezzana statura con una vestetta assettata al corpo, e corta indosso, un berrettino nero in capo, calze bianche, e una spadetta corta sotto il braccio, il quale n’andava a quella volta dond’erano essi poco prima fuggiti. Costui dà in malebranche, dissero le Maschere fra loro: e l’avvisano di quello, ch’era. Amici, rispose il Vecchiotto, io vi ringrazio di cuore; ma egli è appunto la voglia, ch’io ho di essere colà, quella che mi guida; e segue il suo cammino. Noi vedremo pure questo fatto, dicono fra loro le Maschere. Che ci può accadere? Noi gli sarem dietro, e ad ogni caso saremo i primi a menar le gambe. Così fanno. Il Vecchiotto va oltre con sicuro passo. I due Bravi odono il calpestìo. Alto, ferma, saldi. Egli zitto, e avanti. Bestemmiano; ed egli tace, e va. Fanno un romore con l’arme, che parea rovinasse il mondo; ed egli giunto ad un certo passo; grida: Ah! cani. Voi siete morti, sguaina, balza come un cavriuolo, gl’incalza risoluto, essi fuggono, e trovansi impacciati in una via, che non avea uscita, e il canale da un lato. Domandano la vita. Il gagliardo Vecchio, colla punta loro in sulla gola, facendola giuocare, come una lingua di Serpente, vuole che balzino in acqua, e a questi patti gli lascia andare. Che potea farsi? I due sgherri si lanciarono dalla riva, e si diedero a fuggire a nuoto dalla furia del Vecchio; il quale ringuainò, e come se nulla fatto avesse, se n’andò a’fatti suoi.
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Brief/Leserbrief
Al sig. Gazzettiere~k
Sofronia. S.~i HO (sic.) promesso nell’antecedente mia, di divertire le Donne con qualche Novella. La curiosità ci porta a voler sapere i fatti altrui, e si ride volentieri a spese del suo vicino. Ma se noi usiamo del nostro diritto nel riderci degl’altri, perchè negheremo l’uso medesimo agl’altri, quando hanno occasione di ridersi di noi? E tanto più dobbiam tollerar’ in pace, che altri si divertisca a nostre spese, quanto che noi medesimi ci burliamo di noi, credendo di burlarci degl’altri. Quella, fa la Civetta con tutti, e se sapessimo tutte le sue avventure: o! che bella Novella si saprebbe. Esaminiamo un poco quello, che accade a noi, e avremo la Novella, bella e fatta, e potrem’ leggerla allo scuro e senza occhiali. Quell’altra, comparisce con uno squadrone di Serventi; o! quante gelosie, quant’inganni quant’artifizio (sic.)! Che bella Novella si farebbe di tutto quel ceto di Cacciatori, i quali danno dietro ad una sola Lepre. Ma non è ella la cosa istessa l’esser cacciata da molti in una volta, e l’esser cacciata da molti in diverse volte? Quella va in compagnia di quello, oibò non le sta bene. Egli è un Giuocatore, egl’ha la lingua troppo facile nel dire quel che è, e quello che non è. Ma noi in compagnia di chi andiamo? Cosa si dice di noi? Dunque, di questo genere di Novelle, non me ne posso servire; perchè le mie Leggitrici, con una occhiata che diano a sè medesime, veggono più d’un Tomo di questa moderna Raccolta. Per dar loro materia su cui far de’maligni comenti, e di cui possan ridere; vi vuole qualche Soggetto, che sia nuovo, e da esse non conosciuto. L’affettazione, la ridicola galanteria, l’aria di grandezza, che non ha altro titolo, se non che quello della imitazione, sono cose, le quali ad esse sono note, e le quali col passaporto della moda hanno cangiato la loro, o ridicola, o poco lodevole, natura, in un essere di carattere lodevole e venerabile. Egli sarebbe meglio esser fuori del Mondo, che esser fuori della moda. Qualche Novella di bizzarra moda venuta dal Pianeta delle Veneri, sarebbe ella a proposito? No: perchè non è più il Sarto, o la Cuffiara, che faccian venir le mode, e le introducano nel bel Mondo. Il nostro Sesso tiene aperte le corrispondenze da per tutto, e noi siam’ le prime a dar le mode, e al Sarto, e alla Cuffiara. Da quali fonti, adunque, ho io da trarre le Novelle, per divertire le Donne, e giovar loro col divertimento? Dilettar’ e giovare sono i due cardini de miei voti e de’ miei desiderii. Mi perdoni, pertanto, la bella virtù, se per amor suo, sono costretta di cercare nel suo, in gran parte, deserto Regno, delli Soggetti agl’Enti moderni ignoti, per formar delle Novelle da divertirli. Cercherò le qualità le più buone, e le più necessarie per fare il carattere d’una Donna saggia, d’una Madre amorosa, d’una Moglie tenace de’proprii doveri, e tesserò le mie Novelle con questa, ormai straniera lana. Dessa però sarà straniera, Sig. Gazzettiere stimatissimo, per quella parte del Mondo, a cui giungono le Gazzette vostre asciutte, non già a quella, che le riceve ancor molli e fresche dal torchio. Le Donne lontane riderebbono della virtù messa in Canzone, come di cosa da esse conosciuta; ma le nostre Donne s’adirerebbono nel vedere questo, indivisibile da Esse, amabile genio, che in Chiesa egualmente, che al Teatro le accompagna; nel vederlo; dissi; proposto in aria meno che seria. Soffrano, almeno, per zelo del bene altrui, che le lontane ridano della virtù delle vicine. Chi sa; che questa curiosità, e questo ridere non faccian’ un giorno, o l’altro, che tutte piangano per amore di quella virtù; il Regno di cui serve presentemente, qual Paese sconosciuto, per fare delle nuove scoperte, e trarne delle Novelle. Non è egli vero, che io sono, non poco seccagginosa? In tempo di Carnevale mi perdo in cose serie. Un Viaggiatore di fresco venuto dal Regno della virtù, m’ha riempiuto il capo di tante e tali cose che non posso astenermi dal parlarne. Il suo assioma favorito, è questo. Dalla virtú e dal vizio, hanno origine la vita e la morte degl’Imperii, e io dico, delle Famiglie. Frattanto sono colla solita stima, vostra buon’Amica. Addio.
Sofronia. S.~i HO (sic.) promesso nell’antecedente mia, di divertire le Donne con qualche Novella. La curiosità ci porta a voler sapere i fatti altrui, e si ride volentieri a spese del suo vicino. Ma se noi usiamo del nostro diritto nel riderci degl’altri, perchè negheremo l’uso medesimo agl’altri, quando hanno occasione di ridersi di noi? E tanto più dobbiam tollerar’ in pace, che altri si divertisca a nostre spese, quanto che noi medesimi ci burliamo di noi, credendo di burlarci degl’altri. Quella, fa la Civetta con tutti, e se sapessimo tutte le sue avventure: o! che bella Novella si saprebbe. Esaminiamo un poco quello, che accade a noi, e avremo la Novella, bella e fatta, e potrem’ leggerla allo scuro e senza occhiali. Quell’altra, comparisce con uno squadrone di Serventi; o! quante gelosie, quant’inganni quant’artifizio (sic.)! Che bella Novella si farebbe di tutto quel ceto di Cacciatori, i quali danno dietro ad una sola Lepre. Ma non è ella la cosa istessa l’esser cacciata da molti in una volta, e l’esser cacciata da molti in diverse volte? Quella va in compagnia di quello, oibò non le sta bene. Egli è un Giuocatore, egl’ha la lingua troppo facile nel dire quel che è, e quello che non è. Ma noi in compagnia di chi andiamo? Cosa si dice di noi? Dunque, di questo genere di Novelle, non me ne posso servire; perchè le mie Leggitrici, con una occhiata che diano a sè medesime, veggono più d’un Tomo di questa moderna Raccolta. Per dar loro materia su cui far de’maligni comenti, e di cui possan ridere; vi vuole qualche Soggetto, che sia nuovo, e da esse non conosciuto. L’affettazione, la ridicola galanteria, l’aria di grandezza, che non ha altro titolo, se non che quello della imitazione, sono cose, le quali ad esse sono note, e le quali col passaporto della moda hanno cangiato la loro, o ridicola, o poco lodevole, natura, in un essere di carattere lodevole e venerabile. Egli sarebbe meglio esser fuori del Mondo, che esser fuori della moda. Qualche Novella di bizzarra moda venuta dal Pianeta delle Veneri, sarebbe ella a proposito? No: perchè non è più il Sarto, o la Cuffiara, che faccian venir le mode, e le introducano nel bel Mondo. Il nostro Sesso tiene aperte le corrispondenze da per tutto, e noi siam’ le prime a dar le mode, e al Sarto, e alla Cuffiara. Da quali fonti, adunque, ho io da trarre le Novelle, per divertire le Donne, e giovar loro col divertimento? Dilettar’ e giovare sono i due cardini de miei voti e de’ miei desiderii. Mi perdoni, pertanto, la bella virtù, se per amor suo, sono costretta di cercare nel suo, in gran parte, deserto Regno, delli Soggetti agl’Enti moderni ignoti, per formar delle Novelle da divertirli. Cercherò le qualità le più buone, e le più necessarie per fare il carattere d’una Donna saggia, d’una Madre amorosa, d’una Moglie tenace de’proprii doveri, e tesserò le mie Novelle con questa, ormai straniera lana. Dessa però sarà straniera, Sig. Gazzettiere stimatissimo, per quella parte del Mondo, a cui giungono le Gazzette vostre asciutte, non già a quella, che le riceve ancor molli e fresche dal torchio. Le Donne lontane riderebbono della virtù messa in Canzone, come di cosa da esse conosciuta; ma le nostre Donne s’adirerebbono nel vedere questo, indivisibile da Esse, amabile genio, che in Chiesa egualmente, che al Teatro le accompagna; nel vederlo; dissi; proposto in aria meno che seria. Soffrano, almeno, per zelo del bene altrui, che le lontane ridano della virtù delle vicine. Chi sa; che questa curiosità, e questo ridere non faccian’ un giorno, o l’altro, che tutte piangano per amore di quella virtù; il Regno di cui serve presentemente, qual Paese sconosciuto, per fare delle nuove scoperte, e trarne delle Novelle. Non è egli vero, che io sono, non poco seccagginosa? In tempo di Carnevale mi perdo in cose serie. Un Viaggiatore di fresco venuto dal Regno della virtù, m’ha riempiuto il capo di tante e tali cose che non posso astenermi dal parlarne. Il suo assioma favorito, è questo. Dalla virtú e dal vizio, hanno origine la vita e la morte degl’Imperii, e io dico, delle Famiglie. Frattanto sono colla solita stima, vostra buon’Amica. Addio.
Metatextualität
Amici miei, o Nimici, o chiunque voi vi siate, se volete favorirmi da impinguare questi Fogli con qualche cosa, che appartenga a censure, e a brighe Poetiche, io potrò rendervi soddisfatti con la Pubblicazione. Ma non uscite de’termini della costumatezza, e del dovere. Si lascino le villane parole, e gli scostumati vocaboli a’Traghetti, che sono il loro nido, e non s’infanghino gl’intelletti, e gli animi delle Persone bene educate nelle pozzanghere di versacci, che pajono nati in Mercato, e fra i Venditori del pesce. Questa è la cagione, che alcuni non vedranno quì date in luce certe terzine, che sembrano uscite non da una penna d’oca; ma dall’oca medesima, che stesse a diguazzarsi, anzi ad imbrodolarsi nel pantano. E questa è la cagione, ch’io Pubblico (sic.) quì questo solo Sonetto, il quale mi fu mandato; ed è senza fele, e mordacità; oltre che dà anche la notizia d’un Libretto, ch’uscirà nella presente Settimana, Intitolato: Arte senza regole per rendere un Poeta immortale fuori delle Gazzette e nelle Gazzette. Lettera di Soffolto Planomaco a N. N. Accademico Granellesco~i.
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Zitat/Motto
Partigiani Poeti, e de’Poeti
Partigiani, venite quanti siete:
E questo Libro comprate, e leggete,
E noi del sudor nostro fate lieti.
Noi l’abbiam scritto contro un da’Segreti,
Il qual pretende averci presi a rete.
Chi è de’suoi fra voi, deh! gli direte,
Ch’ha il torto, che non parli, e che s’acqueti.
Nè v’incresca a saper, ch’è quasi un mese,
Che dovea uscir quest’Operetta fuori;
Poi per poltroneria stette, ed attese.
Intanto per fuggir tutti i romori
Abbiam nostre ragioni in quella stese
Con onesti retorici colori.
Noi non cerchiamo allori,
Ma sol che la ragione si difenda,
E che qualche Libretto anche si venda.
Metatextualität
Il Libretto accennato si venderà da Paolo Colombani.