La Gazzetta Veneta: N. 44
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N.° 44.
Sabbato addi 5. Luglio 1760.
Che contiene Quello, ch’è da vendere, da comperare, da darsi a fitto, le cose ricercate, le perdute, le trovate, in Venezia, o fuori di Venezia, il prezzo delle merci, il valore de’cambj, ed altre notizie, parte dilettevoli, e parte utili al Pubblico.Ebene 2
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Allgemeine Erzählung
Martedì verso le tre ore della notte trovandomi in una certa piazzetta vicina a S. Moisé, vidi ad apparecchiarsi al viaggio un Drama per Musica. Non crediate, che ciò sia un indovinello nò; che fu veramente un Drama intero, che avea a far vela in due Barche. Stavano queste legate alla riva; nelle quali aveano ad entrare Virtuose, e Virtuosi di Musica, Ballerini, Suonatori, Sarti, casse grandi, cassettine, bauli, valige, bolge, sacca; ceste, canestri, cofani, o se altro inventò mai l’arte per portar roba da un luogo all’altro. Parte di questo bagagliume era già imbarcato, e parte stavasi sulla riva, o andava sulle spalle, o sulle braccia de’portatori, che andavano, venivano, toglievano su, e mettevano giù con un perpetuo bulicame. A poco a poco ne venivano Re, e Principi, e Reine, e Principesse, Cori di Danzatori, e Suonatori; di tutte le regioni, e patrie, sì che in breve tempo s’udirono tanti linguaggi, quanti ne fè nascere Nembrotto con la sua superbia. E perchè vi fosse argomento di favellare a lungo avvenne per caso, che fossero le due barche sequestrate pel debito non so se d’Enea, o di Demofoonte, il quale preveduta la cosa, levatosi la mattina per tempo, e preso il suo baule, se n’era andato per altra via, ad attendere i suoi Compagni sulla Scena. Ma non potendosi far vela fino a tanto, che non fosse chiarita la giustizia, che nelle barche non v’era roba di lui, non si potea sciogliere le funi, e allargare le vele; onde vi fu lungo tempo da poter cianciare. I Padroni delle barche, e i Marinai intuonavano la canzone con le bestemmie, che a cagione di tale impedimento non potevano cogliere l’opportunità dell’acqua, e del vento; e l’Impresario, ch’era un Fabbro, o altro lavoratore siffatto ne gli pregava a mitigarsi, promettendo, che fra poco sarebbero liberati. Sono quà e là sparsi per quella piazzetta alcuni sassi, e marmi rozzi, i quali, aspettando le mani degli Scultori per divenire statue, capitelli, pezzi di colonne, o altro, servono intanto di quando in quando di sedili, ora ad alcuni gondolieri, e talora a chi va a pigliar fresco la notte. Non potendo la compagnia per allora avere sofà, o canapè migliori, chi si pose a sedere quà, e chi là, parte ad attendere le Persone, che non erano giunte ancora, e parte a passare il tempo fino a tanto, che la fortuna avesse conceduto la libertà di veleggiare. Di quà era la virtuosa Figliuola che prendeva un’appassionata licenza dall’Amante suo, e parlavasi all’orecchio, stando però loro a’fianchi la prudente Mamma che, gelosa dell’onor suo, non levava mai l’occhio d’addosso ad un papagallo; e ragionava seco, lagnandosi con lui dell’aria notturna, che le faceva male. Di là una Ballerina cacciava via un Musico, il quale s’affaticava di parlarle affettuosamente; ma la Donzella giurava, che non potea sofferire quelle vocine di moscioni; lodando la sua opinione un tenore. Oh noi avremo una bella voce, diceva un’altra, a star quì alla rugiada che ci cade in capo, e all’aria, che c’entra pegli orecchi; e ci faremo un bell’onore, apparendo la prima volta sulla Scena tutte infreddate, che pareremo chiocce; e parlando per natura nel naso, e colle parole mezzo strozzate nella gola, cominciava a difendersi col futuro infreddamento. Benedetta la danza, diceva una Ballerina, che un po’d’aria, non ci azzoppa; e possiamo ballare anche mutole. O Adriano, gridò allora uno, prendi il tuo fagotto, e mettilo in barca, che v’ha pisciato su il cane di Sabina, e veggo, che i due d’Emirena lo fiutano, vedi vedi, ch’uno alza le lacche. A questo detto il Virtuoso si mosse, e scacciò i cani, che già stavano per piovere; ma un Ballerino, che avea udito a dire, prendi il fagotto, e dare del tu ad un virtuoso, si diede in sul sodo a biasimare cotal dimestichezza, e diceva: Io ho udito una voce a dare del tù ad un Musico, e non so, nè voglio sapere, donde sia uscita; ma sì dico io bene, che non è da Persona ben creata il parlare in tal forma. Finalmente egli si dee notare, che i Signori virtuosi di Musica, rappresentano pel maggior corso della vita i Personaggi più Nobili di tutte le Nazioni, e di tutti i Secoli, e che acquistano una certa Nobiltà, la quale non si può loro togliere, nê (sic.) negare, che non l’abbiano. Se voi mettete insieme tutte l’ore, nelle quali sono stati vestiti da Re, e da Principi, o colle carte di Musica in mano imparando i detti degli Eroi, e de’Personaggi grandi, voi vedrete, che il restante della vita si riduce ad un breve, e ristretto tempo; e una parte di questo hanno dormito, e forse si sono sognati d’avere Stati, scettro, e corone. E ad un’altra cosa si dee anche aver il pensiero, che non poco gli potrebbe danneggiare questo dar loro del tu, perchè si avvilirebbero troppo l’animo; e dovendosi investire gli spiriti di magnanimità, e di grandezza, egli è bene l’innalzargli sempre, e gonfiargli quanto si può, acciocchè rappresentino degnamente la parte loro. Quanto è a noi Ballerini, non importa. Noi siamo Pastori, Ortolani, Villani, Arruotini, Mastellaj, Vendemmiatori, è (sic.) il mestier nostro si è imitare i cervi, e i cavretti a saltare, dateci del tu, o del voi, una capriuola, non cresce perciò, e non scema, ma abbiamo rispetto agli animi de’Catoni, e dei Titi. Dietro a queste parole ne venne uno sghignazzamento universale. Facciamo la prova del Drama, disse un Suonatore. Riserbiamoci a farla in barca, dove abbiamo detto di farla, rispondeva, un altro, che n’avrem tempo. Intanto approdava qualche gondola con altre virtuose, le quali, o che non avessero di più, o mandati avessero i capitali più preziosi nelle barche maggiori, ne venivano con un sacconaccio di tela ruvido sulla prora. Mentre, che smontavano; gridavano alcuni de’circostanti: adagio, piano, con giudizio, a scaricare quelle robe; occhio a quelle porcellane, vedete bene, che non pericolassero tra l’onde que’tesori. Infine tutta la Compagnia era quivi raccolta, e non sapendosi, che altro fare, si cominciò a parlare del distribuire i luoghi nelle barche. Non fu picciola quistione, perchè ognuno avea le sue intenzioni, e ognuna le sue; e le Società erano già state fatte all’orecchio. Ma l’Impresario, che avea informazione d’ogni cosa, e di tutti gl’intrecci dalla prima Donna, ch’era sua segretaria, e dalla quale non potea dividersi, per avere i suoi consigli continuamente, deliberò, che i Ballerini, e i Suonatori s’imbarcassero nell’una, e i Musici, e le altre Persone che servono al Teatro nell’altra barca, nella quale sarebbe entrato anch’egli: e dicendogli alcuno, che non si potea provare il Drama con gli strumenti in un Vascello, e co’Virtuosi nell’altro, disse che si sarebbero tragittati al bisogno col battello, o s’avrebbe avuto pazienza. Venne la libertà del partire; si presero le licenze sulla riva dagli spasimati di quà, e finalmente il Drama se n’andò a fatti suoi spartito nelle due barche.
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Allgemeine Erzählung
Lunedi a Padova un marito condusse la moglie a bere in sua compagnia alla Taverna, e fatti quivi insieme non so quali brindisi lietamente, uscirono di là, e ne venivano ragionando. Diceva il marito, moglie mia tu vedi s’io t’amo, e tuttavia io non sono corrisposto da te nel modo, ch’io vorrei, e secondo il merito dell’amor mio (nè so qual ragione se lo movesse a dirle queste parole, perchè chi dice una cosa, e chi un’altra). Marito mio, rispondeva ella, io t’amo, e ti voglio bene più, che non credi; ma tu hai più della bestia, che dell’uomo, nè so in qual modo mi debbo reggere teco; essendo tu sospettoso, come un cavallo, che aombra. I sospetti miei, diceva l’altro, non sono in aria. Tu se’pazzo, tu se’una civetta. Alla donna stava bene la lingua in bocca, e pungeva, come uno spillo; l’uomo era collerico, e tristo, le parole sono come le Cirege; al marito entra il fuoco in capo, forse ajutato dalla Taverna, tragge fuori un picciolo temperino, o arme poco più grande, e colpisce con tanta forza nel corpo della sventurata moglie, che la ne fu condotta allo Spedale in agonìa, dove uscì di vita, e il marito di Paese.
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Exemplum
L’altro giorno un Capo di Magazzino, dopo d’avere molti de’suoi pegni venduti all’iacanto, postosi sotto i Libri suoi, e un sacchetto con forse dentrovi millecinquecento Lire andava alla volta di casa sua. S’abbattè ad un suo caro amico, il quale ne lo pregò per via, ch’egli esaminasse, se certi pegni erano stati venduti, o no, per far servigio a certe persone da lui conosciute; alla qual cosa consentendo il Capo volentieri, si trasse vicino ad alcune Botteghe dove abitano alcuni venditori d’agrumi, e veduto in terra non so quali ceste grandi ripiene d’erba, pose in una di quelle il sacco dei Danari; e cominciò a squadernare i Libri. Ragiona d’una cosa, e d’un’altra, leggi qua, leggi colà, si chiude la facenda, gli amici parlando insieme si partono di là, e finalmente ognuno va a casa sua. L’ora era tarda, appena il Capo entra, dice la moglie, a Tavola, ch’è apparecchiato ogni cosa. Mette giù il mantello, e pranza. Terminato il mangiare dice il Capo ad un suo giovane: va al tale Stanzino, arrecami quella borsa di Danari, ch’io gli noveri. Va il giovane, cerca da tutti i lati, e nulla trova. Ritorna, e dice; Nello Stanzino io non trovai borse. Il Capo infuria, e dice villania al giovane, che non sa far nulla, o è ladro. Il giovane arrossa, e gli vengono, le lagrime agli occhi. Dice la moglie: Marito mio, quando veniste in casa, voi non siete entrato nello Stanzino, ma posaste colà Mantello, e Libri, e vi siete posto a sedere. Il marito si da le mani nella fronte, prende il Mantello, e senza dire altro corre, che pare invasato. La moglie non sa perchè, e teme della sua vita. Quegli vola intanto alle ceste, e rifrusta. Il Bottegajo padrone delle ceste, vedendo a malmenare la roba sua grida: Che è stato? che fate voi? Egli non ascolta, e, per sua ventura la borsa da lui quivi collocata prima, portata dal peso de’Danari ingiù stavasi sotto l’erbe rimpiattata; Ond’egli la si prese tra le braccia, e cominciò a baciarla, che ne parea innamorato; lasciando il Bottegajo attonito, a cui per quanto ragionasse, mai non diede risposta; e si partì mutolo, e in fretta.
Pietro Marcuzzi~b a’lettori.
Una Polizza mi rimprovera, perchè le Gazzette non hanno più cose appartenenti al trafficare, e si duol, che i Fogli non danno altro, che Novelluzze, e discorsi; al che io non posso rispondere altro che così:Ebene 3
Brief/Leserbrief
Signor mio Riveritissimo.
Egli è lo stesso il lagnarsi meco di ciò, come se il comune avendo carestia di farina andasse a querelarsi col Mugnajo, che non provvede l’universale. Il Mugnajo sta nel mulino, e il debito suo è di far girare le macine, quando altri gli arreca il grano, e farne farina. Quando gli viene il frumento, lo mette nella tramoggia, apre le chiaviche, l’acqua esce, le ruote corrono, si fa la farina, e questa va dove dee andare, e diventa pane, e nutrimento di tutti. Io ho pregato più volte, che chi ha bisogno di qualche cosa lo conferisca a me per via di Polizze; e si sono fatti più contratti con tal metodo. Più Settimane sono scorse, che per quanto io dica, e faccia non mi viene sì fatto grano; ond’io per tenere intanto in esercizio il mulino vò macinando il cervello d’un mio Amico, che mi pare impossibile, che duri tanto; e che tutto non sia crusca, o sémola per parlar chiaro. Non posso fare altro, fuorchè pregare di nuovo il Pubblico a somministrare materia, ricordandogli, che la vera Gazzetta la fa egli senza avvedersene, e ch’io non sono Stampatore d’altro, che delle Notizie, le quali mi vengono mandate da lui.