Citazione bibliografica: Gasparo Gozzi (Ed.): "Numero XL", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\40 (1761-08-11), pp. 596-600, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3601 [consultato il: ].


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No XL.

A dì 11 agosto 1762.

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Pietro Valvasense, stampatore,
al signor
Paolo Colombani, libraio in Merceria.

Ho mandato il garzoncello della stamperia più volte alla casa dell’Osservatore per avere da lui il foglio. Tenetemi segreto; ma noi abbiamo a fare con uno ch’io credo che abbia in capo d’essere infermiccio, perchè m’ha raccontato il fanciullo d’averlo trovato a sedere con un berrettone di bambagia a lucignoli calcato fino su gli occhi, i quali furono da lui levati pietosamente al cielo, quando il putto gli domandò il foglio; e gli disse due volte di non poterglielo dare, con un sospiro uscitogli dalla più cupa profondità de’polmoni. Inoltre ho avuto relazione ch’egli era incoronato intorno intorno da non so quante am-[597]polle turate con carta frastagliata, e che di tre finestre ch’egli ha nella camera sua, una sola dalla parte del mezzogiorno era aperta, le altre due chiuse. Se così è, chi sa quando ci darà egli le sue osservazioni? Oltre di che, pensate voi quello che può osservare standosi al buio come le talpe. Io vi prego, o andate voi medesimo, o mandate a lui, o scrivetegli; perchè quando io dico al mio garzoncello che vi torni, egli mi risponde che non vuol andare a vedere quel viso così malinconico. Prendete le vostre misure, e fate come vi pare. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

Livello 3► Lettera/Lettera al direttore►

Paolo Colombani al Valvasense.

S’io non ho da qui avanti la fede giurata dal medico, che quelli i quali s’impacciano meco, godano perfetta salute, non voglio mai più aver a fare con alcuno. Più volte mi è accaduta questa briga. Non so se cotesti signori letterati sieno malsani per lo studio, o se coloro che studiano, lo facciano perchè sono per natura semivivi, e per non aver vigore da far altro, o finalmente perchè credano, come le donne, di acquistar concetto a far apparire che abbiano sempre qualche cosetta che sturbi la loro sanità. Dico, non so come sia; ma con quanti ho avuto a fare fino al presente, gli ho trovati sempre cagionevoli e svogliati. Dall’altro lato non posso anche dire che fingano, perchè in verità cotesti uomini di lettere hanno certi occhi malinconici, e un certo colore così diverso da tutti gli altri, che non si può dire che siano mai sani affatto. Sia come si vuole, scriverò all’Osservatore, e gli scriverò per modo che, se non è in agonia, spero che mi risponderà. Vi manderò la risposta sua, e quando altro non vi fosse, fra voi, me e lui voglio che sia empiuto un foglio. Lasciatemi fare. Apparecchiate la carta bagnata, e fate snudare le braccia a’tiratori de’torchi, chè certamente sabato dee essere pubblicato un foglio. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

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All’Osservatore Paolo Colombani.

L’aver compassione agli afflitti è umana cosa; ma la carità comincia da sè medesimo, dice il proverbio. Ho presa una bilancia colla fantasia, e dall’una parte ho posto la Signoria Vostra, e dall’altra Paolo Colombani, cioè me. Ho veduto che la parte mia pesa più, onde mi debbo considerare qualche cosa. Se questo le pare un enimma, ecco la spiegazione. Mi vien riferito ch’ella non sia affatto affatto in buona salute, e me ne rincresce. Ma non so se venga riferito all’incontro a lei, che mi trovo in uno stato forse peggiore del suo. Sa ella ch’io non posso più affacciare il viso al mio finestrino a sinistra, e che a pena posso più stare in bottega? Il mercoledì e il sabato, giornate assegnate con un cartello appiccato ad un pilastro della bottega mia al suo foglio, da tutt’i lati vengono le genti a chiederlo, e io sono obbligato a rispondere che non l’ho. Chi mi dice una cosa, chi un’altra, questi mi motteggia, quell’altro mi fa il viso dell’arme; ond’io sono obbligato a difendermi per sua cagione, e trovomi, il più impacciato uomo del mondo. Se la Signoria Vostra non è dunque già sotterrata, che spero di no, mi faccia il favore di scrivere qualche cosa, e mi liberi da questo travaglio, [598] contro al quale l’animo mio non può più durare. Son certo ch’ella mi farà questo piacere, quando le rimanga ancora un poco di spirito nel corpo; e desideroso di risposta, fo fine, raccomandandomi alla sua grazia, al suo calamaio e alla sua penna. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

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L’Osservatore al signor Paolo Colombani.

Io credeva a questo mondo di poter almeno avere la libertà d’ammalarmi, e m’avveggo che per vostra cagione m’è tolta anche questa. Pazienza dunque anche di ciò, come di tante altre cose che non vogliono andare a modo mio. A poco a poco vo conghietturando che non mi gioverà anche l’uscire del mondo, e che passato di là, dove non mi potranno giungere le vostre lettere, mi saranno tolti gli orecchi dalle vostre voci, e da quelle del collega vostro Valvasense e del suo garzoncello che a questi dì ho avuto intorno come una mosca. Conosco tuttavia che avete ragione, perchè dovete ragionevolmente amare piuttosto voi medesimo che me, onde sia in quale stato si voglia il corpo mio, non me ne curo punto: prendete quello che vi mando, e fatelo stampare. Addio. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

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Al Valvasense Paolo Colombani.

Prendete, stampate. L’Osservatore ha scritto in breve. La materia sua non basta ad empiere un foglio. Vi mando la vostra lettera, la mia, la sua, questo biglietto. Pubblicate ogni cosa. Ciò mi sarà anche di scusa appresso alle genti. Fate ch’io abbia il foglio sabato per tempo. State sano. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

L’Osservatore.

Trovandomi io a questi passati giorni soletto nella mia stanza, e pensando, come sono avvezzo, a varie cose (che appunto è indizio di non pensar a nulla; perchè chi ha un vero ed efficace pensiero, non ha tempo di andar vagando qua e colà col cervello, ma internatosi principalmente nella sua unica intenzione, in essa sta fermo e saldo); trovandomi io dunque quale cominciai a descrivermi, egli mi parve in un subito di sentire un certo sordo stropicciar di piedi fuori della stanza mia; ond’io curioso di saper chi fosse, dissi: “Chi è là fuori?” Ma crescendo tuttavia quel romore, qualunque si fosse, e non udendo risposta veruna, mi levai su di là dov’io sedeva, e aperto l’uscio, mi affaccio a quello per veder chi era. Vidi una femmina co’capelli tutti sparpagliati, che non solamente le cadevano sulle spalle di dietro, ma anche intorno alle tempie ed agli occhi, coperta con un certo vestito logoro da cui si spiccavano molti cenci, sicchè qua e colà per le fessure le si vedeano le carni, benchè la fosse però, quanto al corpo suo, grassotta e colorita in viso come una rosa damaschina, e l’avesse un’aria di sanità che facea innamorare a vederla. Due volte aperse costei la bocca per favellare, ed altrettante in iscambio di parole le uscì uno sbadiglio, e la cominciò anche a prostendere le braccia con un oimè lungo e rotondo, che non avea mai fine, come suol fare chi si risveglia dal sonno, ferito dal sole ch’entra per le finestre. Ad ogni modo io la sol-[599]lecitava pure a dirmi chi ella fosse; ma non fu mai possibile che proferisse parola, nè si movea punto di là, nè parea che sapesse che fare. Se non che finalmente, adagio adagio la si pose una mano in tasca, e ne trasse fuori un foglio con sì gran fatica, che avreste detto che la ne cavasse fuori piombo; e come se non avesse potuto sostenerlo, lo lasciò cadere in terra, e guardandolo, si grattò il capo quasi disperata di poternelo più rilevare; onde con le lagrime agli occhi diede la volta indietro con tanta lentezza, come se l’avesse avuto i piè cotti; ed io fra il guardar così strana figura, e lo star mezzo chino per prendere il foglio, e il ridere di così nuovo atto, stetti un pezzo, e tanto, che non vidi più la femmina, la quale quando piacque al cielo m’uscì di vista. Allora, senza punto saper quel ch’io mi facessi, nè chi ella si fosse, ricolsi il foglio, e leggendo il titolo che portava in fronte, ritrovai che questa era la sostanza della scrittura.

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Le lodi della infingardaggine.

Non attendete, o ascoltatori, che parlando di me che sono l’Infingardaggine, vi faccia periodi brevi, sugosi, o con sostanza di troppo grave e profonda materia; imperciocchè il parlare stringato arreca soverchia fatica, come quello che tosto finisce un senso, e vuole entrare in un altro subitamente. La rotondità del periodo, la sonorità, l’abbondanza è quella che mi dà la vita, ed è cagione ch’io talvolta, senza punto uscire della natura mia, ritrovato un picciolo pensiero, quasi chi stende un pezzuol di pasta ad una estrema sottigliezza, l’allargo, lo prolungo e l’affogo in un dizionario di vocaboli, quant’io posso risonanti e rotondi. Nè v’attendete oltre a ciò, ch’io con infinito studio e con diligentissima cura voglia perdere il cervello a ritrovare vincoli e dipendenze che stringano e facciano scendere e germogliare l’una cosa dall’altra; essendo questo uno studio non solo dannoso e ritrovato da certi ingegni sofistici per istemperare le cervella del prossimo, ma vôto affatto d’effetto sopra gli uditori, i quali tanto più ascoltano volentieri, quanto più spesso si cambia di proposito, e dall’una cosa nell’altra a lanci e a salti si passa. Così dunque facendo io al presente, dicovi che sono l’Infingardaggine. Io vi prego, ascoltatori miei, prestatemi un attento orecchio, perchè quand’io lodo me medesima, non intendo già di esaltar me, ma bensì di far benefizio a voi. Se chiaramente potrete intendere quali sieno que’giovamenti che da me ne vengono fatti al mondo, io son certa che, lasciate stare tutte le faccende, correrete fra le mie braccia come i piccioli fanciulli alla madre.

Io sono in primo luogo capitale nemica delle lunghe fatiche che fanno gl’ingegni negli studi; e quanto giusta e ragionevole sia questa nimicizia, tosto lo conoscerete da voi medesimi, quando vedrete che la consumazione del corpo e della vita nasce in gran parte dagli stenti interni del cervello, che continuamente stando, per così dire, in sulle ale, mai non si stanca, mai non rifina sempre si move, e ruota fra le migliaia di pensieri in un giorno. Non vedete voi, o pazzi che siete, in qual guisa v’ha fatti natura, ch’egli pare propriamente che siate fabbricati per non muovervi mai? Pensate alla facitura del vostro corpo. ◀Livello 3

[600] Qual bisogno aveva ella d’empiervi al fondo delle rene di due pezzi di carne così evidenti che sembrano due origlieri, s’ella non avesse voluto darvi con questo ad intendere, esser sua intenzione che vi stiate il più del tempo a sedere? All’incontro se considerate i piedi, non vedete voi come a paragone del corpo sono picciolini e asciutti, che par che dimostrino che voi abbiate poco e di rado a posarvi sopra di quelli? Anzi per darvi di ciò più certo avviso, io credo che ognuno di voi comprenda che quando gli avete mossi alquanto in fretta, incontanente siete ammoniti da’polmoni che l’andare non è secondo la natura vostra, ma sì bene il sedere; che nel vero, se voi sedeste parecchi anni, senza levarvi mai, non tirereste mai il fiato con quella furia che fate, quando avete camminato lungamente. Queste sono quelle ragioni vere e palpabili, alle quali vorrei che poneste mente, e ne traeste fuori quella verità che andate cercando invano tra le sottigliezze. Questa è la scuola mia, e queste sono le da me insegnate dottrine. Perchè vi credete voi ch’io abbia ritrovate tante fogge di sedili alti, bassi, soffici, morbidi e profondi, altro che per bene dell’umana generazione, e per quel vero conoscimento ch’io ho della sua natura? Nè vi crediate già ch’io abbia in tanti miei ritrovati logoro il mio cervello in lunghe contemplazioni, no. Io ho solamente osservato in qual modo stieno meglio adagiati i lombi, in qual forma abbiano miglior posatura le schiene, in qual guisa stieno più comodamente distese le gambe, e secondo che mi parea o così o così, feci nascere mille nuovi agi, che non gli avrebbero i più fini speculativi rinvenuti giammai. Di cui vi credete voi che sieno opera tante botteghe, nelle quali si può a suo grandissimo agio bere, sbadigliare e ragionar di nonnulla, o tacere quanto si vuole? Tutte sono opera mia e carità mia per distogliere gl’ingegni da’pensieri sodi e massicci, perchè possano gli uomini dormire con gli occhi aperti e non logorarsi internamente l’intelletto. Chi credete voi? . . . Ma io mi debbo pur ricordare che sono l’Infingardaggine, e non andar tanto a lungo. Se mi domandate ch’io faccia un compendio del mio ragionare, non mi ricordo quel ch’io abbia detto: se attendete ch’io dica di più, non so quello ch’io mi debba dire. O bene o male, ho detto. ◀Livello 2 ◀Livello 1