Zitiervorschlag: Giovanni Ferri di S. Costante (Hrsg.): "La vendetta", in: Lo Spettatore italiano, Vol.2\67 (1822), S. 354-360, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.1072 [aufgerufen am: ].


Ebene 1►

La vendetta

Zitat/Motto► Col più forte è follia,
Coll’eguale è periglio,
Col minore è viltà.

Metatasio. ◀Zitat/Motto

Ebene 2► La vendetta, quello infiammato desio di rendere altrui il male che si riceve, procede soprattutto dal sentimento della propria debolezza, la quale al disprezzo ed alle ingiurie ci espone. Quando i torti che ne si fanno, tolgonsi di mira le proprietà nostre solamente, più noia che sdegno ne eccitano, e più rammarico che odio. Ma ove che feriscano la nostra persona e il nostro amor proprio, ne inspirano un vivo e possente odio, e massime allora reputa l’offeso necessaria la vendetta; allora egli vendetta spirando, estrema la vuole, crudele ed atroce. Pargli di non potere a suo senno recare assai male a colui che provar gli fa l’amaro sentimento della sua fievolezza. Ecco perchè nelle femmine, nei vani uomini, deboli e vili, e in una plebaglia di troppo umiliata è ostinato l’odio e così alla vendetta proclive.

Un altro sentimento accoppia in noi all’odio la vendetta; e questo è il timore dell’ingiurie avvenire, il quale a vendicar ci conduce le ingiurie presenti; ed è medesimamente la voglia di manifestar una forza che schermir ci possa dai torti che altri vorria farci. Presso i selvaggi [355] popoli che mancan di leggi, e presso i barbari ove le leggi non danno ai cittadini sicurezza, è la vendetta dagli uomini riputata siccome un freno necessario contro chiunque volesse o le proprietà, o le persone loro assalire; e questo timore tanto vale appresso di quelli, quanto appresso le incivilite genti fanno l’opinione e i tribunali. Implacabili sono i selvaggi nelle loro vendette, le quali si vanno di una generazione in altra perpetuando, e riescono spesso a interamente distruggerne le orde. Anco negli inciviliti paesi in cui la giustizia non è fedelmente amministrata, si veggono regnare le più crudeli vendette. Perciocchè quando l’uomo non è dalla legge protetto e difeso, egli ricorre alla vendetta, la quale è una maniera di giustizia selvaggia, siccome l’addimanda Bacone.

Era la vendetta appo i Greci adorata come Dea, ed aveva tempii tra quel popolo stesso che gli ergeva alla Pietà. È piena ancor la terra di nazioni che onorano cotal funesta Divinità; ed il culto che le prestano, è barbaro e vile. Se la religione e la filosofia intendono ad estirparla dalle più illuminate nazioni, i pregiudizi però la ritengono, e forzano talvolta anche il saggio ad offerirle dei sacrifizi. E come si può egli ignorare che l’opinione la qual tiene non dover mai un uomo di nobil cuore comportare un’ingiuria, si è un avanzo della barbarie portata in Europa dalle feroci nazioni che un tempo rovesciarono l’impero romano? Come non si sono piuttosto intorno all’onore seguitati gl’insegnamenti di quei Romani medesimi che sempre saranno per tutti i popoli l’esempio del vero coraggio e della magnanimità?

[356] Ha la filosofia per tempo agli uomini insegnato che perdonar si debbono le ingiurie. Ci narra Plutarco che i Pittagorici reputarono sempre lor debito di stringersi insieme la mano innanzi al coricarsi del sole, per segnale di riconciliazione, allorchè si erano scambievolmente corrucciati. Ebene 3► Zitat/Motto► “Non è lecito, dice Platone, di far male al suo simile per qualsivoglia male ch’ei t’abbia fatto; perciocchè la vendetta è sempre inumana.” “Colui è il più virtuoso de’mortali, dice Menandro, che meglio sa sofferire le ingiurie.” ◀Zitat/Motto ◀Ebene 3 Io potrei allegare non pochi moralisti pagani maestri di così fatte massime di umanità, e molti uomini illustri che le hanno praticate; ma ascoltiamo un poco il virtuoso filosofo che, assiso sul trono del mondo, ne ha insieme posto i precetti e l’esempio di perdonar le ingiurie. “Il miglior modo di vendicare un’ingiuria è questo, dice Marco Aurelio, che tu non rassomigli all’ingiuriatore. Mi dispregia forse qualcuno? Egli sel vegga: io, a mio potere, schiferò che in me non si trovi azione o detto che meriti dispregio. Mi odia forse qualche altro? Egli sel vegga: ma io proseguirò a mostrarmi piacevole e benevolo a ciascuno; e a quello eziandio che mi porta odio, io son pronto a fargli vedere l’errar suo, non con dispregevol modo, nè tale ch’io vanti mia sofferenza, ma con benigno ed ingenuo; perciocchè a me si richiede lo essere internamento in guisa disposto, che veggano gli stessi Dei essere mio costume di nulla comportare indegnamente e di mala voglia.”

[357] Se la filosofia de’Pagani vieta con sì forti parole la vendetta, che diremo noi fare la religione cristiana, di cui principale comandamento si è questo di amare i suoi nemici? L’Evangelo non altro respira da per tutto se non se il perdono delle offese; in tanto che chi è più presto a fare o a rendere un’ingiuria che a comportarla, è un malvagio cristiano, o, dite piuttosto, che non è punto cristiano. Ma quanto ci siamo noi dilungati da questi caritatevoli comandi, li quali così per la natural legge come per la religione ci si prescrivono? Anzichè adoperarci a nostro potere di sostenere le ingiurie, noi ci avvisiamo di metterci in basso, ove che non si affetti di essere teneri e delicati, e giudichiamo di farci grandi con sì fatta estrema sensibilità. Per tal guisa nelle nostre vie trapassiamo ogni termine; e sopra coloro che ci dispiacciono, sfoghiamo le nostre implacabili vendette, o veramente prendiamo diletto di opprimerli colla vana ostentazione d’una sofferenza o pietà oltraggiosa che per disprezzo non si muove, e finge tranquilità per insultar di vantaggio. Tanto noi siamo crudeli nemici e vendicatori implacabili, che la pazienza e la pietà eziandio sono da noi adoperate come istrumenti di collera e come arme per offendere!

Ma non son questi ancora i nostri eccessi più grandi; conciossiachè ad essere irritati noi non aspettiamo le reali ingiurie; ma un’ombra, una gelosia, una secreta diffidenza sono sufficienti per armarci l’un contra l’altro, e spesso ci odiamo solo perchè d’essere odiati estimiamo. [358] Ci assale una certa inquietudine: paventiamo d’essere prevenuti, e pei nostri sospetti ingannati vendichiamo un affronto che ancora non è.

Noi perdoniamo a noi stessi così spesso, che dovremmo pure qualche volta perdonare anche agli altri. Se non che dove noi non possiamo nulla sofferire dagli altri, vogliamo all’incontro che gli altri tutto sostengan da noi.

Se chi mal ci fa, è un furioso, perchè irritarlo colle fiere nostre vendette? perchè non anzi cercare di ricondurlo colla sofferenza è dolcezza alla sana ragione?

Più agevolmente perdoneremmo ai nemici le offese, se conoscer potessimo come essi in cuor loro ne sono puniti. Coloro che vogliono farci, per così dire, il veleno del loro odio tracannare, ne fanno essi stessi saggio amarissimo, inghiottendo pei primi il veleno che mescon per noi.

Colla vendetta l’uomo s’agguaglia al suo nemico, ma col perdono gli si soprappone.

Un’anima grande, secondo che dice un antico, reputa rimedio d’un’ingiuria l’obblio.

Sforza il suo nemico ad ingiuriarsi da sè colui che perdona un’ingiuria.

Ebene 3► Exemplum► Non son mica cotali i tuoi sentimenti, o Vindicio “Col perdonare un’ingiuria, tu dici, se ne chiamano altre; vendicarsi bisogna per farsi temere, e a prevenire le ingiurie si richiede lo esser temuto.” Tu confessi che vai meditando una solenne vendetta, e intanto dissimuli per insino a che venga l’ora in cui tu possa farla scoppiare. Ma l’aspettazione di un vero piacere è quel che ci rende sopra ogni altro [359] felice. Or dimmi, o Vindicio, qual sentimento hai provato da quando se’ito preparando il fiero diletto della vendetta? Per certo tu non hai nè piacere gustato, nè riposo; e sempre ti sei sentito o da furiosi movimenti agitato, o da un palpitare secreto; sempre ti han morso e lacerato il cuore divoratori serpenti. Non si chiama egli una vera infelicità il volersi tormentare da sè, perchè fosti offeso da un altro? Col pensare ad ogni ora al ricevuto affronto, tu procacci che vie più nel tuo cuore s’incarni, e più profonda e di più malagevole guarigione rendi la piaga. Tu fai a te stesso più male che il tuo nemico non ha sperato di farti, e ciecamente obbedisci all’odio suo.

Io pongo che tu aggiunger possa a restituire il mal ricevuto. Il fugace piacere che ti porgerà il tuo odio appagato, fia tosto seguíto da durevoli rammarichi; perciocchè vendetta chiama vendetta, e rende eternali le inimicizie. Quando ristarai da questo terribile cambio di contrassegni di odio? Vorrai tu dunque pervenire all’ultimo grado della vendetta, o anzi della crudeltà, quale si è l’annichilare il tuo nemico? Al lasciando stare che tu così esponi a egual ruina te stesso, che cosa è ella mai cotesta vendetta, la quale a chi ne è segno, i mezzi toglie di sentirla, e di avere della sua offesa pentimento? L’uccidere il tuo offensore, dice un moralista, è acconcio modo per ischifare un’offesa avvenire, non a vendicarne una passata. Ella è un’azione che più da timor procede e da precauzione, che da coraggio ed ardire. Trema di spavento il codardo, quantunque [360] volte ei vede in pie il suo nemico; laddove il coraggioso lui vivo e oltraggiato non teme, e pensa che più è segnale di sicuro animo e forte l’abbattere il suo nemico che al tutto conquiderlo, più ridurlo a chieder mercè che farlo morire.

Presupposto ancora, o Vindicio, che tu abbi consumato la tua vendetta, e tinte del nemico sangue le mani, oserai tu di darti vanto della tua orribil vittoria? Anzi tu fuggiresti e procacceresti di appiattarti, perciocchè avresti a paventare gli adirati amici della tua vittima e l’inflessibil rigore delle leggi. Se ti venisse fatto di fuggire la spada della giustizia, non potresti le sventure e l’onte evitare che sempre accompagnano le vili e crudeli vendette. Ti pentiresti d’aver il tuo cieco furore seguíto, e la sorte dell’inimico da te immolato ti sembreria da dover essere compianta men che la tua. ◀Exemplum ◀Ebene 3

Bella cosa il potersi vendicare e non farlo; e dolce il tramutar l’odio nell’amicizia. Lascia che gli stolti chiamino la vendetta il néttare degli Dei. Noi confessiamo ch’ella è il sollazzo degli animi piccoli e vili, i quali offesi si reputano quando son tocchi, laddove proprio è della grandezza il non sentirsi percosso. Il coraggioso e il magnanimo si soprappone alle ingiurie; ma il vile puote sì veramente combattere e vincere eziandio, ma perdonare non mai. ◀Ebene 2 ◀Ebene 1