Lo Spettatore italiano: La pigrizia
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La pigrizia
Citation/Motto
Arcum
intensio frangit, animum remissio . . . . Fax
immota torpet, ignem agitata restituit . . . . Quies
tibi, non desidia sit. Nil posse, hoc est mortuum
vivereL’arco il tendere, la mente rompe il cessare . . . .
immota torpet, ignem agitata restituit . . . . Quies
tibi, non desidia sit. Nil posse, hoc est mortuum
vivere
(Senec.).
L’arco il tendere, la mente rompe il cessare . . . .
Fiamma senza vento
languisce, agitata rende fuo
co . . . . Riposo ti si conviene, non negligenza . . . .
Non
poter cosa veruna operare è un viver morto.
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Nota un celebre moralista, che nessun difetto è da noi confessato,
quanto la negligenza e la pigrizia, perchè ci persuadiamo forse che abbiano alcuna connessione colle
virtù dolci e tranquille, e che senza distruggere interamente le altre virtù, ne intertengano
solamente l’operazione; quindi è che in luogo di provarne rossore, spesse volte ce ne diamo vanto. E
donde mai nasce l’errore? dalla natura stessa di questa passione, la quale talvolta non è pure nota
a noi stessi, perchè n’è insensibile l’azione, lento e torpido il passo; ma se vien di piano,
cammina però continuamente e più a lungo, e perviene ultimamente a far più ruina che gli altri vizi.
Qualunque altro de’più sollicitatori sarebbe a sofferir meno servile, che questa ruggine dell’anima,
la quale sordamente rode e scema tutte le virtù.
Certi temono la fatica, e si vergognano di non far nulla. Si dispongono ad operare, fanno i
loro conti, formano disegni, mettono insieme materiali, e finiscono prima del principio. Non si può sperar opera dal maestro che tutto di macchina ferramenti, e nessuno mai ne gli
piace. Molti, trascurando i doveri del proprio stato, s’impacciano in cose estranee per nasconder a
se stessi la propria pazzia, ed ingannare la gente con simulate occupazioni.
Vi sono altri i quali occultano a se stessi la loro pigrizia, come fa
Ci vivono di quelli che nell’ozio faticano più di qualunque sollecito lavoratore.
Scambiano talvolta l’ozio per l’oziosità; ma l’ozio di chi conosce il prezzo del tempo, è
simile all’occupazione; e colui che ne gode, può renderne ragione come d’un suo travaglio. Tanto è
da porre innanzi all’oziosità la fatica, secondo Platone, quanto il lucido del metallo alla ruggine.
L’oziosità, simigliante alla ruggine, logora altrui più che la fatica. Faticare in cose inutili,
tanto vale quanto essere ozioso. Fatica e piacere, così fra lor differenti, si congiungono per non
so che naturale accordo, a giudizio di Montagne. Ond’è che niuno è al piacere tanto stupido, quanto
l’infingardo. Il frutto della fatica è il più gradito di tutti i piaceri, conforme a che avvisa un
moralista. La perseveranza nella fatica è la prima mercede della fatica stessa. La
pigrizia introdusse nel mondo la noia, contro la quale è più preservativo rimedio la fatica che il
piacere.
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È Torpilio, e si confessa, un pigro di professione: va superbo di non
far nulla, e ringrazia il suo destino di non aver nulla da fare. Dorme tutte le sue
notti finchè può tener gli occhi chiusi, e non si leva che per procacciarsi col mangiare la facilità
di dormire ancora. L’unica sua occupazione è di variar modo al suo poltroneggiare; e tanto il suo
giorno dalla sua notte differisce, quanto lo scanno dal letto.
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Oppio non si fa un merito della sua pigrizia, ma si è dato in braccio
ai suoi allettamenti, ed ha così renduti inutili i più bei pregi della mente e del cuore. Egli
incresce a sè e incresce altrui; e se non lo abborrono, pur lo fuggono; perciocchè egli è uom
dabbene, ma non lo fa a persona; è uom d’onore; ma non istà mai ad una promessa. Quantunque egli
abbia ingegno e sentimento, tiene una condotta assurda, e spesso fa torto agli amici suoi, per la
ragione che chi abbandona la cura di sè, dee di necessità nuocere altrui. Oppio non ha alcuna
professione, perchè la pigrizia non gli ha concesso d’apprenderne interamente una sola; e se
l’interesse lo ha indotto a tentare alcuna impresa, egli, per difetto di costanza e di
sollicitudine, non ha mai avuto buona riuscita. Adesso ha cominciato a fargli guerra il bisogno,
quel capital nemico della pigrizia, la quale già lo ha combattuto e vinto; ed ora egli si rassegna a
patire tutte le pene della povertà, anzi che di riscuotersi da quello che egli chiama suo riposo.
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Lucio, magistrato di professione, non apre mai un libro di
giurisprudenza; è incapace d’informare in una causa, e non si asside le più volte al banco della
ragione, che per gustarvi un placido sonno; e se n’è da alcuno rimproverato, si scusa col dire che
ha passato gran parte della notte a considerar le stelle. Che vai tu, o Lucio, a cercare nel cielo?
gli disse un suo amico: gli sciagurati che devi giudicare stanno in terra. Anche la chimica ruba
tempo a Lucio: ha il suo laboratorio ove egli acque ed essenze stilla, e ne numera riposatamente le
goccie dalla storta lagrimate; ma pone in dimenticanza che ad ogni goccia che cade, fugge, per non
più tornare, un momento, ed è perduto per la società, che tutto il suo tempo addimanda.
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Levigero, che sempre occupato in puerili ciance si dà a credere di
esser uomo d’alto affare e di grande utilità al mondo. Sgrida egli incessantemente i dormiglioni, e
spende gran parte del giorno a carpire ragni e contarne gli occhi col microscopio. Un’altra delle
sue grandi occupazioni è quella di tenere un esatto registro delle variazioni de’venti; e il frutto
di sì grande studio sarà di morire pienamente convinto che i venti sono variabili.
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Anelio non trova un’ora di pace; egli ha più di cento amici
strettissimi, ed altrettante sono le persone ch’egli si tiene in officio di coltivare; ogni dì ha
venti poste che lo invitano a desinare, e non sa a quale rispondere. Egli è sempre alle strette,
sempre in briga. Non è teatro, non passeggio, non funerale, non supplizio al quale egli non si
ritrovi presente. Egli visita continuamente officine, fondachi e magazzini, quasi a lui la
soprantendenza e la general procuragione dell’universo sia accomandata. Anelio torna a casa sempre
dopo la mezza notte, e va a letto stracco morto dal non aver fatto niente.