Citazione bibliografica: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero XI", in: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.2\11 (1764), pp. 357-484, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.991 [consultato il: ].


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N.° XI

Roveredo I.o marzo 1764.

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Risposta del C. A. D. R. ad un amico sopra il Ragionamento del Matrimonio di un filosofo mugellano. In Firenze 1763 nella stamperia di Francesco Mouke, in 4.o

Metatestualità► Perchè un libro sia oggidì avidamente letto da ogni classe di persone in Italia, è divenuta cosa indispensabile che ribocchi principalmente di costume grossolano, e di morale quanto più si può animalesca.

Di questa brutta verità io potrei addurre più d’un esempio, e potrei corrobo-[442]rarla pur troppo con un lungo catalogo d’autori e nostrali e oltramontani, che con somma nostra vergogna fanno la quotidiana intellettuale delizia de’nostri odierni leggitori. Ma perchè questo è un topico sul quale o tosto o tardi io intendo di diffondermi ampiamente, e con tutta quella collera che si conviene a una tanta nostra pravità di cuore e ciechezza di mente, dirò ora, e soltanto di passaggio, che i nostri posteri avranno molta ragione di considerare la parte maggiore de’loro leggenti antecessori del decimottavo secolo come un branco di molto materiali e sozze bestie, quando saranno informati da’loro storici letterarj del gusto che in fatto di libri prevaleva generalmente nella loro contrada, e massime verso la seconda metà di tal secolo. ◀Metatestualità

Com’è possibile, diranno que’nostri posteri, com’è possibile, che quel periodo di tempo sia stato tanto infetto e guasto, quanto appare a noi che fosse; e come si può che quelle genti s’inducessero a leggere senza nausea, senza ribrezzo e senza sdegno, anzi pure con avidità somma, una fattura sì vile, sì turpe, sì stomachevolissima, qual era, verbigrazia il libercolo del Matrimonio scritto dal filosofo mugellano? Come potevano quegli abbietti uominacci essere tanto e mentecatti e immondi da inghiottirsi come spi-[443]ritoso e gentile un discorsaccio, che tratta con tanto porchesco vilipendio quella dolce, quella degna, quella letificantissima creatura creata dall’ineffabile Bontà per conforto, per ausilio, e quasimente per unica giocondezza nostra in mezzo a’guai innumerabili di questa nostra vita nubilosa sempre e travagliosissima? E che diavolo di fantastici affetti volevano que’pazzi sostituire al legittimo amore verso il bel sesso, che con tanta ingordezza leggevano l’opere di coloro che più si studiavano di sbarbicare quel legittimo amore da’lor cuori? Che cervelli, che animi, che sensi avevano mai quegli uominacci?

Ma sento un difensore del decimottavo secolo rispondermi con una stizza eguale alla mia: e che diavolo di’ tu, Aristarco! E dove ti lasci tu trasportare, cinico vecchiaccio, dal tuo donchisciottesco zelo? È perchè non fai tu le debite eccettuazioni in questa tua barbara invettiva, quando vedi che appena uscito del torchio il prefato libercolo, un nembo di scrittori è alla tomba dell’autor suo, e sgrida quasi al cadavere in cui abitò un dì quella mente che pensò quella dannata opericciattola? Non è questa una irrefragabile prova che tutti i leggitori d’Italia nostra non sono ancora tutti infetti, tutti guasti dal mortifero veleno contenuto in quella?

Così a un dipresso mi risponde don [444] Petronio quando mi sente parlare con più bizzarria del solito di questo mio caro secolo; anzi per farmi rimanere con tanto di barba, mi diss’egli pur ora, to’, Aristarco, to’, e leggi questa risposta d’un C. A. D. R. diretta ad un suo amico sopra il Ragionamento del Matrimonio; ragionamento da te tanto abbominato. To’, ch’ella è stampata proprio in Firenze, perchè si possa con ragione da te ripetere quel tuo frequente arabico detto, che « dove l’angelo nero semina il nappello e la cicuta, l’angelo bianco fa nascere il dittamo e la panacea ».

Oh, don Petronio, don Petronio! Così non l’avess’io letta questa risposta di C. A. D. R., che non sarei ora di questo mal umore ch’io sono! Affè, don Petronio, che il più pigro e il più sfiancato scritto di questo non è stato scritto mai in prosa, dacchè il Goldoni scorbiccherò le sue dedicatorie, e il Chiari la sua Pellegrina! Gran chè, che queste nostre benedette regioni abbondino tanto di genti, che vogliono pur fare quello che meno sono atte a fare!

Ecco qui dunque, don Petronio mio, questo tuo C. A. D. R., il quale fornito non meno di prosunzione che di stupidezza, s’è voluto anch’egli lanciare all’orecchio del nostro feroce toro mugellano, senza voler punto pensare alla di-[445]minutiva misura delle sue forze, che sono d’un cuccioletto da Bologna, anzi che d’un mastino di Corsica, com’era d’uopo fossero perch’egli potesse avere qualche ragionevole fiducia di atterrare una tanta bestia.

Dopo d’avermi questo tuo C. A. D. R. seccata bastevolmente l’erba col suo prolississimo modo d’introdursi a dire quelle inettezze che s’apparecchia a dire; dopo d’avermi informato a difesa dell’autore, ch’egli è « morto avanti la pubblicazione del suo libro »; dopo d’avermi assicurato solennemente che messer lo filosofo fu un «anatomico dottissimo riputato molto dotto »; dopo d’avermi aggiunto che « lieto condusse a casa sua una seconda moglie»; e dopo d’avere ponderatamente riflettuto che «a buona equità» non si dee credere sia stato il Discorso scritto in vecchiaja dal Mugellano, ma sibbene in gioventù, e in somma dopo d’avermi detto con molto abbindolamento di boccacciana frase, come « di strano apparisce che gli uomini tanto e tanto, e più certo che una decente convenienza richieda, alle donne stieno appresso, e quelle con mille corteggi, anzi amorose ed appassionate stravaganze seguitando, alcuna di loro di spirito e d’ogni virtù ornata », eccetera, eccetera. Dopo tutte queste ed altre maladettamente importanti [446] cose, il C. A. D. R. viene in tanta malora a dirci alcune centinaja d’altre cose che non han punto che fare colle massime ch’egli intende di confutare; e poi ne dice alcune altre centinaja d’altre, che non le confutano; senza contare alcune nuove centinaja e centinaja d’altre, e d’altre, e d’altre, che non occorreva si dicessero, perchè già tritissimamente sapute da tutti quelli che si sanno affibbiare le scarpe.

Non ti muov’egli, per esempio la bile, don Petronio mio, il sentirsi dire con mille parole da un goffo imitatore del Boccaccio, che se si abolisse il matrimonio si farebbe cosa non coerente alla religione? Faceva egli duopo di dirci questo, e di dircelo con un diluvio di ciance? V’è egli alcuno fra quelli che professano religione, che abbia mestieri d’una tal notizia? E qual è quel Cristiano così poco ricordevole del suo catechismo, che non sappia come il matrimonio è stato istituito da Dio, o, per dirlo con la gonfia frase del nostro baggeo, « vanta la sua istituzione da Dio? » E perchè dirci etiam con un altro diluvio di ciance che « l’unico Signor nostro e Maestro l’ha innalzato al grado sublime ed altissimo d’uno de’Sacramenti, e per tale lo ha alla sua Chiesa ed a’suoi fedeli proposto? » Chi è Cristiano, sa queste cose ab [447] infantia, e le crede: ma chi scrive del matrimonio con quel ludibrio che ne scrisse il filosofo mugellano, non è Cristiano, ma è filosofo mugellano; e con questi filosofi mugellani non basta ripetere affermativamente qualche paragrafo del catechismo, ma bisogna provare con ragioni evidenti e palpabili tutto quello che uno vuol affermare da essi impugnato, se non per convincerli, almeno per impedire che le loro perverse opinioni non sieno ricevute come dogmi dagl’inesperti, e per far argine a que’cattivi effetti che gli scritti loro possono produrre nelle menti degl’ignoranti; ma chi non si sente forze bastevoli da far tanto, ha da tacere per non fare anzi peggio che meglio, se non vuol essere con giusta ragione chiamato un bel pezzo d’ignorante prosontuoso.

Tu qui mi risponderai, Zamberlucco mio, che si anderebbe all’infinito chi volesse intraprendere di provare agl’increduli punto per punto ogni cosa ch’essi non credono; ed io qui ti do quanta ragione ti posso dare; ma quel messer C. A. D. R. doveva almeno dire qualche cosa in difesa del matrimonio tanto bruttamente malmenato dal mugellano, poichè voleva pure confutare i suoi detti e le opinioni sue. Poteva dire esempligrazia, che una buona parte di que’malanni da cui un [448] uomo ammogliato è distratto, non iscaturiscono dal matrimonio in sè, che non può di sua natura essere una sorgente di lunghi mali, o un impedimento di costanti beni; ma sibbene dalla inalterabile natura di tutte le sublunari cose, che non sono punto suscettibili di beni atti a riempire la vastità de’nostri desiderj e a pienamente contentarli, se si potessero anche tutti soddisfare immediatamente dopo concepiti. Poteva dire che se abbiamo di molti pesi nel matrimonio, e di molti sconci, e di molti guai, ogni altro stato che l’uomo possa immaginarsi è pure abbondante di pesi, di sconci e di guai, perchè così è questa mortale condizione nostra ordinata. Poteva dire che pochi uomini hanno ragione di lamentarsi del matrimonio, perchè pochi s’ammogliano con quella prudenza con cui dovrebbono ammogliarsi; e perchè anzi pigliano moglie indotti da giovanil balordaggine; o stimolati da un intemperato amoraccio; o mossi da un vile interesse; o spinti da una pazza ambizione; o precipitati da un frivolo puntiglio, e pochi pochissimi tirati dalle virtù civili e morali d’una bea educata fanciulla. Poteva dire che l’uomo savio, cioè l’uomo persuaso che in questa vita v’è poco ben fisico; l’uomo che ha le idee ben ordinate, l’uomo che sa frenare i suoi impetuosi appetiti e desiderj, l’uomo in som-[449]ma d’animo grande e forte e di cuor tenero e retto, è forza che nel matrimonio sia meno angustiato da’mali fisici egualmente che dagl’immaginarj, che tutti angustiano dal più al meno in questa vita, perchè nella bene scelta moglie ha contro que’mali uno scudo con difficoltà falsato dalle saette delle naturali avversità; e che, se talora è da quelle inevitabilmente tôcco, come è il caso di forse quanti uomini vivono, ha nella buona e gentil moglie un dolce balsamo, un elisire quasimente celestiale, che a poco a poco lo ristora e lo risana dalle ferite di quelle saette, sieno esse quante esser si vogliono profonde e crudeli. Poteva dire che chi passa tutta la vita nello stato di scapolo, la passa in uno stato nulla affatto conforme alla natura nostra, quando una virtù adjutrice discesa dall’alto non lo chiami celibato religioso. Poteva dire che se molti si dogliono di non trovare nel matrimonio quelle ineffabili dolcezze che si lusingarono di trovarvi prima d’entrarvi, hanno a biasimarne la loro ghiribizzosa e sfrenata immaginazione, dalla quale si lasciarono promettere più assai che la natura delle umane cose non può somministrare. Poteva poi contrapporre agli affanni degli ammogliati gli affanni de’non ammogliati, e mostrare con quanta insipidezza, noja, malumore e divo-[450]ratrice ipocondria vivano que’pochissimi riservati, che non ruppero mai le chiusure della castità; e come sieno travagliati nell’animo e nel corpo quelli che sostituirono ne’loro begli anni la dissolutezza de’lupanari al matrimonio, o che fecero il pericoloso, infame ed ansioso mestiero di sedurre le mogli, le sorelle e le figliuole degli amici e de’conoscenti. Poteva e col raziocinio e cogli esempj mostrare, contro l’affirmativa del Mugellano, che per quanto gli uomini s’immergano nei negozj, o si sprofondino negli studj, non sarà loro mai possibile d’impedire i loro pensieri dal correre con frequenza alla contemplazione della donnesca bellezza, e per conseguenza dall’essere tormentosamente agitati sempre dalla brama di possederne il loro briciolino in santa pace per rinfrancarsi un po’ l’animo ed acquetarlo a tempo a tempo con così giusta soddisfazione, e renderlo in tal guisa atto all’ostinato proseguimento di quegli studj e di que’negozj.

Ma invece d’andare con questi ed altri somiglianti argomenti addosso al suo filosofo, questo confutatore stucchevolissimo, questo sommo seccatore, questo insulsissimo ciancione che s’intitola C. A. D. R. ne versa in capo molti cestoni di sentenze e di testi; ne dice che l’istituzione del matrimonio è divina, come se alcun di [451] noi nol sapesse, o gliel negasse; ne dice che è un’istituzione gloriosa, ed altissima, ed ammirabile, come se nell’epiteto di divina non fossero già compresi i più sonori epiteti che la lingua toscana s’abbia; e ne dice che tale istituzione è « altissima ed ammirabile anche a’nostr’occhi sopra ogni modo, non essendo stata fatta per qualche caso estrinseco; e che in statu naturae integræ anche il mangiare e il bere erano azioni spirituali ordinate all’uomo, « perchè (senti questa fiorentineria, don Petronio), perchè sovvenisse alle sue bisogne; e perchè conoscesse ch’egli era ancora in istato di viatore ». Quindi soggiunge nello stesso ricadioso tuono, e sempre più allontanandosi dal suo scopo di confutare il filosofo, che l’agricoltura non fu dapprima «un supplizio dell’uomo, ma la gioja e le delizie sue, e che l’uomo in quella si esercitava più interiormente che esteriormente; e che il concubito carnale era anco necessario nello stato d’innocenza; e che il matrimonio dev’esser lodato, e venerato in statu naturae lapsæ; e che l’uomo un tempo era la più perfetta creatura della terra; e che non si deve credere a’Talmudisti (e chi lor crede?), le tradizioni de’quali pretendono che Adamo innanzi ad Eva avesse un’altra moglie chiamata Lilith; e che pe’nostri genitori speciale affezione, anzi [452] attaccamento cordiale aver si deve »; seguendo in somma ad ammorbarci con una pestilenza di tante filastrocche scempiate, e fuori di proposito, e così poco al bisogno per abbattere gli astuti e diabolici sofismi dell’avversario, che scusami, don Petronio, mio se straccio queste poche pagine di questa Risposta per riaccendere questo fuoco, che ci è miseramente morto dinanzi mentre noi eravamo ingolfati a fare di questa melensa tiritera troppo più parole che non merita da due uomini pari nostri: e dammi qui quel fiasco, ch’io ho bisogno di rinfrescarmi alquanto le fauci. ◀Livello 3

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Il Giovane istruito ne’Dogmi cattolici, nella Verità della Religione Cristiana, e sua morale; con i principj della geografia, della storia, della filosofia, e astronomia, e colla spiegazione della teologia de’Pagani, da Geminiano Gaetti, parte prima. In Venezia 1759. Appresso Antonio Zatta, in 4.o

Metatestualità► Tra le varie classi de’nostri moderni scrittori io trovo che la più numerosa è quella di coloro, i quali non si sono dati che allo studio d’una cosa sola. Di questa veramente troppo numerosa classe io venni mostrando in questi fogli, che non sono e non voglio essere gran fatto parziale, essendo molto risoluto in questa [453] massima, che « chi si mette a scrivere un libro, che tanto vale quanto dire, chi presume d’esser inchiuso fra quelli che hanno ad essere a ragione onorati da ogni sorta di gente come maestri universali », non soltanto deve avere a menadito la materia di cui si vuole trattare in quel suo libro, ma bisogna sia in caso di corredare il suo principale studio con una più che mediocre infarinatura d’innumerabili cose anche a prima vista straniere al suo assunto, perchè nessuna cosa è più nojosa a leggersi d’una cosa uniforme, e perchè l’utile e il diletto che a noi viene da qualunque libro è forza che derivi da un ben inteso legamento di moltiplici cognizioni, che si dieno mano l’una l’altra, e che si sostengano, s’invigoriscano, e si rischiarino a vicenda.

Coloro dunque che sanno di non sapere che una cosa sola, non si arrischino più tanto a farla da maestri universali, se non amano di sentire il fischio della Frusta d’Aristarco. Aristarco non sarà mai troppo propizio verbigrazia a quel filologo, il quale non sa far altro che additare inesattezze di sintassi e distinguere fiorentinamente tra i vocaboli più o meno cruscheggianti: Aristarco non sarà mai troppo favorevole a quel geoponico atto solo a discernere se la mano del cultore meni con la [454] debita obbliquità la falce pel prato, e con la giusta dirittura l’aratro pel campo: Aristarco non farà mai troppa grazia a quel botanico sol buono a registrare arbusti e muffe nelle loro linneane famiglie: Aristarco in somma non la perdonerà mai a nessuno di quegli scrittori, che scorgerà non avere studiata che una cosa sola. Chi non ha viaggiato che per un’unica provincia del vasto impero d’Apollo e di Minerva io voglio che si contenti d’essere domesticamente ammirato nel breve cerchio de’suoi amici e conoscenti. Questa è mercede sufficiente e adeguatissima a’suoi scarsi meriti. L’anatra ha a stare coll’altr’anatre intorno a quell’acquicella presso cui nacque, e il cucco ha a svolazzare ne’confini del suo bosco, senza lasciarsi mai venire il matto capriccio di seguire le baldanzose tracce de’falconi e dell’aquile. Sia permesso (e qui dico verbigrazia un’altra volta, perchè verbigrazia è un vocabolo che mi riesce molto comodo), sia permesso all’abate Genovesi d’insegnare al mondo come s’ha a fare per aggirarsi ne’ più cupi fondi dell’anima umana, poichè l’abate Genovesi sa pure ad un bisogno penetrare ne’più reconditi meati della terra, o attraversare gl’immensi spazj frapposti fra globo e globo: ma l’abate Guarinoni, valoroso soltanto nell’arte d’acchiappare i tordi e i [455] fringuelli, o l’abate Vallardi, atto solo a profondamente meditare sui punticini e sulle virgolette, per cui le abbreviature d’un secolo si distinguono da quelle d’un altro secolo, sieno contenti quindinnanzi d’informare colla sola voce qualche compatriota loro in qualche sua ora d’ozio de’loro stupendi progressi in que’loro due studj miserelli, e non facciano più sciupar carta dagli stampatori, se prima non fanno sforzi d’ingegno maggiori assai di quelli che non han saputo sinora fare, altrimenti la Frusta d’Aristarco fischierà loro maladettamente negli orecchi.

E qui mi dia licenza quel cavaliere di Lucca, fattosi mio corrispondente il primo giorno di quest’anno, di schiettamente dirgli, che non saremo gran fatto amici, se vorrà tuttavia esortarmi a lasciar fuora que’preamboli, co’quali io sono solito introdurmi a far parola di questo e di quell’altro libro. Se le mie lucubrazioni gli vanno a verso, le legga in santa pace, e se gli è vero che ne cavi qualche profitto, buon pro gli faccia: ma non s’attenti più a dare de’consigli ad Aristarco, che ha vissuto quarantacinqu’anni più di lui, perchè i vecchi mal soffrono sempre d’essere consigliati dai giovani. Io non voglio altro consigliere che il mio savio don Petronio, perchè con la mia viva voce presto gli posso far mettere le pive in sacco, [456] ogni qualvolta dà nel segno co’suoi consigli, cosa che non potrei fare senza mio soverchio sconcio con quelli, a’quali non posso parlare che per via di lettere. Al signor cavaliere deve bastare che i miei preamboli sieno sempre conducenti allo scopo ch’io mi sono principalmente proposto, il quale scopo non è solo di mostrare i massicci errori commessi da questo o da quell’altro scrittore passato, ma è anche d’impedire che gli scrittori futuri non commettano errori massicci.

E non è egli appunto un errore assai massiccio quello che si commette da chiunque non ha studiata che una cosa sola, e che vuol pure spacciarsi per maestro del suo prossimo in istampa? I maestri del prossimo hann’eglino a sapere una cosa sola? Signor no, signor no. È n’hanno a sapere molte moltissime, come è il caso, per mo di dire, di quel signor Geminiano Gaetti, scrittore del libro di cui ho registrato il titolo prima di fare questo preambolo; del qual libro mi faccio ora a dire brevemente il mio parere senza menarla più per la lunga.

L’opera dunque del signor Gaetti è divisa in due tomi. Del secondo parlerò un’altra volta. Ora non vo’dire che del primo, il quale contiene dieci trattati. ◀Metatestualità

Livello 4► Eteroritratto► Il Primo Trattato è diviso in due brevi parti. La prima comincia con giustificare l’orgoglio de’Greci e de’Romani, che [457] chiamavano barbari tutti i popoli da essi conosciuti, perchè essi soli erano a’lor tempi nel mondo che coltivassero le scienze. Quindi enumera i beni che dirivano alle genti da tale coltura, e si mostra tanto innamorato del sapere, e trova in esso tanta felicità, che sta quasi per decidere non aver gli uomini alcun bene che sia maggiore del sapere. A questa opinione del signor Gaetti io non voglio mostrarmi troppo avverso. Voglio però dire di non aver osservato in generale che i saputi sieno gran fatto più felici in questo mondo degl’ignoranti. Gli è vero che gl’ignoranti non godono tanti piaceri intellettuali, quanti ne godono i saputi; ma i saputi provano dall’altro canto delle intellettuali pene così vive, che fanno loro talvolta increscere una cosa produttiva di soverchia sensibilità a’mali di questa vita, quale è per lo più il sapere. Bella cosa è, lo confesso anch’io col signor Gaetti, il sentirsi rendere la mente vasta dalla filosofia; ma non posso non trovare un po’ tormentosa quella smania che incessantemente mi rode d’accrescere le mie cognizioni, e più tormentosa ancora quella stizza e quella nausea che mi è mossa o da’ vizj, o dagli assurdi altrui, da me scorti e distinti troppo chiaramente per virtù del mio sapere; senza contare gli sconci che un ostinato e continuo studio [358] mi procura, come a dire i dolori di capo, il dilombato, le indigestioni, il consumo della vista, ed altre tali delizie. Tutti questi guadagni che si fanno per lo più da chi si sforza d’acquistar sapere, non mi pajono pezzi di felicità, e mi fanno pur conchiudere a mio dispetto che neppure il possedimento perfetto di tutte le più squisite scienze ne può condurre da questo mal canto della tomba a quella tanta felicità, che il signor Gaetti va promettendo a’giovani studiosi. Questo mio dire però non ha da distogliere alcuno de’miei giovani e studiosi leggitori dal proseguire con alacrità negli studj suoi, riflettendo sempre, che quanto più un uomo sa, tanta più possanza acquista di giovare agli altr’uomini. Basta che i giovani studiosi si persuadano per tempo, che non occorre studiare con troppa lusinga d’aver a vivere con molta feticità, fatto che si sia nel capo loro un cumulo grande d’idee e di notizie. Bisogna studiare coll’unico fine di poter giovare ad altrui; il qual fine si otterrà più facilmente studiando, che non conservandoci ignoranti. Questo fine si deve proporre chi dalle sue circostanze e dal suo genio è spinto alla vita studiosa, anzi che alla vita meccanica. Tolomeo, Copernico, Galileo, Cassini, Torricelli, Boerhave, Newton, e gli altri nominati dal signor Gaetti, furono uo-[459]mini, sulle di cui vestigia è ben camminare; ma non occorre perciò darsi ad intendere che fossero uomini più felici degl’altri uomini perchè più dotti. S’egli erano meno soggetti alle afflizioni e a’mali di quel che lo sia la comune degl’ignoranti, poco obbligo, cred’ io, ne dovettero avere alla loro notizia della natura e delle cagioni del moto, degli effetti che esso produce, o alla notizia delle qualità, del peso e della struttura dell’aria; e delle cause de’tremuoti, de’fulmini, de’tuoni, de’venti e delle pioggie; e dell’origine de’fiumi, de’fonti e delle piante; e del flusso e riflusso; e delle migliaja d’insetti che discopronsi co’microscopi; e della lontananza e grandezza di tanti corpi celesti che si vedono col mezzo di telescopi, ed altre simili notizie. Altro ci vuole, per farci vivere nella felicità questi nostr’anni, che sapere che il sole è un globo immenso di fuoco, grande un milione di volte più della nostra terra, lontano trentatrè milioni di leghe da noi! Altro che sapere, che Mercurio e Marte sono globi men grandi del nostro, e che intorno a quello di Saturno v’è un bel cerchio di lune! Tutta la scienza astronomica del Boscovich e del Bradley è bella e buona, e serve a regolare il timone d’una nave che va coraggiosamente solcando questo e quell’altro mare, e serve [460] a molt’altri usi e fini eccellenti; ma non facciamo credere al Giovane da noi istruito, che queste e somiglianti sorte di cognizioni lo abbiano a rendere felice tosto che le possiederà, perchè questo sarebbe anzi un ingannarlo che un istruirlo. Inculchiamo sempre nella sua mente che quanto più s’avanzerà nelle scienze, tanto più sarà in caso d’esser utile altrui nella sua sfera, come nella sua il zappatore, che quanto più zapperà il suo terreno, tanto più gli farà produrre di che dar da mangiare ad altri affamati com’esso. Soprattutto, procuriamo di fargli capire di buonora, che i Romani e i Greci andavano molto errati nel loro montare in orgoglio perchè sapevano più degli altri popoli. Il frutto del sapere non ha ad essere l’orgoglio, ma piuttosto l’umiltà. È un sapere affatto bastardo quel sapere che ne fa germogliar orgoglio nel cuore. L’orgoglio anzi è figlio dell’ignoranza; e chi ha la mente molto rischiarata da multiplicità di cognizioni, s’accorge tanto presto dell’impossibilità di sapere le tante cose che occorrerebbe sapere per meritare con giustizia il titolo di dotti, che bisogna accoppii alla chiarezza della mente una picciolezza o una pravità di cuore molto grande, perchè si possa conservare orgoglioso di quella sua moltiplicità di cognizioni, ancorchè l’acquisto d’esse gli abbia costato gli anni e gli anni.

[461] La seconda Parte del Trattato Primo del signor Gaetti contiene « un Saggio de’principali doveri d’un maestro destinato all’educazione della gioventù ». In questo Saggio egli la discorre veramente da galantuomo, esortando i maestri a Livello 5► Citazione/Motto► « studiare e a penetrare da principio nel genio e nel carattere de’fanciulli e de’ giovani; ad applicarsi a conoscere il loro umore, la loro inclinazione, i loro talenti, e specialmente a scoprire le loro passioni dominanti ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Spazia poi sui diversi naturali de’fanciulli e de’giovani, e mostra come il maestro deve regolarsi secondo la diversità di que’naturali, adoperando con chi il rigore, con chi la lode, insistendo giudiziosamente sulla necessità che ha un maestro di prendere assai autorevolezza sugli scolari suoi, perchè questi si lascino da esso volentieri e ciecamente condurre per la via che li vuol condurre; ed insegnando il modo di acquistare quella necessaria autorevolezza. Livello 5► Citazione/Motto► « La somma abilità d’un maestro, dice il signor Gaetti, consiste nel saper unire con saggio temperamento una forza che ritenga i fanciulli senza infastidirli, e una dolcezza che li guadagni senza renderli prosontuosi, perchè da una parte la dolcezza del maestro toglie al comando quanto ha di duro e d’austero; e dall’altra la sua prudente severità fissa ed arresta la leggerezza e [462] l’incostanza d’una età ancora poco capace di riflessione ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 E più sotto raccomanda al maestro Livello 5► Citazione/Motto► « che prenda sentimenti di padre verso i suoi discepoli; che non abbia vizj, e non ne soffra negli altri: che la sua austerità niente abbia di duro, e la sua facilità niente di molle, temendo di farsi odiare o vilipendere. Che nella sua maniera d’insegnare sia semplice, paziente, esatto, e faccia più fondamento sopra la sua diligente assiduità, che sopra la fatica de’suoi discepoli; che si rechi a piacere il rispondere a tutte le domande che gli faranno; che le prevenga e gl’interroghi ancora se essi non gliene fanno »; ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 seguendo di questo giudizioso ed onesto passo sino al fine del capitolo, o sia della seconda parte del primo Trattato.

Il Trattato Secondo s’aggira intorno a’ dogmi cattolici, ed alla morale evangelica, e mostra di passaggio che la Religione, Livello 5► Citazione/Motto► « o si consideri nell’indipendenza dello stato di natura o relativamente allo stato civile, è sempre il principale e più stabile fondamento della società, perchè somministra della bontà a tutti, della giustizia a’principi, dell’integrità a chi governa, della sincerità nel traffico, dell’unione ne’matrimonj, e della fedeltà ne’sudditi ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Tutto quello che il signor Gaetti dice sulla necessità d’essere religiosi mi piace assai; [463] ma non posso dire che mi piaccia la sua divisione delle religioni in cinque; perchè cominciando da quella ch’egli chiama religione naturale, dice che è Livello 5► Citazione/Motto► « impressa nel cuore di tutti gli uomini, e che consiste nel conoscere un Dio creatore e conservatore di tutte le cose, nell’amarlo, e nel non fare ad altri, se non quello vorressimo fosse fatto a noi ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Egli s’inganna a partito se crede che gli uomini abbandonati alla cura della natura possano avere questa religione così da esso definita; perchè gli Ottentotti, i Caraibi, e molt’altre nazioni d’America e d’Affrica, che vivono assai secondo la natura, non hanno il minimo grano d’una tal religione: non conoscono Dio, non sanno ch’egli sia creatore e conservatore di tutte le cose; non l’amano per conseguenza; e fanno continuamente male altruì, quantunque non amino che loro sia fatto alcun male. Molto migliore è quello ch’egli seguita a dire Livello 5► Citazione/Motto► « della grazia, de’sagramenti, de’peccati, della penitenza », ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 eccetera. Non avrebbe però fatto male nel paragrafo de’miracoli a lasciar fuora il racconto del caso succeduto a quel Genovese entrato furtivamente in quella moschea de’Saraceni; che oltre all’essere probabilmente un racconto favoloso, è troppo plebeo e sporco, e nulla punto conducente alla maggior perfezione del suo Giovine istruito. Avrei [464] anche qualche critica postilla da fare a quella sua massima nel paragrafo IX Livello 5► Citazione/Motto► «che una promessa è affatto vana quando si viene ad esservi costretto da un’ingiusta violenza»; ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 ma lascio andar questo per ora, non ammettendo la brevità del mio foglio una discussione che dovrebb’essere un po’ lunghetta di sua natura.

Il Terzo Trattato è di geografia, e può benissimo servire a dare una sufficiente idea ad un giovane di tale scienza. Mi stupisco però ch’egli abbia detto Livello 5► Citazione/Motto► « la religione dominante d’Inghilterra, di Scozia e d’ Irlanda essere la calvina ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Gli è vero che in Inghilterra vi sono molti Francesi rifugiati che sieguono la dottrina di Calvino; ma gli Anglicani detestano i Calvinisti; e tutto il mondo sa quanti sforzi hanno fatti per estirparli dal loro regno insieme col loro governo ecclesiastico presbiteriano, che non s’è potuto mantenere che in Iscozia, le di cui montanine parti si conservano tuttavia cattoliche a più potere; e in Irlanda non v’è quasi calvinista nessuno; che gl’Irlandesi o sono cattolici, o sono anglicani, tutti nemici egualmente della setta calvinistica.

Il signor Gaetti dice, non so con qual fondamento, nel paragrafo X di questa sua Geografia, che i Caffri, popoli dell’Affrica verso il Capo di Buona Speranza, stanno Livello 5► Citazione/Motto► « dispersi per le campagne a guisa di [465] bestie, senza religione, e mangiandosi l’uno l’altro ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Molti libri olandesi da me letti parlano minutamente delle nazioni che abitano in quelle parti, e in nessuno d’essi s’accenna pure che quelle genti abbiano l’orribile costume di mangiare carne umana, comechè di quante nazioni selvagge finora dagli Europei scoperte e nell’Affrica e nell’America, nessuna appaja tanto incolta, e stupida, e bestiale quanto appajono quelle che vivono in tutto quel tratto di paese compreso da’nostri geografi sotto il nome di Caffreria. Non è neppure molto sicuro che que’popoli, e quelli di parte della Nigrizia, o qualunque altro viva, come dice il signor Gaetti Livello 5► Citazione/Motto► « senza alcuna sorte di religione », ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 non v’essendo popolo al mondo che non dia segno d’averne una di qualche fatta, se s’ha a credere a’più sagaci e più ragionevoli viaggiatori. Favola è pure quella che il signor Gaetti ne dice nel paragrafo XIV delle donne che abitano intorno a una certa parte del fiume delle Amazzoni, che «non si scostano dai loro nidi alpestri, se non una volta l’anno, discendendo al piano per avere commercio con gli uomini ». Leggasi il bellissimo viaggio dalla sorgente di quel fiume sino alla sua foce, fatto dal famoso monsù de la Condamine pochi anni sono, e si vedrà che quelle moderne Amazzoni non sono meno imma-[466]ginarie di quelle antiche del Mar Nero, o di quell’altre messe in iscompiglio e distrutte al suono dell’incantato corno d’Astolfo.

Il Quarto Trattato è di «storia sacra e profana dalla creazione del mondo sino al presente». L’autore lo divide in diciotto epoche, e scorre per ciascuna d’esse con bastevole chiarezza, considerando la strettezza de’limiti ne’quali s’è confinato per non riuscire prolisso. Tale sua divisione de’secoli in diciotto epoche pare a lui che sia la più atta a fissare nella mente d’un giovane tutta la storia antica e moderna. Non so se a tutti parrà come pare a lui.

Il Quinto Trattato è metafisico, s’aggira intorno alle operazioni dell’anima. Ne’primi paragrafi ne dice che cosa è l’anima delle bestie, e quale differenza v’abbia tra quella e l’anima dell’uomo, cioè ne dice di quelle cose delle quali siamo tutti e saremo sempre al bujo. Parlando delle idee siegue la dottrina di Locke e l’aristotelica; ma anche spaziando su quelle, e sulle proprietà dell’intelletto, della memoria, della volontà, dell’immaginazione e della ragione, si perde come tutti gli altri suoi metafisici predecessori in discorsi congetturali. Pure i giovani devono avergli obbligo di questo Quinto Trattato, che con molta succintezza dà loro un compendio de’più bei sogni che i filosofi antichi e moderni s’abbiano mai sognati. Il [467] paragrafo XII sulle Streghe o Stregoni è breve e buono; ma mi ha fatto ridere quello che immediatamente lo segue sul mal d’occhio, facendomi ricordare di due miei vecchi amici, uno di Segovia e l’altro di Toledo, che mi avvertivano in diebus illis a non guardar mai fissamente certe fanciulle de’lor paesi, se non volevo correr rischio d’avere quel male. Credo che i Napoletani abbiano prese degli Spagnoli le loro idee sul mal d’occhio, in virtù del quale l’uomo si crede innamorato d’una donna in modo alquanto streghereccio.

Trattato Sesto di Filosofia naturale. De’trattati contenuti in questo primo tomo questo è quello che mi è piaciuto il più, perchè l’autore ha epilogato in poche pagine assai cose che si leggono troppo diffusamente scritte in cento e cento volumi. Gli è però peccato che egli non abbia letti i libri de’Danesi, degli Svezzesi e d’altri popoli settentrionali, che gli avrebbero data un’idea degli uccelli di passaggio molto più vasta ch’egli non mostra d’avere nel paragrafo VIII. Veggasi la Storia naturale della Norvegia di Pontoppidan vescovo di Berghen, e la Descrizione dell’isole di Ferro scritta da Luca Jacobson Debes, Proposto in una di quelle diecisett’isole chiamata Strumo. Que’due autori, entrambi sudditi di Da-[468]nimarca, parlano di molti più uccelli di passaggio, che il signor Gaetti non n’annovera nel detto paragrafo, e sono altrimente pregni di notizie singolarissime. Vorrei che alcuno sapesse e volesse tradurli dal danese in italiano.

Trattato Settimo del meccanismo de’corpi animati. Molta parte di questo trattato si poteva benissimo lasciar fuora d’un libro intitolato il Giovine istruito. Quando si ha ad educare un giovane destinato ad essere medico o chirurgo, non è tanto fuor di proposito che s’introduca di buonora ne’misteri svelati ne’due primi paragrafi di questo Trattato; ma non mi pare troppo laudevole che ad ogn’altra sorte di giovani si parli tanto in volgare, quanto il signor Gaetti ha fatto in que’paragrafi. Non sono poi della pitagorica opinione del signor Gaetti che «l’uomo non è destinato dalla natura a mangiar carne». La principal prova di questa sua opinione egli la cava dalla struttura de’nostri denti; ma, checchè egli si dica, questa è prova frivola; è prova che prova nonnulla, perchè l’uomo mangiando carne co’denti che ha, prova con contraria evidenza che la struttura loro è bella e buona per mangiar carne. Se la natura non avesse voluto ch’egli mangiasse carne, il mangiarne lo ammazzerebbe invece di farlo vivere.

[469] I Trattati Ottavo, Nono e Decimo non possono formare nè un buon medico, nè un buon metallurgico, nè un buon fisiologo; pure ogni studioso giovane farà bene a leggerli anche più d’una volta, perchè contengono assaissime belle cose, e toccano tutti i principali punti delle scienze di cui trattano. ◀Eteroritratto ◀Livello 4

Metatestualità► Del secondo tomo di quest’opera, come già dissi, parlerò un’altra volta: ma non voglio aspettar allora a dire, che per facilitare a’giovani la strada delle scienze, e per farne loro acquistare una competente idea, malgrado alcune cose sparse per questi due tomi che non mi soddisfanno, io non so alcun libro italiano che sia migliore di questo, onde lo raccomando a tutti quelli che hanno incarico di educare la gioventù. ◀Metatestualità ◀Livello 3

Livello 3►

Analisi di alcune acque medicinali del Modonese di Domenico Vandelli accademico Fisiocritico di Siena e della società letteraria Ravennate. In Padova 1760, nella stamperia Conzatti, in 8.o

Livello 4► Eteroritratto► Nel darci questa sua diligente analisi il signor Vandelli ne fa sperare un’amplissima storia di produzioni naturali da lui osservate negli Stati di Modena, e principalmente quelle che si trovano in molte parti dell’Appennino. Desidero che que-[470]sta nostra speranza non sia delusa. Da un uomo come questo, che mi sembra tutto composto d’industria, d’attenzione e d’attività, è probabile che avremo un libro dilettoso, istruttivo, ed onorevolissimo alla contrada nostra. Mi permetta solamente questo autore di rappresentargli, che mi cagionerà un po’ di stizza, se si servirà in quel suo futuro libro, come ha fatto in alcun luogo di questa sua operetta, di certi vocaboli affatto ignoti a novantanove in cento de’più eruditi leggitori; come sarebbe a dire Livello 5► Exemplum► « glossopetre, patelle, dentali, spatose, turbinati, fungiti, belemniti, neriti, strombiti, muriciti, globositi, ostraiti, chamiti, mituliti, telliniti, pectiniti, vermiculiti », ◀Exemplum ◀Livello 5 ed altri tali diabolici aggettivacci e sostantivacci da far impazzare le brigate a indovinarne i significati, e che pajono copiati da’libri di stregheria composti da’famosi maghi Nostradamo, e Pietro d’Abano. Un altro piccolo avvertimento voglio anche dare al sig. Vandelli, ed è di correggersi d’un suo strano errore di lingua, o per dir meglio di grammatica, ponendo l’avverbio relativo lunghesso invece dell’avverbio positivo lungo, come ha fatto ne’due seguenti passi: Livello 5► Exemplum► « È degno d’osservazione che verso occidente lunghesso il canale di Sassuolo- E seguitando verso tramontana lunghesso il Serchio ». ◀Exemplum ◀Livello 5 Biso-[471]gna dire lungo il canale di Sassuolo, lungo il Serchio, e lasciar fuori quel relativo esso, che non ha qui che fare. Non farà poi male nè anche se, parlando del ferro lo chiamerà ferro, e non marte; e se dirà stagno allo stagno, senza dirlo saturno, et sic di tutti gli altri metalli. Questi vocaboli di gergo vanno abbandonati a’Rosicruciani e ad altri tali chimici impostori, che dicono in grammuffa ogni loro corbelleria per farsi credere dall’ignorante canaglia; e non devono mai essere adoperati dagli uomini dabbene che onestamente cercano d’istruire e di dilettare i loro confratelli e compatrioti. Se il signor Vandelli userà queste ed altre simili avvertenze, Aristarco sarà a suo potere promotore di quella sua futura opera, per enunziar la quale è assai evidente ch’egli ha scritto questo suo libretto. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Metatestualità► Un’altra cosa vogl’io ancora qui dire, ◀Metatestualità giacchè sono a dire, ed è, che il signor Vandelli non farà neppure poca grazia alla repubblica letteraria se oltre a quella sua futura opera stamperà anche quella del fu abate Domenico Vandelli suo zio, di cui ci dice che il titolo è «Descrizione degli Stati del serenissimo signor duca di Modena in Italia, nella quale si contiene la presente situazione de’medesimi, colla numerazione delle provincie, de’principati, delle signorie e de’castelli [472] principali. I costumi de’popoli, e le condizioni de’paesi, e di più una succinta narrazione degli uomini famosi ed illustri, ec. i monti, i laghi, le fontane, i fiumi, i bagni, le miniere, e le opere maravigliose in essi dalla natura prodotte». Se quest’opera, che il signor Vandelli possiede manoscritta, corrisponde al suo lungo titolo, è certamente cosa desiderabilissima ch’egli la renda pubblica stampandola insieme con la sua. Olà! Piano un poco con questo stampare. Si fa presto a dire a un galantuomo stampate, stampate; ma io porrò sempre nel numero de’dannosi consigli il consiglio che in oggi si dà tanto facilmente ad un autore di stampare un suo libro. In Italia oggidì vi sono sicuramente molto più scrittori che non leggitori; nè mi sono noti più di tre autori, uno buono e due cattivi, le di cui opere sieno state a quest’anni lette da molti, e per conseguenza vendute: voglio dire l’opere del Metastasio, e quelle del Goldoni e del Chiari. Tutti gli altri moderni libri nostri, di cui ho notizia, si leggono da tanto pochi che non si può in coscienza animare alcuno autore a spender danari dietro la stampa d’un suo libro. E se non fosse la smania che quattro o cinquecento persone hanno in questo nostro stivale d’avere una biblioteca in casa, una buona metà de’nostri libraj e stampatori [473] potrebbono chiuder bottega, e fare altri mestieri. Sono omai sei mesi ch’io mi vado ingegnando di ravvivare la voglia di leggere ne’miei paesani con questa mia Frusta; ma comincio e disperare di poter riuscire in questa impresa, perchè i miei paesani, se il mio stampatore di Roveredo mi scrive il vero, leggono poco la Frusta. In Roma, per esempio, dove vi sono (a computare discretamente) dieci mila compositori di sonetti, cinque mila di canzoni, due mila d’egloghe, e forse un migliajo di fabbricatori d’altri lavori che non si possono fare senza penna e calamajo, chi crederebbe che gli associati alla Frusta non oltrepassano il numero di tre? Metatestualità► Questa è cosa che deve parere strana assai, se si considera che la Frusta è scritta dal vecchio Aristarco quasi apposta per incoraggiare la fabbrica, o come vogliam dire, la manifattura de’sonetti, delle canzoni, e dell’egloghe, e di quegli altri lavori che non si posson fare senza penna e calamajo Eppure quantunque i leggitori della Frusta sieno tanto scarsi in quella Roma, chi potrà persuadersi che da Roma mi sieno state mandate più centinaja di sonetti scritti in derisione e in vituperio di questa mia tanto laudevole fatica? Non si può dire quanti morsi rabbiosi sono stati dati da’romani sonettisti specialmente, alla mia povera gamba di [474] legno; e quanti peli mi sono stati strappati da’mustacchi: e di quanta sporcizia mi è stato imbrattato il turbante, senza contare il vilipendio fatto d’alcuni de’miei gatti, e d’alcune delle mie scimmie! Oh cari quegli Arcadi! È pare si sieno risoluti di convincermi che sanno far sonetti. Ma se questo è il loro pensiero, affè s’hanno il torto marcio, poichè io sono anzi convinto che dieci mila d’essi non sappiano far altro che sonetti. Lo stampator di Roveredo mi fa anche sapere che in Napoli e in Firenze la Frusta non è letta che da pochissime persone. Tanto peggio per lui, che vuol pure continuar a stamparla, quantunque m’esorti invano a scriverla almeno tratto tratto nello Stile de’De Gennari e de’Sergi; e ad ammucchiare tratto tratto in essa le boccaccerie e i riboboli malmantileschi. Ma che la Frusta non si legga punto in Roma, in Napoli e in Firenze, e che si segua soltanto a leggerla in Vicenza, in Pesaro, in Como, e in altre tali minori città, a me poco importa. Basta che lo stampatore continui nell’ostinazione di volerla pubblicare, ed io tirerò ostinato innanzi a scriverla. Io mi contento d’essere come il sono infallibilmente certo, che è letta con somma attenzione dal mio don Petronio, poichè per esso io mi sono impegnato a scriverla e per cavargli, come dissi, del capo al-[475]cune poco dritte letterarie opinioni; e siegua pure il grosso volgo a imparadisarsi colla lettura de’Chiari e de’Goldoni, d’uno de’quali voglio cominciare a far motto nel seguente numero, ora che è finito carnevale, e che la rabbia d’andare alla commedia sarà necessariamente acquetata un pochino.

Torno adesso per un momento all’Analisi del sig. Vandelli, e dico che chi volesse sapere come si faccia il tanto salutifero sale di Modena, oggidì preferto, e non senza ragione, da’medici allo stesso sale d’Inghilterra, lo potrà sapere da questo libretto. ◀Metatestualità

Livello 3► Lettera/Lettera al direttore► « Voi direte, Aristarco, ch’io sono molto donnajo a mandarvi ancora una terza lettera scritta da me ad una donna. Sappiate però ch’io non ho meno anni di voi, onde non avete a giudicar male. E poi, se alcuna delle lettere che v’anderò mandando non vi piacerà, già sapete quel che n’avete a fare. Voi non potete offendermi, non sapendo chi io mi sia. Questa l’ho scritta a una fanciulla che mi chiede consiglio intorno al modo di studiare. Se stampate anche questa, conchiuderò che quello da me datole ha la vostra approvazione. Addio.

Il vostro Lovanglia ». ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

[476] Livello 3► Lettera/Lettera al direttore► « Ho piacere, Peppina mia, che malgrado i disastri incontrati a cammino tu abbia terminata la tua peregrinazione felicemente. Costà però, sia il soggiorno bello, sia il soggiorno brutto, fa in modo di vi star volentieri, poichè v’hai pure a stare alcuni mesi risolutamente. La filosofia che tu studii non va studiata punto se non t’insegna a passare la vita queta dovunque la Provvidenza ti conduca. Se non siamo contenti di noi medesimi, difficilmente altri saranno contenti di quella persona, di cui non siamo contenti noi. Mangia, bevi, studia, passeggia, canta, balla e fa tutto quello che hai a fare con ilarità; e sarai trovata dappertutto quell’amabil cosa che ognuno ti trova qui. Ed è articolo importantissimo in questo mondo l’esser sempre un’amabil cosa, specialmente voi altre fanciulle. Se ti lascerai andare alla noja di non essere nel luogo dove vorresti essere, riuscirai incresciosa a chi ti scorgerà annojata; e riuscendo incresciosa agli altri ti troverai sempre più incresciosa a te medesima, perchè la noja è cosa che si moltiplica. A buon conto tu hai due buone arme, se non basta una, per difenderti dalla noja. L’ago e la penna. Due arme di pari tempra, e di egualissimo e sovrano pregio. Cuci, e scarabocchia, e poi torna a cucire, e poi torna a scarabocchiare, che [477] i quattro mesi passeranno via senza che tu te n’avvegga. Ma qual consiglio, Peppina, vuoi tu ch’io ti dia sul proseguimento degli studj da te intrapresi? Io non so dirti altro su tal proposito, se non che vi vuole ostinazione e metodo. Se sarai pertinace e regolare, imparerai molto in poco tempo; massimamente se studierai a poco per volta. Voli brevi ma forti e sicuri, e l’ale non si stancheranno, e ti porteranno attraverso il vastissimo continente del sapere come aquila. Alterna con frequenza lo studio e il riposo; l’applicazione e il divertimento. Rumina domani, e non oggi su quello che studiasti la mattina; perchè il ruminare immediate su quello che s’ha studiato non si può propriamente chiamare ruminamento, ma studio o continuazione di studio, e lo studiare continuato non te lo consiglio, ma interrotto e alternato, come dissi, conformandomi a quel proverbio dell’arco troppo teso. Fa verbigrazia di ben capire ogni dì poco più d’una decina di versi greci, e di linee tedesche; e quando sarai sicura d’aver ben capito quel poco di greco e di tedesco, ricopia que’versi, e quelle linee un pajo di volte, e anche tre o quattro, se vuoi; meditaci su la sera o il dì dietro un quarto d’ora o una mezz’ora, e poi non ci pensar altro, che [478] tanto quel po’ di greco, quanto quel po’ di tedesco si collocherà da sè stesso in un qualche cantuccio della tua memoria, per poi uscirne fuora al bisogno tuo, e al tuo comando. Basti questo del sapere che si può acquistare per via di libri. Diciamo ancora qualcosa del sapere che s’acquista studiando gli uomini, il qual sapere è senza dubbio più del primo importante, perchè più quotidianamente necessario. Bacone diceva che i libri non insegnano l’uso de’libri Books do not teach the use of books; onde bisogna ricorrere a chi t’insegni il porre in pratica quello che da’libri avrai imparato, vale a dire bisogna ricorrere allo studio degli uomini tra cui viviamo. Sai che Cujacio diceva di non aver letto libro, per cattivo che si fosse, dal quale non imparasse qualche cosa, eccettuandone uno solo, di cui non volle dirci nè l’autore, nè il titolo. Se quel valentuomo vivesse a’dì nostri, gliene vorrei additare cento d’autori viventi, da’quali non v’è da imparar nulla. Ma lasciamo andar questo. Quello che Cujacio diceva de’ibri, si può degli uomini parimente dire. Leggi gli uomini attentamente, Peppina, e sieno essi di qualunque edizione si voglia, da ognuno acquisterai delle cognizioni, dispregevoli solo agli occhi degli stolti. Sai tu perchè, generalmente parlando, gli uomini che pas-[479]sano nel mondo per più eruditi e per più sapienti, sono gente nè buona troppo per sè stessi, nè buona troppo per altri? Perchè le loro mulesche signorie stanno tuttavia mulescamente fitte sui libri. Se la metà del tempo che i barbassori hanno spesa sui libri, l’avessero impiegata in notare le azioni degli uomini, e in rintracciare le sorgenti di quelle azioni, e’ non sarebbono que’gran disutilacci che sono. Io ho intimamente conosciuto il più grande astronomo del secolo, e ti so dire che quando s’allontanava un passo da’satelliti di Giove, o dalle macchie del sole, mi riusciva un goffo de’più solenni. E moltissimi geometri, e botanici, e fisici d’ogni sorte, e antiquarj, e altra simil gente ho io veduta, che non era buona a cosa alcuna quando la toglievate da’triangoli, o dall’erbe, o dagl’insetti, o dalle medaglie. E molti de’nostri poetanti avrai osservati, che null’altro sanno fare col lor malanno, che un sonetto o una canzone alla petrarchesca, o un capitolo alla berniesca; e che poi gridano con quanta voce hanno nella strozza contro la scarsezza de’mecenati e contro la cecità del transandato secolo. Uno zappatore, un ciabattino, un fusajo sono membri molto sproporzionatamente più utili alla società, che non costoro, che le sono anzi dannosi, come chi direbbe i cacchioni nel-[480]l’arnie delle pecchie. Ma fa loro entrar in capo verità, se tu puoi! E sai tu perchè, Peppina mia, perchè troppi signori magni sieno que’gran buacci che sono? Perchè la superbia loro, e più sovente la magnitudine loro naturale, li toglie dal chinarsi a esaminare minutamente que’ che sono dammeno d’essi; e gli eguali loro ch’essi unicamente esaminano anche male, oltra che sono assai pochi quando comparati alla massa del genere umano, sono poi anche dappochi com’essi. Bada dunque bene, Peppina, a studiare e le cagioni e gli effetti delle passioni che muovono l’uomo a operare piuttosto in uno che in un altro modo, e non far differenza negli esami tuoi dal signore gallonato al servidore avvolto in livrea; dal filosofo eloquente al balbettante bambino; dal poeta baldanzoso al timido artigianello. Io ti so dire che in tale studio troverai de’passi che ti ributteranno, che ti disgusteranno talora moltissimo per la difficoltà che avrai a capirli e a spiegarli bene. Quel libro che in quasi tutte le edizioni è intitolato uomo, animal ragionevole, troverai che dovrebb’anzi essere intitolato, uomo animal per lo più irragionevolissimo; non ti sgomentare però dell’ingannevol titolo, Peppina mia, nè de’passi intricati e mal costrutti che ogni sua pagina contiene, che in ogni modo [481] il meglio e il più util libro non lo troverai sì tosto nella Biblioteca Universale. E statti sicura che chi non istudia questo libro, può fare un bel falò di tutti gli altri, da que’ d’Omero giù sino a que’ di Sofifilo Nonacrio. Ecco quello che così in su due piedi ti posso dire intorno al modo di studiare, figliuola mia dolce. Questo nulladimeno è argomento vasto, e infinite altre cose in tal proposito potrai aggiungere; ma io t’ho a scrivere una lettera, e non una dissertazione. Sono oggi stato sulla massima generale. Forse un altro tratto scenderò ai particolari. Intanto giacchè costà non hai propriamente che fare, senza che tu strolaghi per trovar modi da fuggire la noja che il tuo presente soggiorno ti cagiona, scrivimi di spesso. Non di’ tu che scrivendomi tu godi? Dunque godrai; che tanto vale, quanto che troverai uno scemamento alla tua noja. Tu sai quanto a me piaccia il ricever lettere da voi altre, giovani streghe; ed ho poi anche in capo che ho in te per corrispondente una fanciulla, la quale sarà un giorno, direbbe un moderno poeta, la stella più luminosa dell’ausonio cielo. Il cuore mi dice che un dì tu sarai una donna maravigliosa: non far mentire il cuore, furfantella. Addio in italiano, poichè non te lo so dire nè in greco, nè in tedesco. Fa di star sana, e sana bene, ricordan-[482]doti sempre che più vale un’oncia di salute, che non una libbra di greco o du’ mila di tedesco. Addio, giojello; Iddio ti mantenga legato sempre nell’innocenza. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

Ecco la prima cosa venutami con la data di Bologna. Mi pareva pure strano che dalle principali città d’Italia avessi ogni settimana qualche buona prosa, e qualche verso buono, e che in Bologna non si trovasse neppur uno che si degnasse di scrivermi quattro versi meritevoli d’essere ammessi nella Frusta! Orsù, questo non è cattivo principio. Ma non pensate, Bolognesi miei, che Aristarco si voglia contentare di così poco da una città che assume il titolo di Dotta. Questa è l’oda che da uno di voi m’è stata mandata. Non gli spiaccia ch’io abbia fatto un picciolo cambiamento all’ultima strofe. Ho anche procurato di farne uno alla sesta e uno alla settima strofe, ma non m’è riuscito, onde le lascio correr così.

Livello 3► Felice l’uom, che amante

D’una vita tranquilla
Sta quanto può distante
Da popolosa villa;

E sventurato l’uomo

Che in ammucchiar ricchezza,
O in procacciar rinomo
Rischi e disagi sprezza!

[483] Chi fida a fragil barca

Sè con le sue sostanze,
E l’Atlantico varca
Pien di folli speranze;

Chi di palle funeste

Empie a Teti il soggiorno,
Malgrado le tempeste
Che gli fischiano intorno!

Chi tutto in ferro avvolto

Tragge la morte seco
Seguendo un duce stolto
Macedonico, o sveco;

Chi rotto a un monte il tergo

Le viscere gli ha vôte
Per ergere un albergo
A più d’un pronipote!

Chi d’amor sozzo il petto

S’accende per Poppea,
Nè cerca altro diletto
Alla polluta idea.

Poi lagnar vi volete

Del Ciel, della fortuna,
Non trovando quiete,
Nè pace al mondo alcuna!

Quanto v’invidio, oh quanto,

Aratori e bifolchi,
Mentre sciogliete il canto
Su i lavorati solchi!

V’invidio allor che in cerchio

Scorgovi a lieta mensa
Cibarvi del soverchio
Che l’orticel dispensa!

[484] V’invidio, villanelle,

Sebben vi vedo scalze
Pascer le bianche agnelle
Intorno all’aspre balze!

E invidio le carole

Che fate sull’erbetta
Quando rivolto è il sole
A chi di là lo spetta!

E invidio Fille e Nisa

Che beffano un pastore
Con innocenti risa
Che partono dal cuore! ◀Livello 3

Livello 3►

Articolo della Gazzetta manoscritta pubblicata in Roma ebdomadariamente.

Avendo Selvaggio Democari, pastor arcade, avuta la temerità di proporre, nell’ultima adunanza al bosco Parrasio, che Aristarco Scannabue fosse acclamato pastore, gli arcadici padri, irritati e scandalezzati di tal proposta, hanno immediatamente fatto cancellare da tutti i registri del serbatojo il nome di Selvaggio Democari, ed ordinato con un loro decreto in versi sciolti a Titiro Praticello di scrivere un sonetto senza coda in obbrobrio de’mustacchi d’Aristarco Scannabue. Il duodecimo verso di tal sonetto senza coda dice che Aristarco «si finge di una gamba attratto», alludendo eruditamente all’Attrazione Neutoniana. ◀Livello 3

Breve ed unica risposta d’Aristarco Scannabue alle prolisse e ripetute lettere di Bartolomeo Fagiolo.

Livello 3► Lettera/Lettera al direttore► Signor mio. Ho caro che le tragedie del Gravina vi sieno care, e che andiate in estasi per diletto leggendo que’suoi cori alla greca in verso sdrucciolo. Addio. ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3

Metatestualità► NB. Ho ricevuto il tometto de’capitoli manoscritti, ma non ne porrò alcuno nella Frusta, se l’autore non mi permette di correggere qualche verso qui e qua.

Le lettere che non vengono franche di porto si buttano sul fuoco. ◀Metatestualità ◀Livello 2 ◀Livello 1