Citazione bibliografica: Giuseppe Baretti (Ed.): "Numero IX", in: La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Vol.1\09 (1764), pp. 355-397, edito in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Ed.): Gli "Spectators" nel contesto internazionale. Edizione digitale, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.943 [consultato il: ].


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N.° IX

Roveredo I° febbrajo 1764.

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Le Pitture antiche d’Ercolano e contorni, incise con qualche spiegazione. Tomo primo, in Napoli, 1757, nella R. Stamperia, in foglio.

Livello 4► Eteroritratto► Tra le tante sorti di scrittori che si sono scossi alla lettura di queste mie critiche lucubrazioni, gli antiquarj non sono stati gli ultimi, perchè da quanto m’è venuto detto in più d’un luogo, e specialmente nel secondo numero, appare molto chiaramente che io non sono punto disposto a favorire que’tanti perdigiorni, che schiccherano grandissimi volumi intorno a cose di poco o di nessun momento, senza mai arricchire il prossimo con utili cognizioni, e senza dar mai un po’di spinta a qualche arte o a qualche scienza per farla un po’più avanzare.

Chi però mi credesse nimico assoluto d’ogni studio d’antiche cose, s’ingannerebbe in digrosso. Io sono avverso a quelli che buttano il tempo, e il cervello, e [356] l’inchiostro dietro l’illustrazione, come dicon essi, d’una lapida, d’un’urna, d’una pignatta, d’un vetro cimiteriale, d’una lucerna, d’un tripode, d’un chiodo, o d’altra tal bazzecola di nessun uso; ma io sono amicissimo di quelli che indagando antichi monumenti, sanno ricavare notizie non meno pellegrine che giovevoli alla letteraria repubblica; e bisognerebb’essere molto privo di senno per non vedere che col nobilissimo libro sulle Pitture d’Ercolano si è fatta una delle più riguardevoli aggiunte che si potesse mai sperar di fare, al vario sapere già da noi moderni felicemente posseduto.

Quasi tutti i monarchi e sovrani dell’odierna Europa, sia detto a onore del nostro secolo, hanno operata qualche cosa a pro delle lettere e di quelli che le coltivano. Fra essi il presente re di Spagna si è in questa, come in molt’altre parti, così gloriosamente distinto, che vi vorrebbe più valida penna che la mia non è per dirne adequatamente.

Fra l’altre cose grandi fatte da questo gran re nel tempo che siedeva sul trono di Napoli, volse la mente a far cercare alcune città sotterrate ab antico sotto le tremende lave del monte Vesuvio; e felicemente gli riusci di trovare tra Portici e Resina la città d’Ercolano e quella di Pompeja. Non si può dire la moltitudine, [357] la bellezza e la rarità de’monumenti scavati da que’cupi fondi. Que’tanti monumenti furono deposti in alcune stanze del palazzo reale di Portici. Innumerabile fu il numero de’nativi e degli stranieri che concorsero ad ammirarli, e l’Europa tutta risuonò colle lodi d’un re, dalla cui munificenza fu il mondo arricchito, dirò così, d’un tesoro molto più pregevole agli occhi della ragione, che non la più vasta raccolta di gemme ond’abbia mai insuperbito l’Oriente.

Non bastò a quel benefico monarca il far vagheggiare a chi si voleva trasportare sino in Portici tante maraviglie. Sua Maestà concepì tosto il magnifico pensiero di trasmettere anche a’lontani una chiara idea delle innumerabili antichità ritrovate sotto i suoi fausti auspizj, con farle disegnare e incidere da’più valorosi maestri, e quindi spargere per tutto col mezzo delle stampe.

Non tardò molto quel real pensiero ad avere il suo effetto con universale diletto e vantaggio, poichè uscì tosto in luce questo primo tomo delle Antichità d’Ercolano, il quale, come porta il titolo, contiene alcune delle tante pitture trovate quivi; e trovate per la maggior parte sane ed intiere, perchè intiere e sane potettero conservarsi per tanti secoli, sotterrate nelle [358] ceneri del Vesuvio e difese da quelle contro l’intemperie dell’aria.

Questo tomo è non solo adornato da cinquanta bellissime tavole rappresentanti più d’un egual numero di pitture, ma contiene inoltre molti fregi e finimenti. Dalla maggior parte delle cinquanta tavole l’occhio è veramente rapito, massime da quelle che rappresentano il Teseo col Minotauro, i centauri, le centauresse e i fauni. Non si può dire quanto ardito e quanto corretto sia il disegno in queste pitture, e con quale artificio, naturalezza e maestria disposte le rispettive figure. La maggior parte de’fregi e de’finimenti sono pure disegni di pitture antiche, senza contare una molto bella carta topografica di Napoli e de’suoi contorni fatta con industriosissima diligenza ed esattezza. Gl’indagatori però delle cose antiche saranno vieppiù dilettati, non tanto dalle dotte spiegazioni di quelle tavole, di que’fregi e di que’finimenti, quanto dalle note che commentano quelle spiegazioni, e che vertono in parte sul modo tenuto dagli antichi pittori nel dipingere, e spesso anche sul loro merito comparato a quello de’pittori moderni. E que’leggitori che filosoficamente cercano da’libri un valevole ajuto a fecondarsi la mente con una moltitudine di idee, troveranno in quelle spiegazioni e in que’commenti non solo tante tracce [359] d’antiche leggi, e usanze, e costumi, ma tante notizie di deità, d’eroi e d’uomini, e quindi d’arti, e di scienze, e di strumenti, e d’utensili, e d’arme, e d’ornamenti adoperati dagli antichi Greci e Romani, anzi dagli stessi Egizj antichi, che in pochi libri, o forse in nessun altro che esista, v’è da trarre tanti nuovi lumi e tante cognizioni singolari singolarissime, quante se ne potranno trarre da questa mirabil opera. Il tutto è poi scritto con tanta precisione e succintezza, che ben mostra di quanto sapere e di quanto giudizio sieno dotati quegli strenui accademici scelti da quell’inclito monarca ad illustrare le Antichità d’Ercolano e di Pompeja, conchiudendo saviamente questo primo tomo con questo nobile ragguaglio del metodo da essi osservato nel porre insieme questa sorprendente congerie di belle cose. Di tutti questi generi di pitture, dicon essi, si è dato un saggio in questo primo tomo, e l’ordine da noi tenuto è stato questo. Dopo i monocromi si son poste le pitture grandi, e poi le mezzane esprimenti favole; quindi le altre anche di figure rappresentanti i varj esercizj o di piacere, o d’industria. Il terzo luogo si è dato alle prospettive, e altre vedute diverse, e agli scherzi pittoreschi. In fine si son situate le cose egizie. Fra tutte queste classi si sono tramezzati de’pezzi d’architetture, di [360] paesini, di uccelli, di frutta e di rabeschi. E perchè potesse ognuno, cui fosse a grado, riconoscere facilmente le originali pitture nel museo, si è a ciascun pezzo aggiunto il numero del catalogo, il quale è disposto secondo i numeri delle cassette in cui sono riposti i pezzi delle pitture nel museo. Ed è ancora da avvertire che per dare al pubblico alcuna delle pitture trovate dal 1754 a questa parte, vale a dire dopo terminata l’edizione del catalogo, se n’è tramezzato qualche pezzo nelle testate e ne’finali; e sono quelli che hanno il numero che oltrepassa il settecentotrentotto.

Ecco come que’benemeriti accademici hanno proceduto nel cominciar ad eseguire il gran pensiero concepito dall’invitto Carlo, presente monarca delle Spagne. Nè saranno defraudate le brame ardenti dei Napoletani, di tutta Italia, anzi pure di tutta la colta Europa, che tutta è cupida di vedere continuata la maggior opera di stampa che mai sia stata intrapresa. No, quelle brame non saranno punto defraudate, mercè il giovanetto Ferdinando, successore di quel magnanimo re al trono delle due Sicilie, che quantunque in età affatto tenera, dà segni infallibili di voler imprimere costantemente l’orme tanto luminose segnate dall’augustissimo suo genitore su per l’erto sentiero della gloria. ◀Livello 4 ◀Eteroritratto ◀Livello 3

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Confutazione teologica fisica del Sistema di Gugliemo Derham, di don Giovanni Cadonici. Brescia 1760, dalle stampe di Giammaria Rizzardi, in 8. °

Livello 4► Eteroritratto► Il famoso filosofo Guglielmo Derham, non si potendo persuadere che il sommo Iddio abbia creati gl’innumerabilissimi globi che ha creati, perchè unicamente servano a renderci più vago e più ammirando la diurna e la notturna vista dell’emisfero, ha detto nel suo libro della Teologia Astronomica esser probabile che tutti que’globi sieno abitati da qualche sorte d’intelligenti creature, come questo nostro.

In tale sua opinione egli si è confermato, riflettendo non esser ripugnante o contrario a quella ragione, per cui siam distinti da’bruti, il dire che la vasta idea d’innumerabilissimi abitatori sparsi per quegl’innumerabilissimi globi, intenti tutti in modi da noi non concepibili, ma conformi alle nature loro, a lodare e a glorificare il sommo Iddio, ha qualche maggior grado di proporzione (al nostro modo d’intendere) con l’immensità del sommo Iddio, che non ne ha l’idea ristretta onde crediamo che questo nostro globo fia il solo da cui partono inni e cantici di vocal benedizione al sommo Iddio.

Su questi due semplicissimi fondamenti il Derham ha fondata la sua magnifica fab-[362]brica di teologiche speculazioni; nè fa mestieri esser dotato d’una trascendente fantasia per indovinare i principali argomenti da esso posti in appoggio a queste sue speculazioni; essendo cosa molto ovvia a chiunque si volgerà col pensiero a quei tantissimi globi, il rifletter subito che esistendo essi, come indubitatamente esistono, deve parere assai verisimile, o come modestamente dice il Derham, assai probabile, che que’tantissimi globi debbano ad altro servire che non a rendere l’universo pomposo e appariscente alla vista di pochi mortali.

Ma non basta ad un Cristiano che una cosa appaja netta e chiara dinanzi alla sua ragione: bisogna che appaja altresì in nulla contraria, anzi pienamente conforme a quanto sta scritto ne’santi libri. Quindi è che la difficoltà intorno a questa speculazione del Derham consiste nel sapere, se l’ammetterla per opinione sia ripugnante o non ripugnante alla santa credenza nostra, contenuta ne’santi libri.

Alcuni sono di parere, e fra questi il nostro signor Canonici, in questo suo libro, che il sistema del Derham non sia riconciliabile con le parole d’eterna verità contenute ne’libri santi, perchè, dicon essi, non si trova in que’libri alcun passo che ne ingiunga di credere altri globi abitati da esseri intelligenti, oltre al globo [363] nostro. La Scrittura non parla d’altri esseri intelligenti che degli angeli e degli uomini; dunque dobbiamo conchiudere che il sommo Iddio non ha creati esseri intelligenti oltre agli angeli ed agli uomini.

A questo argomento io ho sentito rispondere, per modo anzi di commento che di negativa, non essere stato dal sommo Iddio giudicato necessario alla nostra bontà e santificazione un suo ragguaglio distinto d’innumerabili cose da esso create, come sarebbe a dire una esatta informazione delle proprietà e dell’uso di que’tantissimi globi di cui l’onnipotenza sua ha ripieno quello spazio che noi comprendiamo nell’idea di Universo; della quale idea egli ci ha voluti dotati per mezzo della vista, onde c’invogliassimo sempre più d’una vita buona e santa, colla fiducia d’un premio che dobbiamo arguire e credere immenso, poichè ne dee venire da colui che ha creato quel vasto, maraviglioso e stupendo Universo di cui abbiamo tanta idea che basta per mezzo della vista. Dunque, continuano quelli che sono di tal sentimento, dunque a noi tocca il vivere una vita buona, e santa e conforme alla legge promulgata sul globo assegnato al viver nostro, e depositata ne’santi libri, lasciando a Dio la cura di chi possa esistere sugli altri globi, contentandoci della nobile facoltà di poterli anche imperfettamente am-[364]mirare, e di poter formare qualche congettura sulle proprietà e sull’uso d’essi, in conseguenza di quella nobile facoltà benignamente dataci, senza decidere prosontuosamente pro o contro l’onnipotenza sua, e per conseguenza senza limitare a questo nostro solo globo la creazione di corporee creature intelligenti; perchè può benissimo essere piaciuto a lui di crearlo in numero infinito, in infiniti luoghi, e di spezie infinitamente diverse, senza che per questo s’abbia temerariamente da noi a pretendere un distinto ragguaglio delle opere sue, e senza che per questo derivi in noi un arrogante diritto di vivere con altra norma che con quella da esso a noi prescritta ne’santi libri che ci ha voluti dare. Quello che era assolutamente necessario alla bontà e santificazione nostra n’è stato detto dalle sue santissime parole: di quello che non ci era assolutamente necessario egli non ci ha voluto lasciar avere che un’imperfetta idea.

Questo modo di filosofare sembra ad alcuni che tronchi la difficoltà, e che riconcilii la ragione nostra coll’opinione d’una pluralità di mondi, poichè tien salda la necessità di vivere secondo gl’inerrabili dettami di nostra santa Fede, anche quando l’opinione nostra vada a compiacersi d’un sistema non confermato positivamente da alcun passo de’libri santi. Se da un [365] lato confina coll’impossibile il voler persuadere la ragion nostra, che tanti milioni di mondi sieno tanti aridi compatti d’una a noi ignota materia, destinati ad essere ciascuno una semplice stanza del silenzio e del nulla, e se le infallibili Scritture non ne obbligano dall’altro lato a credere che que’tanti compatti di materia sieno spopolati, cioè se non ci proibiscono formalmente il crederli popolati di esseri capaci del conoscimento di Dio, perchè considereremo noi come eterodossa un’idea la quale, come già s’è detto, ha secondo la ragion nostra, e secondo il nostro modo d’intendere, qualche maggior proporzione coll’idea della grandezza e della immensità, anzi pure della interminabilità di Dio, che non l’idea ristretta di credere il nostro solo mondo abitato da esseri intelligenti, ad esclusione di tutti que’tanti mondi o globi, che veggiamo colla nostra vista, e le di cui ampiezze e distanze possiamo anzi calcolare e misurare, comechè imperfettamente, colle nostre forze astronomiche.

Ma questa sorte di speculazioni e d’argomenti non riesce punto soddisfacente e ragionevole al nostro Cadonici; onde non è da stupirsi s’egli chiama il sistema di Derham un gran sogno, e se facendosene assai beffe, lo reputa un sistema Livello 5► Citazione/Motto► «piuttosto da disprezzare che da combattere». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5

[366] Il signor Cadonici però non ha riflettuto che prima di trattare con tanta altura un Derham, facea di bisogno mostrargli, essere non solo improbabile la popolazione dei globi, ma essere altresì evidente non esser que’globi altro che tante palle destinate al semplice abbellimento dell’Universo. Doveva provargli che il sole illumina e riscalda que’globi per nulla, e che non li feconda come feconda il nostro, essendo la fecondità inutile dove non v’è chi possa di quella valersi e godere. Doveva provargli essere cosa affatto irragionevole, anzi pure diametralmente opposta a qualche detto de’santi libri, il solo pensare che la natura possa essere tanto ricca quanto porta l’opinione del Derham d’esseri atti a glorificare Iddio; e doveva in sostanza provargli in modo innegabile, che il nostro globo è, e solo può essere, e solo dev’essere, l’unico tra i globi da cui partono inni e cantici di vocal benedizione al Creatore del tutto.

Se il signor Cadonici non si sentiva bastevoli forze da impegnarsi in dare tante difficili prove, doveva almeno provare al Derham che tutti i globi sono semplicemente popolati da creature irragionevoli, le quali si godono la luce, il calore e la fecondità a que’globi naturale, senza avere un chiaro conoscimento di tali loro beni, come sarebbe il caso su questo nostro glo-[367]bo, supposto un totale annichilamento degli uomini.

Ma il signor Cadonici va per una via più facile e più breve contro gli argomenti dell’avversario, con cui ha bravamente scelto di giostrare. Egli si ride dell’opinione universale, che i globi sieno tanti mondi, che le stelle fisse sieno tanti soli, intorno a’quali s’aggirano tanti sistemi planetarj; e non dà per concesso che la natura operi da per tutto con invariabili leggi: nè può non compatire quella buona gente che immagina montagne, e pianure, e valli, e fiumi, e mari nella luna e negli altri pianeti; nè trova tra quelli relativamente, o tra la luna e il nostro globo somiglianza alcuna, fuorchè nella esterna forma. E colla materia di cui que’pianeti e la luna sono composti, il sig. Cadonici non s’impaccia, bastando a lui che sieno composti d’una materia (poichè di qualche materia è pur forza sieno composti) che non è terra, e che perciò non può avere colla terra nostra altra qualità in comune, se non la suscettibilità di ricevere e di riflettere la luce. Se la luna e gli altri pianeti sieno suscettibili di calore o no, questo egli nol crede necessario ad esaminarsi, e molto meno vuol esaminare, se abbiano suscettibilità di fecondazione, e per conseguenza suscettibilità di produzione, e per nuova conseguenza necessità di chi goda di quella [368] produzione. Il passare sopra tutti questi punti senza dire il suo positivo sentimento d’alcuno d’essi, confesso il vero che mi pare cosa facile e spedita molto.

Il signor Cadonici approva poi molto il pensiero di quel sant’uomo che «detestava assai la temerità degli uomini nell’aver imposto nomi alle stelle». Ma nell’atto di approvare quella detestazione, il signor Cadonici, pare a me, non avrebbe fatto male a riflettere che se que’nomi non sono tutti stati dati alle stelle da uomini santi, molti di essi nomi però sono stati, e sono tuttavia adoperati da molti santi uomini senza difficoltà veruna, e senza che alcuno d’essi abbia sospettato o sospetti perciò di meritarsi il titolo di temerario. Un uomo può benissimo essere un sant’uomo, e dire uno sproposito come quello che quel suo sant’uomo disse, per ignoranza certo, e non per malizia; nè è ignoto al signor Canonici, che molti sant’uomini sostennero molto acremente non v’esser antipodi, e non essere neppur possibile il moto della terra; e che pure le navigazioni fatte in questi ultimi secoli ne hanno convinti della esistenza degli antipodi; e che pure le ripetutissime osservazioni di moltissimi ortodossi astronomi, tra i quali non gli voglio nominare che il solo padre Ruggiero Boscovich astronomo del Papa, non danno arditamente la preferenza al sistema tole-[369]maico sull’ipotesi copernicana, cristianamente rispondendo a que’che tuttavia insistono sul comando di Gedeone, e sul Terra autem stat, che la Scrittura parla all’intelligenza comune degli uomini, i quali sono tutti uomini, ma non sono tutti Boscovich.

Non voglio ora internarmi in una selva d’altre discussioni intralciate dal signor Cadonici colla sua discussione principale, senza ch’io possa indovinare la cagione che lo indusse a in-tralciarvele, essendo tutte aliene dal sistema di Derham, specialmente quella intorno al vero luogo dove Caino fu generato, e quell’altra intorno alla concupiscenza. Basta ch’io dica a chi vorrà leggere la sua confutazione, ch’egli l’ha pillottata d’erudizione; ma che, malgrado ciò, io mi vorrei quasi arrischiar a dire che il suo libro non sarà tradotto in tante lingue in quante è stato tradotto quello del suo avversario, perchè altro è esser uomo erudito, ed altro è esser uomo grande. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Metatestualità► Posctitto. Ciò che ho qui esposto intorno al sistema del Derham, non è da me approvato se non in senso di pura possibilità, protestandomi attaccatissimo alle infallibili Sagre Scritture quanto il signor Cadonici. ◀Metatestualità

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Osservazioni sopra alcuni casi rari medici e chirurgici, fatte da Giano Rhegellini. In Venezia, presso il Bassaglia 1754. in 4.°

L’amico che ha mandato questo libro a don Petronio, gli dice «che gli manda un libro nel quale, se v’è difetto, gli è la troppa schiettezza, la troppa semplicità, senza la minima ombra di ciarlataneria». Oh così fossero pure tutti i libri! Questo intanto pare a me che dovrebbe dar piacere anche a chi non è nè medico nè chirurgo di professione. A me il signor Reghellini ne ha dato assai con la sua chiara e corrente maniera di esporre le cose che aveva da esporre, che non sono ciance erudite, ma sibbene fatti che importano, e tutti curiosi, e tutti tendenti al giovamento del prossimo, e tutti senza un grano di quella tanta inutilissima dottrina di cui questa sorte di libri vanno per lo più corredati.

Il fare un estratto di questi casi non mi sembra sì agevole, perchè l’autore non ha qui adoperata parola che non fosse necessaria, nè si può compendiarli senza correr rischio di guastarli. Metatestualità► Pure un po’d’idea voglio dare d’ognuna delle sei osservazioni, ◀Metatestualità che appunto sei sono le principali, fiancheggiate però da alcune altre consimili, che servono loro come di rinforzo.

[371] Livello 4► Eteroritratto► La prima Osservazione è «sopra una malattia d’unghie e corna in un pene»; assai minutamente descritta, col disegno della cosa. Questa malattia, per quanto appare dal diario del sig. Reghellini, fu con molto poco giudizio curata dal medico e chirurgo che la trattò in uno de’pili rinomati spedali d’Italia, sicchè il paziente morì presto presto. Dal ragguaglio del male e del modo tenuto nell’amputazione della parte, e poi da una dissertazione che vien dietro a quel ragguaglio, è facile comprendere che quel meschino avrebbe ancora campato, se fosse stato medicato un po’più a bell’agio: cosa che si dovrebbe sempre fare in mali singolari, e che non minacciano immediata morte. La dissertazione riferisce molti casi di corna umane, tre de’quali nelle postille dal signor Reghellini esaminati, in varie parti del corpo d’alcune persone, e d’una in particolare da esso felicemente curata.

Seconda Osservazione. «Di due cateratte, che, un anno dopo l’operazione, in una cascata non solo sono risalite, ma oltrepassate nella camera anteriore». Dopo d’averci detti gli accidenti nati dal venire quelle due cateratte nella camera anteriore, l’autore ne dice il partito da esso preso, e come, senza venire al taglio della cornea, secondo l’uso universale, egli fece colle sue mani dare alla testa [372] del paziente una scossa opposta a quella datagli dal caso, facendo così rientrare le cateratte nel luogo d’ond’erano uscite. Questa cura così naturale e così facile sarà quindinnanzi considerata come cosa di poco momento quando sarà praticata, ma ne’registri de’pubblici benefattori sarà pure annoverato il Reghellini, che colla sua attenta sagacità ha aggiunta questa sua scoperta alla massa del sapere umano. Pochi sono gli uomini che possano vantarsi d’aver accresciuti anche di poco i capitali di questa sorte, che sono dall’uman genere posseduti. A tale sua seconda osservazione egli ha fatta una lunga postilla, con cui si mostra che il taglio della cornea, in casi di cateratte, seguiti sotto i suoi occhi, secondo la maniera nuovamente inventata dal Daviel, è pericolosissimo, e per lo più cagione di cecità e di deformità d’occhio più assai che non l’operazione vecchia fatta coll’ago tondo per la depressione delle cateratte.

Terza Osservazione. «D’alcuni corpi che casualmente, o a bella posta furono inghiottiti, alcuni de’quali fermati in gola, o scesi nello stomaco hanno cagionata malattia o morte.» Questa osservazione ne abbraccia otto altre, sette delle quali fatte dall’autore stesso. Tutte hanno del singolare: una è sul caso d’un uomo che inghiotti per iscommessa un pezzo [373] di cuore di castrato, che gli rimase in gola, e che non trovandosi modo di estrarlo, fu forza farglielo scendere nello stomaco con una candela di cera. Una è sul caso d’un altr’uomo che inghiotti un cucchiajo con un corto manico, che pure gli rimase in gola, e che non si trovò modo d’estrarre; onde fu forza farglielo pure scendere nello stomaco con una spinta ardita e forte. L’autore ne ragguaglia de’mali sofferti da quello sventurato per un anno intiero dopo la cacciata giù del cucchiajo. Una è d’un altr’uomo che inghiottì un fischietto da pulcinella, e che gli si fe’recere con un vomitivo. Un’altra è d’uno che inghiottì cento zecchini. Un’altra d’uno che inghiottì un nocciolo di susina, che gli ferì e bucò lo stomaco. Un’altra è d’uno che morì per aver mangiate delle ciriege senza buttar via i noccioletti, della qual pazzia troppi ragazzi sono colpevoli. Un’altra è d’un fanciullino che aveva inghiottita una moneta. E finalmente l’ultima è intorno ad alcuni chiodi che una furba o pazza femminaccia pretendeva d’evacuare per opera del demonio.

La quarta Osservazione riferisce «due casi di devastamento di cranio a cagione di percosse». Uno, cioè, d’un giovane, a cui furono trovate delle punte ossee nella superficie interna del cranio, che gli trafiggevano le meningi e il cer-[374]vello. L’altro d’una giovane a cui mancò per lungo tempo un gran pezzo del cranio. Pare impossibile che un corpo umano possa soffrire tanto lungo male quanto ne soffersero quelle due infelici creature. Ma siccome i fatti riferiti qui dal dottor Reghellini sono veri, bisogna dire che la provida natura vada sostituendo ne’mali cronici tanta nuova virtù ne’nostri corpi quanta temporariamente basta per farne andar resistendo al loro gradato avanzamento; il che non avviene ne’mali acuti, perchè il sangue e le forze non possono somministrare un riparo o un ajuto repentino e proporzionato a’mancamenti che grandi e repentini si fanno.

Quinta Osservazione. «Sopra un’idrocele, o ernia acquosa, radicalmente guarita da una percossa». Dice il proverbio che un diavolo caccia l’altro, e qui si può bene quel proverbio adattare. Tre casi sono descritti in questa osservazione di altrettante idroceli guarite da maravigliosi accidenti, e in modi che non si potevano da mente d’uomo pensare. Bella e giusta è la teoria del nostro dottore sulla formazione dell’ernie, e belle e giuste le conseguenze ch’egli cava da’riferiti accidenti sul modo di guarirle radicalmente, senza ricorrere al taglio, al caustico, alla tasta, ec.

La sesta Osservazione finalmente è « so-[375]pra l’offesa della vista in una donna, consistente nel raddoppiamento degli oggetti seguita dopo la depressione delle cateratte ». Chi intende perfettamente la fabbrica dell’occhio avrà da stupirsi e da imparare da questo ragguaglio di doppia vista, che non oso qui epilogare per la ragione già detta, cioè perchè il dottor Reghellini racconta anche questo così in succinto e compattamente, che bisognerebbe trascriverlo sillaba per sillaba.

In somma questo libro de’Casi rari, osservati da questo dottore, m’ha data una soddisfazione sì grande, che mi fa desiderare di vedere anche qualche sua raccolta di Casi comuni. Mi pare che questa sorte d’opere, se fossero tra noi un po’più frequenti che nol sono, procaccerebbono del bene alle società nostre, illuminando la mente, massime de’giovani studiosi di medicina e di chirurgia, e dando loro, se non altro, de’cenni utilissimi.

Non voglio togliermi da questo bel libro, senza approvare l’avviso del Reghellini di dedicare le sue Osservazioni a gente della sua professione. Egli le ha dedicate a sei uomini resi illustri dal loro studio della natura, e fornitissimi di que’lumi che occorrono per ben intendere le Osservazioni ad essi dedicate. Un qualche buon uomo, in vece di dedicarle a’signori Morgagni, Marsili, Scovolo, Rosa, Stella, [376] e Cocchi, le avrebbe dedicate a un qualche conte o marchese, che non le avrebbe lette, o, seppur lette, che ne avrebbe ricavato tanto diletto e vantaggio quanto ne ricavo io da’sonetti degli Arcadi, da’romanzi del Chiari e da’prefazj del Goldoni. Tutti dovremmo fare come il Reghellini ha fatto, e dedicare i libri a que’che siamo certi li leggeranno e gl’intenderanno. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3 A chi adunque dedicherà Aristarco la Frusta quando verrà a ristamparla in molti volumi?

Livello 3►

Saggio sopra la letteratura italiana, con alcuni altri opuscoli di Carlo Denina. In Torino e in Lucca 1762, in 12. °

Livello 4► Eteroritratto► Ecco qui una nuova impresa fatta da questo Ercole fanciullo, che tale debbo chiamare questa signor Denina, vedendo chiaro da questa, come l’ho pur veduto dall’altra sua opera già mentovata, che s’egli va di questo passo, verrà un dì che sarà un Ercole vero contro i mostri della nostra italiana letteratura, e fors’anco di quella d’altre nazioni. Ma per ora m’è d’uopo dirla schietta, che il suo ercolismo è ancora poco più che nella culla, e che i colpi da esso qua e là menati, non sono ancora troppo pesanti per mancanza di virile robustezza, anzi che per difetto di buona volontà.

Questo suo libretto contiene prima di [377] tutto una sua Lettera all’autore del Giornale Enciclopedico. Con questo il signor Denina prova assai evidentemente a quel critico francese, che ha giudicato del suo Discorso sopra le Vicende della Letteratura come sono soliti fare i critici francesi quando giudicano de’libri nostri, cioè senza leggerlo, o, se l’ha letto, senza punto intenderlo. E veramente quel monsù giornalista attribuì al signor Denina alcune asserzioni nel suo Discorso, delle quali in quel Discorso non v’ha realmente nemmen l’ombra.

Dietro a questa apologia vengono alcune Osservazioni sopra l’età d’Omero e di Esiodo scritte dal sig. dottor Angelo Carena amico del signor Denina. Il dottor Carena prova con quelle osservazioni in modo convincente, che Esiodo fu posteriore a Omero, contro la corrente universale opinione.

Poi viene il Saggio sopra la letteratura italiana, dal quale io non ho imparato che poco o nulla, essendo per la più parte una rifrittura di cose già dette in troppi de’nostri libri. È però sagace e buona l’osservazione che la nostra lingua deve il suo cominciamento e principale splendore a tre opere composte una per satira, cioè il Poema di Dante; una per galanteria, cioè il Canzoniere del Petrarca; e una per trastullo di femmine, cioè il De-[378]camerone del Boccaccio; origine a dir vero non estremamente nobile: e un’altra cosa m’è piaciuta nel paragrafo XIV, detta dal signor Denina con molta baldanza, ma nientedimeno verissima: cioè, che di quel secolo tanto da noi sopra tutti gli altri celebrato per letteratura, e chiamato con romoroso vocabolo il Cinquecento, Livello 5► Citazione/Motto► « non si possono commendare più di tre o quattro scrittori». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Io vorrei che i miei dolci compatriotti cominciassero a capire questa verità, e che cessassero una volta dal tanto stomachevole esaltare di quel secolo, di cui leggendo anche tutti gli autori, all’eccettuazione di tre o quattro, o al più di sei, v’è di molta lingua toscana, ma poco vero sapere da raccogliere. L’Italia d’oggi è piena d’uomini che hanno lette centinaja di Cinquecentisti; ma dove sono i buoni libri che gl’Italiani d’oggi hanno prodotti in conseguenza di quelle letture? Oimè! delle scempiate rime alla berniesca, de’sonettuzzi e delle canzonuzze petrarchesche, e qualche proserella sparsa di qualche stentato fiorentinismo sopra questo e quell’altro frivolo argomento; e questo è tutto, o quasi tutto, quello che sanno scrivere questi nostri furibondi leggitori de’Cinquecentisti. Il Genovesi, il Pujati, il Zanon, il Matani, e una dozzina forse d’altri scrittori viventi, hann’eglino da’Cinquecentisti [379] imparato a scrivere con pensamento? No davvero.

Alcune altre buone coserelle il signor Denina va dicendo qua e là per questo suo Saggio; ma e’ne dice anche troppe di quelle che non reggono al martello. In un luogo egli s’avvolge un pezzo intorno intorno, cercando per qual ragione l’Italia, che ha più d’un buon poeta epico, non ha neppure un buon poeta tragico; e finalmente ne dà più d’una ragione falsa. Vi voleva mo tanto a indovinare la vera? Noi abbiamo de’buoni poemi epici, perchè abbiamo avuto degli Ariosti e de’Tassi; e noi non abbiamo delle buone tragedie, perchè non abbiamo avuti nè de’Cornelj, nè de’Racini. Abbiamo per tragedie, per tragicommedie, e per commedie spezialmente, un Chiari ed un Goldoni; e appunto per Commedie dice il signor Denina che il Goldoni è poco inferiore a Moliere. Ma dell’ingegno del signor Denina io n’ho buona opinione, e son certo che con un po’di tempo si muterà d’opinione su questo come sopr’altri punti. Sono certo altresì che, maturandosi quel suo ingegno, egli capirà come Livello 5► Citazione/Motto► «il Trissino e il Tasso non avrebbero superato l’Ariosto, se il Trissino avesse anco scritto in versi rimati, e fosse stato men servile imitatore d’Omero, e se il Tasso si fosse anche impedito di cadere [380] nel figurato». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Non è mica per questi difetti che il Trissino e il Tasso sono inferiori all’Ariosto: gli è perchè l’anime d’entrambi erano men poetiche dell’anima dell’Ariosto. Se poi nell’informarci che Livello 5► Citazione/Motto► «Paolo Beni anteponeva il Tasso a Omero» ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 il sig. Denina avesse dato un po’del matto a Paolo Beni, non avrebbe fatto tanto male; come nè anco se avesse dato un po’dello sciocco a quel guazzabuglio di Trajano Boccalini, che Livello 5► Citazione/Motto► «preferiva lo stesso Tasso a tutti gli antichi e a tutti i moderni ». ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 Bisogna aver molto del matto e dello sciocco per giudicare così iniquamente di quell’Omero dal quale è derivata presso che tutta la poesia d’Europa, e gran parte di quella d’Asia. Senza Omero, crediamo noi che vi sarebbe stato Virgilio? E senza Omero e Virgilio, crediamo noi che vi sarebbe stato il Tasso o l’Ariosto, e tant’altri poeti che devono i loro maggiori tesori prima a Omero e poi a Virgilio? Ma alcuni benedetti Francesi hanno messo alla moda il disprezzar Omero; onde non è da stupirsi se le corbellerie dette da Paolo Beni e da Trajano Boccalini sono ripetute a’dì nostri senza quella severa censura che meritano. Torniamo a bomba. Il signor Denina, parlando della somma fama che il Tasso ottenne pochi anni dopo la sua morte, dice che questa fu sì grande, che lo stesso [381] Gravina non ardi Livello 5► Citazione/Motto► «di darne il suo giudizio schietto» ◀Citazione/Motto ◀Livello 5; ma se il Gravina ne avesse anche dato il suo giudizio schietto, io n’avrei fatto poco caso, perchè chi lodò l’Endemione del Guidi, ed alcune altre poesie di men pregio ancora dell’Endimione del Guidi, non sarà mai nella opinione di un critico in poesia da farmi stare a detta. Il Gravina, mi pare averlo già detto altrove, era un gran giureconsulto; era intendentissimo di greco e di latino; aveva dell’erudizione assai; ma le sue Tragedie, il suo Discorso al principe Eugenio sopra la tragedia, e la sua Ragion Poetica mi dicono a tanto di lettere, che il Gravina non aveva l’anima poetica; e che non era giudice competente di poesia, per quelle ragioni dette dal mio corrispondente Lovanglia in quella Lettera a una Dama Inglese da me registrata nel sesto numero di questa mia Frusta.

Il signor Denina dice poi benissimo quando dice che malgrado l’universal corruttela di stile, Livello 5► Citazione/Motto► «il seicento produsse uomini assai più dotti che non ne produsse il cinquecento», ◀Citazione/Motto ◀Livello 5 perchè di fatto i Borelli, i Malpighi, i Redi, i Manfredi, ed alcuni altri di tal razza furono ben altro che non i poeti petrarcheschi, e i boccaccevoli prosatori del cinquecento. Questi scrissero cose e parole: quelli scrissero per la più parte null’altro che parole.

[382] Metatestualità► Parliamo ora del Saggio sopra la letteratura scozzese aggiunto dal signor Denina a quello di cui ho finora detto sopra la letteratura italiana. ◀Metatestualità In questo saggio di letteratura scozzese io ho ammirata la sua credulità in ingojarsi tante minute notizie intorno alle somme letterarie glorie della Scozia, le quali glorie, secondo il credere del signor Denina, ecclissano di molto quelle dell’Inghilterra. Queste glorie io scommetterei che sono state a lui raccontate da qualcuno di que’tanti sapienti scozzesi che vanno per l’Europa accompagnando col titolo di governatori i giovani milordi inglesi, sapendo che la più parte di questi Bear-leaders hanno la pecca di sempre esaltare il sapere che esce da Aberdeen e da Glascow, sopra quello che vien fuora da Cambridge e da Oxford. Se non fosse per quel sapere che per bontà loro si va tutt’ora diffondendo per l’Inghilterra, in Inghilterra non si saprebbe omai più nè leggere nè scrivere. Ecco a un dipresso come parla ogni dotto Highland Laddie a chiunque ha la pazienza di porgergli orecchio; ma se il signor Denina vuol porgere anche un poco l’orecchio a me, che non sono nè Scozzese, nè Inglese, nè Whig, nè Tory, nè Presbiteriano, nè Anglicano, ma che sono un buon Cristiano d’Italia, amante della schiettezza, come mi par esso, io gli dirò co-[383] me va la faccenda della letteratura inglese e scozzese.

È duopo dunque sapere che in Inghilterra, e particolarmente in Londra, lo scrivere de’libri è una cosa ridotta così bene a mestiero, che gl’Inglesi hanno comunissima la frase the trade of an author, il mestiero d’autor. Chiunque ha facoltà mentali bastevoli per far comprare una sua opera da sole sei o settecento persone in tutta quella parte dell’isola chiamata propriamente Inghilterra, cosa non molto ardua a farsi colà, ha subito una sicurezza poco meno che fisica di campare onestamente con la sua penna, scrivendo un libro dopo l’altro, appunto come campa un ciabattino rattoppando un pajo di scarpe dopo l’altro; o per servirmi di men abbietto paragone, come un pittore campa col suo pennello dipingendo un quadro dopo un altro. L’insaziabilissima ingordigia di leggere cose nuove, o cose che pajan nuove, che tutti gl’Inglesi hanno dal più gran milordo e dalla più gran miledi giù sino al più tristo artigianello, ed alla più sciatta fantesca, ha bisogno di continuo pascolo. Quindi è che quattro e più mila penne in Londra solamente hanno il comodo di somministrare quotidianamente quel pascolo a quella tanta ingordigia con più di trenta amplissime gazzette, sotto varj titoli, e [384] con innumerabili panfletti, e magazzini, e fogli a imitazione dello Spettatore, ed estratti di Sacra Scrittura e di botanica e di medicina; e dizionarj stampati a quinternetto a quinternetto, e giornali letterarj e critici; e satire, e libelli, e panegirici, e romanzi; e storie, e poesie, ed altre infinite cose; il tutto venduto a ritaglio di dì in dì, di settimana in settimana, o di mese in mese; senza contare assai voluminose opere che vanno di tanto in tanto pubblicandosi dentro l’anno; cosicchè io crederei di non esagerare se dicessi che più si stampa in una sola settimana in Inghilterra, che non in tutta Italia in un anno. Basta dire che d’ogni foglio di gazzetta che si vende si paga al re un soldo sterlino, che equivale circa alla sesta parte d’un paolo, e che da questa piccolissima tassa sono stato assicurato da più persone degnissime di fede, e da supporsi bene informate, che il re cava più di dugento lire sterline ogni giorno; vale a dire, quattrocento zecchini circa nella sola città di Londra. Fra quella vasta folla di scrittori d’ogni generazione che in Londra vivono chi con uno chi con l’altro de’prefati modi di far il mestiero d’autore, vi sono moltissimi Scozzesi. Gli Scozzesi sono universalmente, come il sono tutti i nativi de’paesi sterili, assai industriosi ed economi; e quel [385] che è più, sono fedelmente uniti sempre fra di essi, e tutti cooperanti al bene comune della loro nazione, che da nessun d’essi è mai perduto di vista nel procurare il proprio bene. Gli Scozzesi si sostengono, s’illuminano e si lodano l’un l’altro quanto più possono assai fraternamente; e siccome fra di essi vi sono alcune picciole società d’autori che hanno eretti vari tribunali di letteratura; e scrivono in congiunzione, per alcuni libraj, de’fogli periodici critici, come il Monthly Review, il Critical Review, ed alcuni altri, guai a chi va dinanzi a que’loro tribunali senza essere Scozzese, che costoro pigliano molta cura di deprimere e di screditare il più che possono ogni autore inglese, per far il luogo più largo e più agiato ai loro autori; e a queste letterarie nazionali confederazioni, forse più che non al loro merito, molti di tali loro autori devono la molta riputazione di cui godono per alcun tempo, ma che poi s’annichila nell’atto che si sta generando la riputazione d’altri loro successori. Per quanto gli Scozzesi in Londra e fuor di Londra si facciano, pochi sono sinora i nomi d’autori scozzesi che sieno da paragonarsi a tante e tante centinaja di celebri nomi d’autori inglesi. Fra quelli dell’età passata v’è stato mylord Shaftesbury, Mr. Forbes, il vescovo Burnet e il dottor Ar-[386]buthnot (che mi pare fosse anch’egli scozzese), i quali sono dagl’Inglesi stimati, senza contare qualche geometra, qualche matematico e qualche astronomo. Di que’quattro il signor Denina non ha fatto parola, perchè non gli ha probabilmente mai sentiti nominare. Fra gli Scozzesi dell’età presente, che quasi tutti sono dal signor Denina nominati, v’è l’istorico Hume, la di cui istoria è piacevole a leggersi, malgrado i suoi scetticismi frequenti; v’è Robertson, altro istorico, che ha imitato con molta felicità lo stile del gran Samuello Johnson, famoso pel suo Dizionario, pel Rambler, per l’Idler e per molte altre sue maravigliose opere. Quel Tompson poeta non sarà mai chiaro e famoso come Pope, chè le sue Quattro Stagioni in verso sciolto sono ancora assai lodate, ma poco lette; e l’altre cose sue sono di troppo inferiori a quelle di Pope. L’Epigoniad del signor Vilkie è una seccaggine che stancò Londra in poche settimane. Il cieco Balchloch (credo che questo nome non si scriva così come l’ha scritto il sig. Denina, ma non mi ricordo più come si scriva), il cieco Balchloch non è tanto dotto in greco, in latino e in italiano e in franzese come è stato detto al signor Denina da qualche Scozzese esageratore; e le sue poesie a stento stampate un tratto per forza di [387] un’importuna sottoscrizione, sono cose da nulla, e affatto scordate tosto che furono stampate. Il Mallet ha scritto buon inglese, e mi ricordo che Richardson, autore della famosa Pamela, soleva dire che Mallet era il solo Scozzese che sapesse scrivere il shall e il will senza confondere questi due segni de’futuri uno coll’altro; le poche poesie drammatiche di John Hume, che credo nipote del sopradetto istorico, sono cose deboli, che hanno avuto un mediocrissimo incontro in teatro, malgrado la cabala scozzese, e che non faranno gran figura presso a’posteri. Smollet, o come scrive il signor Denina, Smolett, traduttore di Don Chisciotte, autore di Roderick Random e d’alcuni altri romanzi, s’è assai lodato, non mi ricorda se nel Critical Review, o nel Monthly Review, ma non ha scritta cosa in alcun genere che lo renda cospicuo. Ecco l’informazione che posso dar io al signor Denina de’nostri contemporanei scrittori scozzesi. Egli la faccia vedere agl’Inglesi che conosce, e troverà che va un po’più vicina al vero, che non quella da lui data in questo suo Saggio a’suoi compatriotti, e data da qualche Scozzese a lui. Ma a che serve andare per giudizio da chi può essere parziale? Il signor Denina studii qualche anno l’inglese, e se può, vada a stare qualche [388] anno a Londra, e poi giudichi da sè, che così correrà meno pericolo di giudicar male; ma intanto non si lasci più uscir di bocca quella sua mal bevuta opinione che gli Scozzesi sieno in fatto di sapere rivali degl’Inglesi. Gli Scozzesi sono ancora da questo lontani molte e molte leghe. Non solamente l’Inghilterra abbonda di gente che scrive delle belle cose, chi per acquistar fama, chi per guadagnar danari; ma l’Inghilterra abbonda senza paragone più di qualunque altro paese del mondo di gente che sarebbe capace di fare colla penna una grandissima figura nella repubblica letteraria, e che non se ne vuol dar l’incomodo. Questo è quello che rende tanto e tanto quegli isolani stimabili agli occhi miei. Non voglio per questo dire che in Inghilterra non vi sieno degli inglesi scrittori cattivi. Ve ne sono a centinaja; ma pochi durano. Que’che durano e che dureranno, sono i Johnson, i Warburton e cinquant’altri che non voglio ora nominare. Bastino i nomi di questi due, l’opere de’quali sieno raccomandate al signor Denina, se vuole imparare a parlare e scriver bene in quella lingua; e lasci stare gli Hume, e gli Smollett, e i Tompson, e gli altri da esso nominati; eccettuando sempre Robertson e Mallet, che, come dissi, scrivono in lingua buona, e senza scot-[389]ticismi, o scozzesismi come vogliam dire. Voglio ancora aggiungere per vie maggior lume suo, e di quegl’Italiani che studiano l’inglese, di non si fidar neppur troppo degl’Inglesi stessi ne’giudizj che sentiranno lor dare de’loro celebri scrittori; perchè pochi Inglesi ho io conosciuti, che non abbiano un granellino più di fanatismo che non dovrebbero, quando si tratta delle cose loro. Pochi Inglesi vogliono confessare che i versi sciolti di Milton seccano alquanto; pochi vogliono concedere che il metro di Spenser è nojosissimo; pochi, che Pope è troppo ricercato e troppo epigrammatico; e pochi che Swift aveva un lato della fantasia imbrattato sempre di sterco. Ma io non mi sono lasciato trasportare soverchio fuor d’Italia. Facciamo fine con aggiungere solamente, che a questo opuscolo sugli Scozzesi il signor Denina n’ha aggiunto un altro brevissimo sopra la Letteratura de’Tedeschi, e che ha fatto bene a farlo brevissimo. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Livello 3►

Idea di un teatro nelle principali sue parti simile a’teatri antichi, accomodato all’uso moderno, del conte Enea Arnaldi, con due Discorsi, ec. In Vicenza 1762 appresso Antonio Veronese, in 4.o

Livello 4► Eteroritratto► Chi è obbligato a far uso d’occhiali nel suo primo applicarsi agli studj in gioventù, molto di rado si volge con fervore all’esame di quelle arti che sono principalmente oggetto dell’occhio, e che richieggono perfetta vista, per darci probabilità di poterle imparare con prestezza. E siccome questo fu appunto il caso mio, io non deciderò con autorità magistrale se questa Idea d’un Teatro del signor conte Arnaldo sia o non sia cosa in tutto degna dell’approvazione d’ogni buon architetto. Quello che posso dire con ingenuità è, che le ragioni addotte dal signor conte in favore del suo nuovo modo di fabbricar teatri, mi pajono invincibili non che soddisfacenti; e che molto volentieri anderei a sentire un’opera di Metastasio, messa in musica dal Galuppi, in un teatro fabbricato a norma de’bei disegni posti nel suo libro da questo nobil seguace di Vitruvio e di Palladio. Ma siccome la figura perfettamente semicircolare d’un tal teatro potrebbe farmi venir in mente la dispettosa rimembranza degli antichi Ro-[391]mani e de’Greci antichi, che barbaramente escludevano da’teatri il loro più bell’ornamento, cioè le donne; perciò bisognerebbe ch’io avessi meco nel palchetto quell’amabilissima dama di Vicenza, che mi chiede in prestito uno de’miei turbanti, onde si possa immascherare da Beglierbei in questo carnovale, per fare quattro ciance con essa ogni qualvolta il capitano delle guardie gorgogliasse le sue arie. ◀Eteroritratto ◀Livello 4 ◀Livello 3

Livello 3►

Aristarco al conte Vincenzo Bujovich.

Quando io dissi, combattendo un’opinione dell’abate Genovesi, che «il desiderio di vivere è affatto indipendente da’nostri beni e da’nostri mali », io volli dire, conte amatissimo, che «nel pesare i nostri beni e i nostri mali noi non abbiamo a contare la morte»; ma mi sono mal espresso, o per dir meglio ho tanto poco tempo da limare ogni mia sillaba, che sarà pur forza i miei leggitori trovino di tanto in tanto qualche cosa di mal espresso, e fors’anco di mal detto ne’miei fogli, non essendo io alfin del conto altro che un uomo.

Ma quare, mi dirà taluno, quare nel pesare i nostri beni e i nostri mali non dobbiamo noi contare la morte? Quia, rispondo io, quia la morte? non si ha strettamente parlando, a chiamare un ma-[392]le; ma si deve chiamare «un mezzo, per cui abbiamo ad uscire da tutti i beni e da tutti i mali annessi alla nostra umanità». E non solo, pesando i beni e i mali di quaggiù, noi non dobbiamo inchiudere la morte nel loro numero, ma non dobbiamo neppure inchiudervi la vita. E perchè? Perchè la vita, rispondo io, è come una bilancia sulla quale i beni e i mali si pesano; nè pesando una qualunque cosa s’ha a inchiudere anche la bilancia su cui si pesa. Se l’abate Genovesi avesse detto: «Io sono d’opinione che la vita sia meglio della morte, o la morte meglio della vita», allora sì, che una di queste due cose in confronto dell’altra si sarebbe potuta pesare; ma il Genovesi pose a confronto il numero de’mali di questa vita: onde qui la vita fu considerata da lui come una bilancia, in una delle di cui coppe stanno i beni e nell’altra stanno i mali. Egli guardò la bilancia, e disse: La coppa che contiene i beni trabocca. Ed io risposi: Tu t’inganni: gli è la coppa de’mali quella che trabocca. E quel mio detto parmi d’averlo provato a sufficienza in quel mio foglio; il che però non toglie che la vita non abbondi di beni, di cui v’auguro sempre copia. Addio, conte amatissimo. ◀Livello 3

Livello 3►

Aristarco agli scrittori buoni e cattivi.

Lo scrivere la Frusta comincia a non essere più una fatica grande ora che alcuni buoni corrispondenti mi vanno mandando qualche bel pezzo di prosa e di poesia. È da sperare che questi galantuomini non si stancheranno così tosto di ajutare il loro vecchio dalla gamba di legno con altre loro volontarie contribuzioni. Ma se da un canto qualche dotto uomo e qualche bell’ingegno m’allevia un po’il lavoro, vi sono dall’altro molti sciocconi che m’infradiciano troppo con un diluvio di composizioni appena degne d’esser lette dal mio schiavo Macouf. Annovero fra questi l’autore del Sermone che comincia Mi si dirà: tu vivi in Roma; e quello che mi fa quella lunga tiritera sul vocabolo egoista; e quello che dalla città d’Evandro m’esorta «a scrivere con eleganza, e a non pensare strambamente»; e quello che mi vorrebbe far parlare «delle polveri d’un ciarlatano francese »; e quello della «spada del re Saladino»; e quello che mi prega «di strapazzare una raccolta in lode d’un governatore di Spoleti»; e quello che mi stimola a «frustare il dotto Ferdinando Caccia sul suo libretto della lingua latina»; e quello del «Capitolo in biasimo delle lumache»; e quello del «Discorso in di-[394]fesa del matrimonio»; e quello che si offre di farmi da spia in una certa metropoli se gli voglio dare i fogli della Frusta per nulla; e più di tutti quelli che mi mandano sonetti in lode. Di grazia, signori sciocconi, non mi seccate con le vostre insulse lodi; nè abbiatemi tanto per semplice da lasciarvi sfogare le vostre malnate passioni nel mio foglio; nè mi crediate tanto codardo da lasciarmi far paura dalle vostre braverie; nè datevi ad intendere ch’io non sappia molto ben distinguere il buono dal cattivo, sia in prosa, sia in poesia, sia in arti, o sia in scienze. Calcolate tutti un po’meglio le forze delle menti vostre prima d’avventurarvi a scrivere ad Aristarco. E se volete pure scrivere a dispetto della natura che non v’ha dato bastevole cervello, ecco che Sofifìlo Nonacrio è pur ora sbucato fuori come un gufo da quelle dense arcadiche tenebre in cui è stato sinora avvolto; ecco che anch’egli s’accinge a stampare un foglio periodico. Scrivete a Sofifìlo Nonacrio, babbuassi, e lasciate in riposo Aristarco. Valete boni. ◀Livello 3

Livello 3►

Filofebo ad Aristarco.

Lettera/Lettera al direttore► Voi m’avete si spaventato col rigorismo delle vostre poetiche nozioni, che ho lasciato scorrere più di tre mesi senza scri-[395]vervi, malgrado la dolcezza con cui m’invitaste a farlo. Mi ha però rincorato alquanto il vedere che avete dato luogo in un vostro foglio a un capitolo d’un pastor arcade, e più ancora il vostro accettare l’oda di Pindaretto; onde ripigliando il fiato voglio avventurarmi a mandarvene anche una delle mie. Eccovela:

Livello 4► «Di Persepoli antica

Le gran porte d’argento
Rammentar a fatica
Da prische istorie sento:

Il babilonio impero

Che divenne? che il medo?
Non un vestigio intiero,
Un’ombra non ne vedo.

Che di Cartago resta?

Non è neppur nomata
Da quel che la calpesta
Tunisino pirata!

Fu l’alta Troja doma:

Sepolta Menfi stassi;
E di Roma? Ah di Roma
Rimangon pochi sassi!

Dove sei, Alessandro?

Dov’è quell’inumano
Che in riva allo Scamandro
Fe’strazio del Trojano?

E dove siete voi,

Onor di greca sponda,
Voi, riveriti eroi,
Pericle, Epaminonda?

[396] Dove siete, del Lazio

Duci d’estrema possa?
Di Scevola e d’Orazio
Qual campo asconde l’ossa?

Dov’è chi vinse astuto

Di Canne il vincitore?
Dove il rigido Bruto,
E il forte Dittatore?

Ah il tempo in nulla solve

Formidabili imperi,
Non lascia la polve
De’più chiari guerrieri!

Il tempo che distrutte

Quasi d’Omero ha l’opre,
E che a sua possa tutte
D’oscurità le copre!

Il tempo che si sdegna

Col Cantor mantovano
Perchè fuggir s’ingegna
Dall’ira sua; nè invano!

E di perenne fama

Me pur punge il disio?
E nutrir posso brama
Di fuggir Lete anch’io?

E anch’io con qualche rima

Di resistergli cerco?
E sulla doppia cima
Futura gloria merco?

Stolto! le mie fatiche

Inutilmente butto!
Mai dalle Muse amiche
Non trarrò sì gran frutto!

[397] Che dunque far? Da vile

Ceder al tempo edace?
Seguir dei più lo stile,
Poi varcar Lete in pace?

Sì, mi toglia a’viventi

La forbice fatale,
E appena mi rammenti
Un sasso sepolcrale.

Ma come? E in questo petto

Verrà meno il coraggio?
E da pensier sì abbietto
Lascierò farmi oltraggio?

E mi sgomenteranno

I tanti nomi illustri
Che dal tempo tiranno
Fur guasti in pochi lustri?

No: da me fatto sia

Contrasto al suo furore;
E la memoria mia
Resti dell’urna fuore. » ◀Livello 4 ◀Lettera/Lettera al direttore ◀Livello 3 ◀Livello 2 ◀Livello 1