Zitiervorschlag: Giovanni Ferri di S. Costante (Hrsg.): "Sezione Prima", in: Lo Spettatore italiano, Vol.1\01 (1822), S. 33-50, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.781 [aufgerufen am: ].
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Sezione Prima
De’Greci
Appresso tutte le genti il linguaggio della immaginazione divenne perfetto quando appena cominciava quello della ragione ad articolarsi; ed i poeti hanno saputo rappresentare e commuovere prima che i filosofi diffinire sapessero ed ammaestrare. Quinci incontra che i primi moralisti furono i poeti. Anteriore a tutti fu per li Greci stimato Omero, non solo per le regole e i precetti di moralità onde seminò i suoi poemi, ma ancora per la dipintura che dei costumi, delle passioni e dei loro necessarii effetti v’interpose. Il perchè saviamente disse Orazio che l’onesto e l’utile s’apprende meglio in Omero che in Crisippo e Crantore, filosofi [34] stoici. I di lui poemi, nota il critico filosofo Gravina, furon dagli antichi reputati lo specchio dell’umana vita e l’immagine dell’universo. Nell’Iliade comprese gli affari pubblici e la vita politica; nell’Odissea gli affari domestici e la vita privata: in quella dipinse le guerre e le arti del governo; in questa i genii de’padri, madri, figli e servi, e la cura della famiglia. Prevedendo Omero la ruina della Grecia dalla discordia dei popoli e dalla moltitudine dei capi, delineò alla sua nazione, sopra amplissima tela, la ragione tanto del pericolo, qual era la discordia, quanto della salute, qual era l’unione di tutta la Grecia insieme, colla quale poteva ributtare la potenza straniera che le soprastava. Conobbe ancora la ruina dei popoli esser le gare e le passioni private dei capi, e quelle per lo più nascere da piccoli semi, e bene spesso dagli amori e dalle gelosie; e perciò introdusse l’origine della guerra dal rapimento d’una donna. L’Odissea insegna negli avvenimenti d’Ulisse, e nella di lui saggia condotta, la sapienza privata dalla lunga sperienza del mondo appresa, e dalla conoscenza della fortuna, le cui vicende, come spesso dal sommo delle felicità ci urtano nel fondo delle disgrazie, così dal fondo delle disgrazie al sommo delle felicità ci sollevano.1
Fu per modo la poesia appresso i Greci consecrata allo adornamento della moralità, che assai scrittori versificarono de’suoi precetti; e fu quindi chiamata poesia gnomica, ovvero [35] sentenziosa. Esiodo, secondo alcuni, contemporaneo d’Omero, e, secondo altri, posteriore un secolo a quello, è tenuto primiero de’poeti gnomici. Varii poemi egli ha composto, di cui fino a sedici ricordati si trovano dagli scrittori; ma due soli ci son rimasti interi, la Teogonia, e l’Opere e i Giorni. Nel primo tratta della Generazione degli Dei, in cui dissente spesse fiate da Omero; e nel secondo, dell’Agricoltura: ma questo è così seminato in ogni luogo di ammaestramenti di sapienza, che viene considerato come un codice di morale. Esiodo fu sommo sacerdote in un tempio delle Muse sopra il monte Elicona; e lo insegnare è stata sempre l’ufficio del sacerdozio.
Sono a noi pervenuti molti versi gnomici de’Greci, e fra questi si apprezzano quei di Pitagora, chiamati Versi Aurei, non che le sentenze di Teognide e di Focilide. Vero è che gli Aurei Versi, ai quali diede tal nome la virtù e la sapienza ch’essi inseguano, probabilmente appartengono a qualche discepolo di Pitagora, e furono raunati da Empedocle agrigentino. In quel tempo medesimo (ciò fu verso la cinquantottesima olimpiade) fiorirono Teognide e Focilide. Entro i versi di questi poeti filosofi risiedono i principii della più sana morale, ed utili ammaestramenti per menare la vita.
Nel numero de’poeti gnomologici fu posto anche il principe de’greci Lirici, l’altissimo Pindaro; perciocchè non v’ha per certo tra gli antichi poeti veruno più morale e più religioso di lui. Se canta i trionfi dei vincitori degli olimpici giuochi, innesta ne’suoi versi [36] insegnamenti utilissimi per la vita, e con le lodi medesime fa comprendere le ragioni di ben operare. Se i canti suoi si propongono di onorare gl’Iddii, spirano essi la più accesa pietà; e con tanto zelo v’inculca la religione, e favella de’suoi guiderdoni, che ben si pare quanto ei ne fosse convinto. Laonde è avvenuto che da taluno si son comparate le sue massime con quelle delle sacre Carte, di cui S. Clemente Alessandrino ha presupposto che questo poeta avesse notizia. Nè solo negl’inni e ne’sagrifizi ei si restrinse a mostrare il suo culto inverso gli Dii, ma co’monumenti eziandio, colle statue e co’tempii ne lasciò perpetua rimembranza. Nè già furono senza il debito guiderdone cotante dimostrazioni di pietà: conciossiachè l’Oracolo di Delfo, per onorarlo in modo singolare e novello, comandò che a lui fosse riserbata una parte delle primizie che si offerivano al tempio; e si ebbe in tanto rispetto la sua memoria, che anco ne’giorni di Plutarco i suoi discendenti godevano di un tal privilegio.
Impararono da Omero i poeti drammatici a dipingere i costumi e le passioni; e così spinsero innanzi la conoscenza dell’uomo e i progressi della moral facoltà. I grandi esempi di Fato, le celesti vendette, le cadute della potenza e l’eccesso delle umane miserie furono i generali argomenti dell’antica tragedia. Forse che meno pomposi e meno variati che nel moderno teatro sono in quella i movimenti dell’animo. Ma la natura ne’primi suoi tratti mostrarono gli antichi; e l’Opere loro, per la espressione de’naturali sentimenti, sono i più [37] perfetti esemplari; ed è perciò che il linguaggio del cuore, tanto caro all’uom sensibile, nè per affettazione, nè per falso spirito vi è guasto giammai.
Eschilo dipinge maggiori che non possono essere gli uomini; nè le disavventure de’suoi personaggi di troppa compassione ci stringono, nè i loro esempi gran fatto ci ammoniscono. Sofocle induce l’uom qual esser deve: e come che quegli eroi siano a noi di sopra, pure quel che loro appartiene non si dilunga tanto da noi, che ammirazione e sollecitudine di sè non ci metta. Conciossiachè nei disastri non essendo essi esenti di debolezza, indi surge quella sublime commozione che Sofocle specialmente qualifica: altro poeta non levò tanto alto l’eloquenza della sciagura. Euripide trae fuor l’uomo quale egli è, nè sempre conobbe la bella natura. Nella pietà specialmente e nella tenerezza è egli eccellente, ed è questo il lato dal quale contrappesare può Sofocle. Questi non profonde sentenze che l’impeto trattengono delle passioni; ma sforzasi di porre a vista que’tratti i quali scolpiscono i caratteri, e manifestano gl’interni sentimenti di coloro ch’egli produce nella scena. Euripide, all’incontro, volle far nel teatro applaudire alla dottrina d’Anassagora e di Socrate; onde, per avere istillato l’amor de’doveri e della virtù, fu annoverato fra’Savii. Quantunque la censura possa riprenderlo di aver soprabbondato in sentenze e riflessioni, nondimeno sarà egli reputato sempre il filosofo della scena.
[38] Delle virtù morali, e di quelle massimamente che nella società debbono essere in più pregio, ha la più parte a fare col sentimento della pietà; e questo si è quello che in noi suscita la tragedia. Pietà n’apre il cuore a tutte impressioni che ad amare, a compiangere, a sovvenire i nostri simili ne conduce. Lungi dall’indurarne all’altrui sventure, la tragedia ne intenerisce senza pericolo; ne reca entro l’anima quante commozioni esercitano ed aumentano la sensibilità nostra; mette in noi compassione degl’infortunii; ne fa disdegnare contro le scelleratezze; inebriane di meraviglia per la virtù, e con lo scarpello della poesia nel nostro intelletto incide grandi ed utili verità.
La commedia, censura de’sociali costumi, regnò pur fra gli antichi meno ampiamente che fra i moderni, per cagione dello stesso ordine di società. In Atene la commedia si sa che tre stagioni percorse, le quali in vecchia, mezzana e novella la fecero distinguere. Satira in dialogo fu la prima, e null’altro; nè la seconda ne fu diversa, se non se per alquanto men di licenza. La terza fu la imitazione dei costumi posta in azione, ossia la vera commedia. Questa fra gli antichi fu per Menandro innalzata al sommo di perfezione. Che se al giudizio di Plutarco e di Quintiliano si dee stare, di nessuno antico autore tanto si conviene, quanto di questo pianger la perdita. Ma la principal gloria di Menandro si è l’essere stato imitato da Terenzio, il quale, per sentenza degli antichi, perdè di gran lunga la prova.
[39] Le sole commedie del greco teatro che a noi siano arrivate, son di Aristofane. Appartengono esse del tutto alla prima stagione della commedia. Satirico fu Aristofane, non comico daddovero. I suoi componimenti son favole, allegorie, farse e satire personali o politiche, le quali risvegliavano un interesse proprio delle circostanze, ma poi in processo di tempo divenute sono scure ed eziandio inesplicabili. Nella comparazione che l’accorto Plutarco fa di Menandro e d’Aristofane, vilissimamente parla di costui, venendo a dire, lui non avere scritto per piacere alle persone dabbene e da senno, ma per aizzare l’invidia, la malizia e la dissoluzione. Non pertanto è da lodare in Aristofane l’atticismo e la viva dipintura della leggerezza e di altre magagne degli Ateniesi. Ma la nota dei caratteri, dei vizi e dei ridicoli, che nelle forme esterne fino ad un certo punto si variano, senza che il tempo ne cangi la sustanza, indarno si cercherebbe nelle sue commedie. Per la qual cosa saria perduta opera il voler trovare i principii di moralità in colui che avversario e principale assassino fu del fondatore di questa scienza.
Meritò siffatto titolo Socrate, come colui che primo rannodò le più gravi proposizioni della morale, dandole per fondamento la religione, per cui fu detto che la fece egli scender dal cielo ad illuminare i mortali. Or dubitare che sua moralità fosse tutta pratica, non si può. I suoi principii egli chiuse d’un sigillo potentissimo, con morire per la verità.
[40] Socrate, la vigilia di sua morte, entro il carcere, più favole di Esopo mise in versi; non altrimenti che s’egli, fondatore della scienza morale, avesse per tal modo voluto un altissimo omaggio rendere al favolatore, quasi suo precursore riconoscendolo. Il quale, se il vero si dice, ove fosse stato per li Delfici ucciso, perchè con una sua favola, che loro aveva applicata, gli aveva offesi, dee senza dubbio esser conto fra i martiri della filosofia, come Socrate. In mezzo ai morali filosofi egli tiene sovrano luogo pel profondo senno delle sue favole. E tutto che parecchie ne siano registrate nei libri di Aristotile, di Plutarco e di alcun altro antico scrittore, pur corre opinione che la raccolta la qual porta il suo nome, non sia di Esopo. Ma pogniamo ancora, che il testo di Esopo sia smarrito, non fian perdute perciò le sue favole; perocchè esse vivono al tutto per la sola materia, onde lo stile nulla monta. Aggiungi, che di tutte le Opere più antiche, le sole favole di Esopo, a cagione della lor brevità, trovarono più aperta la via della tradizione per arrivar sino a noi.
Platone, il discepolo più famoso di Socrate, si levò più in moralizzare, che null’altro antico. Della influenza ond’ei comprese le menti più forti, è tenuto egli alla parte morale della sua filosofia, già migliore che tutte le altre senza comparazione, per la sua nobiltà, per la dolcezza e persuasione, e per lo suo essere acconcia alla umana natura. Nessuno fra’Pagani ha meglio ragionato della Divinità, e de’ [41] legami fra noi e quella. Tanta è la conformità della morale sua con la cristiana, che ne fanno mostra gli stessi Padri della Chiesa. Più che altrove discernesi in que’due dialoghi intitolati Alcibiade, che di una moralità pratica sono dotati. Ivi Socrate insegna la prima volta a questo giovane ateniese il cammino della vita ed ivi lo fa accorto di riguardar la virtù non pur come il primo dei doveri, ma come il primo e solo bene che può far tutti gli altri con frutto impiegare. Per salire a virtù gli dimostra essere il primo passo la conoscenza di se stesso, che tanto è a dire quanto de’difetti e de’vizi che pate la natura umana, dal cui fonte tutti i mali discorrono. E posciachè Dio si è l’origine di tutte verità, di tutti beni, dal modo di onorar Dio fa Socrate la sapienza dependere. I più sublimi trattati dell’attiva morale sono l’Apologia di Socrate e il Fedone. Si sa che il primo contiene un ragionamento tenuto dal Savio di Atene per sua difesa nell’Areopago; e l’altro, un dialogo con cui Socrate, alcuna ora prima che bevesse la cicuta, ammaestrava gli amici, che lo ammiravano e compiangevano, sull’immortalità dell’anima. Tra le Opere di Platone su la utile e pratica morale si possono contare i Dialoghi contro i Sofisti, che sono ivi rappresentati sotto comiche forme, non altrimenti che per un famoso moderno furono ritratti i rilassati Casisti; e la provveduta ironia di Socrate intende a dirizzare al suo vero fine ed alle utili e morali verità la filosofia.
Come Platone, così fu Senofonte discepolo [42] ed amico di Socrate; nè ad altro portò tanta passione, quanto ad apparer meritevole dell’amicizia del suo maestro. Il perchè tutte le sue Opere sono sparse di religiosi sentimenti, di principii di giustizia e d’immagini di virtù; la quale da pochi scrittori fa per valor d’ingegno così figurata amabile, come da lui. L’una delle Opere morali di Senofonte è la difesa per lui fatta al suo maestro, la quale, non meno che quella di Platone, è un altissimo trattato di moralità in azione. La Ciropedia, che pare ad alcuno un romanzo morale e politico, perchè Senofonte vi tracciò l’esemplare di un eccellente principe e di un governo perfetto, ritiene tuttavia la midolla storica; nè qualche particolar circostanza vi fu dall’autor soprapposta per altro che per ammaestramento degli uomini. Che se ambiziosi e cupidi di tirannia potessero mai dare udienza ai consigli di moralità, dovrebber leggere il dialogo che ha il titolo di Hierone, ovvero del Tiranno. Prova in esso il filosofo come non ha tirannia, se non se in apparenza, certi vantaggi che dalla privata condizione la discernono. E ben potrebbe chiamarsi il Principe di Senofonte, e sedere al lato del famoso libro in cui Machiavelli, traendo sostanza dalla storia, espose la teorica della tirannia per meglio a lei torre la maschera, e renderla più odiosa.
Gli antichi medesimi riposero Isocrate nel novero dei moralisti, come quegli che si era mostro discepolo degno di Socrate, appresso la cui morte non dubitò di farsi vedere in gramaglie al cospetto di quel popolo stesso che lo [43] assassinò. E nel vero nelle Opere sue si scorge un caldo amore del bene e della virtù; onde che Quintiliano lo appella uomo studioso della onestà, e Dionigi d’Alicarnasso afferma trovarsi nelle sue orazioni i più bei documenti della virtù, per li quali i suoi leggitori non pure a ben favellare, ma a ben vivere altresì si rendono acconci, e apparano ad essere utili alle famiglie loro ed alla patria. Parecchi letterati hanno raccolto le sue sentenze, ed infra gli altri il dotto Facciolati, che ne ha posto fuori un’elegante traduzione latina, ove a ciascun paragrafo aggiunge molti simiglianti concetti tratti da tutta l’antichità.
Fra gli antichi tutti colui al quale la scienza morale deve più il suo procedimento, è il discepolo di Platone, l’immortale Aristotile. Aveva egli contemplata meglio che i suoi antecessori la differente maniera di vivere a che le diverse leggi, la varietà dei climi e dei luoghi, e il più o meno di civiltà recar possono l’uomo. Aveva studiata la natura e la storia, e letto quanto di vero e di falso si era dalla filosofia sino allora affermato. Meglio del suo maestro fondò egli la necessità, cui dalla natura fu l’uom sottoposto, di andare per la felicità, additando quella dimorare nella virtù. Innanzi a lui nessuno aveva tanto ben conosciuto l’umano spirito e il cuore, e la via di guidar l’uno e l’altro. Quel fruttifero principio di non essere le virtù se non circoscritte e temperate passioni; quella gran moltitudine di sue diffinizioni che più sono perfette; e quella sua logica, da cui s’impara a disarmare i Sofisti, sono tanti [44] beneficii de’quali ha egli voluto servire la morale, cui venne ad ampliare la lingua e le idee. Ed avvegnachè fra i moralisti pratici, che i costumi rilevarono e i caratteri, non possa egli esser posto; fia pur dritto il confessare che nessuno è fra costoro il quale non abbia da lui tolto a riguardarli e conoscerli, e che de’cosiffatti pittori il primo fu suo discepolo.
Teofrasto dall’Etica del suo maestro non solamente attinse quelle ottime diffinizioni con le quali comincia ogni capitolo de’suoi caratteri, ma la sostanza medesima dei caratteri ch’egli impronta, ne trasse. Senza travagliarsi di fissar principii con nuove disputazioni, egli si è rivolto ad applicare gli stabiliti ai costumi de’suoi tempi. Teofrasto, ritraendo le innumerabili variazioni che nel fondo stesso del carattere si ritrovano, produsse una nuova scuola di studiar l’uomo: conciossiachè dal quadro di una gran massa di gente si apprenda meglio a conoscere la specie. Da questa ingegnosa sua invenzione di accozzare in una tavola i gradi sì differenti d’un vizio o di una virtù, può essere che s’argomentassero i poeti comici di adunare con verisimile in un personaggio ideale e di convenzione tutti i naturali lineamenti o d’alcun difetto di spirito, o d’alcun vizio di cuore. Fece Teofrasto al suo discepolo Menandro immaginare la commedia di carattere che i moderni con tanta perfezione forbirono. Quel suo libro dei Caratteri appresenta, così nelle dipinture, come nelle massime, i tratti d’una artificiosa verità. Ma egli particolarmente con la lucidezza del suo atticismo e con la leggiadria [45] della sua favella si è nobilitato, come quegli che descrive, narra e conta con diligenza, e tal fiata d’un modo trasvolante ed eccitato. Vero è ch’egli non sapea le forme drammatiche: il perchè la sua Opera non si può giudicare una viva dipintura, nè una rappresentazione della società, come è quella di La Bruyere che sì gloriosamente è stato suo emulo. Del rimanente, quello che mondo e società significa tra’moderni, non si trovava anticamente: perciocchè nei vincoli sociali le donne non avevano parte con gli uomini, e per conseguente non sono esse mentovate nel libro di Teofrasto; siccome non tenean grado presso i Comici antichi, fra i quali solamente cortigiane e schiave comparivano.
Appresso le scuole di Platone e di Aristotile una delle più rinomate fu quella di Zenone. Sono maravigliosi i principii di questo filosofo per lo principato che in tutte le cose attribuiscono alla virtù. Uomini sommi egli annovera fra’suoi discepoli; e forsechè da ciò sedotto il rinomato Montesquieu, recossi a dire che le sole cose nelle quali ha grandezza, come il disprezzo del piacere e del dolore, erano per gli Stoici oltre misura esaltate. Mal conobbero la umana natura questi filosofi, per troppo volerla sublimare. Hanno oltre il convenevole ingrandito i doveri, e vil cosa stimato i sensi e i naturali diletti. Quanto alla utilità generale, niente misero in campo che alle cose di Platone e di Aristotile scritte sopra i costumi possa far fronte. Gli Stoici sempre s’armarono di ragione, e rifiutarono gli aiuti della persuasione in tal [46] bisogna cui più di persuader fa mestieri. Per la qual cosa essi alla morale toglievano il maggior suo incantesimo e la più incirconscritta signoria. Ecco il carattere delle Opere che del Portico n’avanzarono.
I due che abbiano fatto più onore alla setta degli Stoici, sono Epitteto e Marco Aurelio; avvegnachè ambidue han ritratto il carattere del verace Savio, come ideato l’avevano i filosofici questa setta; la qual cosa però si tenea per chimera. Delle diverse scritture composte per Epitteto, nessuna ce ne rimane, posto che sia vero quel che affermasi dal suo commentatore Simplicio, che il Manuale sia stato scritto da Arriano, discepolo di quello. Ma basta quest’Opera per potere appieno conoscere i principii d’Epitteto, il quale, come ognun sa, restringeva la sua filosofia nel comportare con rassegnazione i mali, e nel porsi un freno nei piaceri (sustine et abstine). Abbiamo pure di Arriano un commentario in quattro libri, il quale è similmente acconcio a far conoscere la filosofia d’Epitteto; posciachè quegli ne vuol far credere di non averlo composto se non di ciò che udito aveva dal suo maestro, dettandolo, per quanto avea potuto, colle parole medesime.
Va per lo più congiunta al Manuale d’Epitteto la Tavola di Cebete tebano, filosofo socratico. In questa egli finge un quadro in cui fosse dipinta la vita umana, e rappresentate le varie vicende di essa, come pure le virtù e i vizi. La costui morale non discorda da quella di Epitteto.
I Trattenimenti di Marco Aurelio con se [47] stesso sentono della più alta filosofia e della più pura morale. L’una parte dell’Opera contiene i principii della setta dall’autore seguita; ma l’altra è tutta sua propria, e si potria chiamare la Morale del Principe, come quella che si conviene a tutti gli uomini degni di regnare. Marco Aurelio ha col suo esempio confermato il celebre dettato di Platone: Che i popoli saranno felici, quante volte o regnino i filosofi, o siano filosofi i re.
Pose il savio Plutarco la filosofia Accademica innanzi alla Stoica. Da quella ebbe condizione di ponderare le opere degli uomini, di specificare i costumi e i caratteri, e di segnare ai vizi ed alle virtù, senza confonderle, i sicuri lor termini. Della Divinità e della provvidenza tenne egli pur la dottrina de’suoi maestri Socrate e Platone; ed in questa morale comunale, acconcia ad ogni condizione ed a tutti i casi, nessun degli antichi è da preporre a Plutarco. Lo special suo carattere si è di sempre accostare alla pratica, più che dilatare in ispeculazione, le proprie idee. Forse fu questo lo spirito che più naturalmente moralizzasse, come si può ben dedurre tanto da’suoi maravigliosi Paralelli, quanto dalla gran copia de’piccoli trattati, tutti pieni di utilità, e da stimar molto. Notabili son quelli del Modo di leggere i Poeti — Dell’Ufficio dell’Ascoltatore — Della Distinzion dall’Amico all’Adulatore — Della Utilità che si può cavare dai Nemici — Della Curiosità — Dell’Amor delle Ricchezze — Dell’Amor fraterno — Del tardare la Divina Giustizia contro i Malvagi, ec. Tutto in queste [48] scelte operette è salute, tutto è sostanza; e se ne potrebbe in uso della gioventù raccorre un volume di pratica moralità.
È de’primi Luciano fra i moralisti satirici, per la guerra che con le armi leggiere del motteggiare va dando ai vizi ed ai ridicoli del suo tempo. Nelle anguste sue Opere in forma di dialogo spesso egli ne mena a parlamento Dei e Sofisti, gli uni e gli altri pigliando a gabbo, sempre censor feroce d’ogni superstizione e d’ogni ciurmeria. Mostrano ingegno e sanno di sale molti suoi dialoghi, e puossi per entro le sue Opere elegger più d’uno che per la materia e per la forma fia di gran conto. Ma è di necessità questa scelta, per le lordure onde ha sparse le sue Opere, e per la irreverenza che egli usa eziandio ai principii della religione naturale. Nè gli sta male il rimprovero di aver co’più vili Sofisti confuso quei medesimi che altrove furono da lui commendati per veri filosofi, siccome Socrate ed Aristotile.
Una maniera di Opere ci ha che alla rappresentazione de’costumi e dei caratteri spetta, e che ancora fa pro, sì veramente che ad un moral segno ferisca, quai sono i romanzi. In ciò gli antichi sono da molto meno che i moderni. Assai romanzi greci a noi rimangono i quali per la varietà de’casi e delle vicende possono altrui piacere; ma non però che gli affettuosi e delicati sentimenti vi siano sviluppati, nè distinte le particolarità dei costumi e dei caratteri, in che massimamente consiste il pregio di cosiffatte scritture, e per cui trovano esse luogo fra le Opere morali. Il solo che intenda [49] ad un segno, è Longo, autore di Dafni e Cloe, il quale ne porge il quadro della innocenza e dei costumi pastorali; se non che il naturale spirito delle sue immagini e del suo linguaggio travalica eziandio in licenza, e pericolosa rende la sua lettura. Ma gli Etiopi di Eliodoro, ovvero gli Amori di Teagene e di Cariclea, destano un qualche interesse, ed istillano una moralità salutevole. Gli altri greci romanzi che vanno attorno sotto il titolo di Erotici, come che ingegnosi e piacevoli siano, pur niente hanno che alla vanità dell’argomento metta compenso.
Trattandosi delle Opere morali che la Grecia a noi tramandò, non si vuol pretermettere l’Antologia di Giovanni Stobeo, scrittore del v secolo. Siffatta doviziosa raccolta, da lui eseguita con indicibile studio e fatica, sfiorando non meno di 500 autori tra filosofi, oratori e poeti, racchiude un ampio tesoro di scelte sentenze, di morali insegnamenti, e di detti e fatti d’uomini illustri; e a questa inesausta miniera hanno fatto ricorso tutti i moderni moralisti. Si deve a Stobeo professare obbligo dell’averci conservato i celebri dettati dei saggi, dei legislatori e dei filosofi che non si rinvengono altrove, come anche i frammenti di molti scrittori le cui Opere si sono smarrite. Nessuno ignora che alcuni uomini virtuosi, noti col nome di Saggi, impresero i primi a raccorre le morali verità che essi rinchiusero in massime di tanta chiarezza da esserne subitamente fatti capaci, e di tanta precisione da poterne rilevare la sustanza. Ciascuno di quelli scieglievane [50] una fra le altre perchè fosse quasi la sua impresa e la norma della propria condotta. Al loro esempio tennero dietro i Greci, e massime gli Spartani; e questo contribuì a mandare innanzi la morale. ◀Ebene 1
1V. Della Ragione poetica, art. XVI.