Lo Spettatore italiano: Proemio

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Proemio
Poichè dal cielo, come disse il romano Oratore, fece il più sapiente de’Greci discender la Morale per illuminare la terra, fu ella tenuta la vera scienza dell’uomo, e madre di ogni bene alla civil società. Molti filosofi, dietro la scorta di Platone e di Aristotile, s’ingegnarono di fondare i principii di questa scienza, di ordinarla a sistema e di rivocarla ad una teorica. Più altri, ristringendosi agli essenziali precetti della morale, si brigarono di recarla ad evidenza con diletto e con forza, appropriandola ai costumi e ai caratteri, e cavandone una scienza pratica. Senza fallo gli ultimi di queste due maniere di moralisti più piacevoli sono e più utili: laddove i primi spesse volte hanno in sorte di essere ammirati e non letti, e di giacer seppelliti con venerazione nel fondo delle biblioteche, o di esser letti dalla sola gente atta a meditare; gli altri, or favellando allo spirito, ora alla immaginazione ed al cuore, e sensibili facendo con felici applicazioni le verità, si adattano alla sufficienza di ogni specie di lettori, e sanno loro porgere ricreamento e utilità. Da siffatti maestri la morale conosce i suoi maggiori avanzamenti: conciossiachè di questa avvenga ciò che delle altre scienze avviene, ove le successive osservazioni ed il paragone dei fatti menano altrui allo scuoprimento dei principii, mentre che i principii non altro che speculativi di rado sono sicuri, più di rado ancora hanno stabile applicazione, e spesso nelle dubbiezze de’sistemi si risolvono.
Alla morale pratica appartiene l’Opera che sotto il titolo di Spettatore noi pubblichiamo. Tratta ella dei doveri dell’uomo ne’differenti suoi stati, e lo stesso uomo dimostra nei diversi caratteri. In luogo di diffinire in un trattato composto e ordinato le passioni, le virtù e i vizi, trae nella scena i pensieri, i ragionamenti, e gli atti che più l’una che l’altra passione, o vizio o virtù ne distinguono. Essa produce la morale in azione, ed apre la dipintura, anzi la rappresentazione dell’uomo e della società. E perciocchè la scienza de’costumi è di sua natura quella del sentimento, non si è appagato lo Spettatore di parlare allo spirito ed alla ragione, ma si è studiato d’eccitare la sensibilità, e di far commovente ed induttiva la morale, dandole un linguaggio animato ed affettuoso. Di certo è questa la via di farla fruttificare: da che i sentimenti nostri più che gli ammaestramenti operano sopra le nostre azioni; e gli uomini meno dal giudizio del loro spirito si fanno condurre, che non si lasciano aggirare dai loro affetti.
Cosiffatto è il general disegno del nuovo Spettatore. Non sia disdetto all’Autore di più partitamente il suo proposto mostrare, e i principii per lui seguíti, e il divisamento e la forma e lo stile a cui si è appigliato. Perocchè facendo questo ragionare meglio conoscere l’importanza e la malagevolezza dell’Opera, gli potrà per avventura impetrare che, se non con approvazione, almeno con benignità sia essa accolta.
Cominciando lo Spettatore ad investigare il fondamento della morale, ha ravvisato null’altro poter quello essere che la religione. Falsi filosofi, comechè cresciuti fossero nei principii della religione rivelata, presunsero la natural legge essere appieno salda nella ragion che la vede, e nel bisogno che di praticarla l’uom sente. Ma que’sapienti stessi dell’antichità, che non aveano altro lume che la ragione, posero per radice di moralità la unità di Dio, l’immortalità dell’anima, e i guiderdoni e i gastighi in altra vita. Tutti i legislatori sigillarono quelle con una confermazione religiosa, e tutte le genti discorsero essere di necessità giugnere coi doveri prescritti dalla morale l’esterno culto alla Divinità prestato. Il perchè dalla religione disgiungere la morale non è altro che corromperla. Alla sposizione di questi alti principii l’Autore ha più capitoli impiegati; ciò sono particolarmente quelli di Dio, dell’immortalità dell’anima, della religione e della morale evangelica.
Posto un tal fondamento, si rivolge l’Autore a studiare la natura dell’uomo; nel quale per facoltà primiera egli scorge la sensibilità, che non è già una inclinazione semplice di sua costituzione, ma pure una virtù, come quella che per avventura, quanto le altre sue disposizioni, dalla educazione depende. Nome di pietà ella veste quando è mossa dal soffiare di un essere che ha senso. Questo è un universal sentimento da cui levan capo tutte le sociali virtù, e intanto è il più utile all’uomo, in quanto all’uso della riflessione precorre. Natura in noi pone la pietà contro l’ira, contro la vendetta e contro i moti dell’interesse personale. Il primo conoscimento della giustizia viene a noi dalla pietà, che ce ne accende l’amore; e non altrimenti che faccia il nostro utile stesso, c’induce ad accomunar fra gli uomini i mutui servigi. Sviluppare e consolidare più forte questa preziosa facoltà, si è il primo ufficio del moralista. Quanto meno appo tutti i popoli sono perfette le leggi, quanto meno divengono stretti i particolari legami della patria, tanto più di necessità si conviene rivocare questo universale sentimento di benevolenza che l’uomo all’uomo congiunge; e i difetti almeno o gli errori delle leggi adempiere con questa legislazione di natura, la quale in tutta la terra volle ricoverare sotto lo scudo della pietà la debolezza e la disavventura.
Usa lo Spettatore le vie del patetico a muovere la sensibilità, a risvegliare la compassione, e a farci nei mali dell’uman genere di tenerezza e d’indegnazione lagrimare. Per tutta l’Opera spira questo focoso amor della umanità, che il petto gl’infiamma; ma più si pare nei molti capitoli per lui composti a schermo e conforto della gente poverella e dolorosa, la quale sembra quasi civilmente diredata; si pare in quelli ove egli ritrae gli orrori della schiavitù condannata omai dai giusti ed illuminati Governi, tutto che l’avarizia si fatichi di difenderla e continuarla; e sì in quelli ne’quali egli grida in favore della più bella metà dell’umano lignaggio, che l’Europa nel divenir civile ha preservata da servitù, quantunque non lascino inique leggi ancora di tiranneggiarla. Troppo egli è il vero che ne’luoghi eziandio di più civiltà, dove le femmine hanno più imperio, l’uomo di sua forza abusando, e pure idolatrandone la bellezza, trae dalla loro debolezza profitto. Le adora e le soverchia, e n’è lo schiavo e il tiranno in un tempo. Ragione è che si dolgano esse de’sociali statuti, i quali, di parte spogliandole del loro diritti, tolgono ad esse che tutte le morali disposizioni sviluppar possano ed esercitare, in che propriamente la libertà e la felicità consistono.
Un altro principio generale, ma meno laudevole che la sensibilità, si è nell’uomo quella natural malizia per la quale egli con una compiacenza di disprezzo mista riguarda gli altrui difetti. Di questa disposizione si giovano i dipintori dei caratteri, così come i poeti comici e i satirici morali per produrre il ridicolo e riprendere i vizi. Certa cosa è che il mutare questa viziosa compiacenza in una compassione filosofica saria stato il meglio: ma più agevole si è conosciuto essere e più sicuro l’adoperar la umana malizia ad emendar gli altri vizi della umanità, non altrimenti che si usa la punta del diamante a forbire il diamante stesso. Ancora si è veduto l’uomo più prontamente guardarsi dagli atti biasimevoli, che le cose laudevoli seguire. E quindi incontra, che mostrare i vizi e le follie sotto vera luce non è meno utile, che gli esempi di tutte le virtù porre a vista: laonde al pittor dei caratteri non s’appartiene men che al poeta comico o satirico l’uso delle stesse armi per assalire i vizi e i ridicoli. Le sue dipinture egli al vero rappresenta, ma ne travisa gli originali, e non è esso da riprendere se non quando si attenta alla censura personale. Dipingendo i costumi del suo tempo il famoso la Bruyere, nel prendere gli esempi di mezzo a quelli con cui vivea, potè talvolta meritare il rimprovero di aver punto le persone: ma lo Spettatore ha espresso l’uom di ogni tempo e di tutti i luoghi. È meno pittor di ritratti, il quale rende servilmente gli oggetti e le forme presenti, che pittor di storia, il quale sceglie e unisce esempi differenti, solo rilevando i tratti del carattere, e vi sa quello che gli crea la sua immaginazione, aggiungere. S’altri fa giusta applicazione dei caratteri viziosi o ridicoli che abbia egli disegnati, sia questo un argomento dello aver lui fedelmente la natura dipinta; e se, a modo delle femmine brutte cui si porga lo specchio, adirasi qualche lettore contro il censore che gli appresenta la immagine de’suoi vizi, esso verrà disavvedutamente a svelare il suo vituperio.
Adunque i capitoli dello Spettatore hanno due primarii caratteri, secondo i principii da cui discendono, sensibilità e malizia umana; e secondo le vie che l’Autore tiene, il patetico del sentimento, o il sale dello epigramma e della satira. Non però che non vi siano di molti capitoli che si potrebber nominar filosofici; perciocchè l’Autore si briga di salire ai principii di un’alta filosofia, disaminando la influenza delle abbracciate opinioni, e ricercando a parte a parte il cuor umano. Non si è circoscritto a colorire i grandi effetti delle passioni e i comunali tratti dei caratteri; ma spiando l’interno ordigno del cuore umano per iscuoprirne i secreti e palesarne le molle, ha mostrati quei rapidi e quasi invisibili movimenti che nelle passioni sfuggono al più degli spettatori, e che spesso, più che i forti avvenimenti non fanno, sono buoni a palesare i caratteri. Ma perocchè ha egli stabilito di pingere e porre in azione le cose, veste quasi sempre le sue più generali osservazioni di una immagine particolare, ed in tante pitture dimostra le sue filosofiche opinioni, chiudendo in una di esse ciò che potrebbe ad un ragionamento prestar materia.
Intendimento dello Spettatore si è lo sporre nella sua Opera i principii di moralità, non che la dipintura della umana vita. Onde a voler l’uno e l’altro fine toccare, mestier gli è stato ritrarre i costumi d’ogni età, d’ogni condizione e d’ogni stato; trattar delle passioni, delle virtù e dei vizi, ed appresentar l’uomo nelle mie abitudini sociali e nelle differenti circostanze della vita. A quelle cagioni gli è convenuto risalire le quali maggiormente operano sopra i costumi e i caratteri; e lavorando di sì gravi e sì diverse cose, i doveri dell’uomo e del cittadin rilevare, siccome le regole altresì di vivere, le quali per aggiungere alla virtù ed alla felicità, sono da seguitare. Gli è ultimamente bisognato insegnamenti dettare di esperienza coi quali dee pratico moralista supplire a quella, ed ammaestrarci onde poterla acquistare.
A variare ed avvivare in quest’Opera le scene, entrano ad ora ad ora, come nelle nostre compagnie, le femmine, che lo Spettatore presenta con le virtù loro e con le loro piacevolezze, senza lasciar di notare e biasimare i loro difetti, il loro ridicolo e i loro vizi. Ma se talora le dipinge con satira, egli nol fa per impedire ch’uom le ami; anzi, al contrario, perchè custodiscan esse quello che forma il regno loro, e tutto ciò che indebolir lo può, fuggano. Parrà forse che troppo luogo abbiano le donne in quest’Opera a coloro solamente ai quali non rimembrasse che quando la metà più bella e più gentile della umana generazione è divenuta compagna dell’uomo non pur nella privata, ma nella esterna ancora e pubblica vita, allora è stato lo avventuroso tempo di una mirabile rivoluzione nel temperamento di Europa, perocchè ha compiuto di renderla civile.
Di tutte le parti della società, quella degli abitatori e dei coltivatori de’campi è di maggior numero, e forse di maggior momento. Il perchè non è stato lecito allo Spettatore il trasandare di dipingere i costumi di siffatta gente, e di parlare eziandio della campagna, la cui veduta è di una morale influenza che non fu mai posta in dubbio. Le maraviglie di natura, che vi si contemplano, producono in noi sentimenti di ammirazione verso il Creatore; e quel sentimento sostien sopra sè la moralità. La semplicità della vita campestre sempre ha qualche cosa che ne commove; nè può l’uomo esser freddo e duro alla vista della coltivazione e della ricolta. In ogni luogo vi si sente quella esser la prima e la sovrana arte che più con la innocenza e con la pace conversa. Ben più sovente dovrà la campagna esser la dimora di felicità; ma a cagione di viziosi ordinamenti, e dello sfrenato e strabocchevol lusso, vi si spande troppe volte la miseria, non senza la corruzion dei costumi. Nè lo Spettatore, dipingendo la vita campestre, ha negletto di pennelleggiare altresì le sventure a cui gli abitatori dei campi sono sottoposti. Cosiffatte scene sono alle volte tanto dolorose che bastano a muover pietà; ma non è voler dell’Autore il comporre idillii che le illusioni dell’età dell’oro qui rinnovassero. Bene è vero che dai componimenti pastorali del virtuoso Gessner, consacrati al sentimento e alla moralità, si trae tanto utile quanto diletto. Ma queste pitture, effigiate in su lo aspetto della natura, se non sono così dilettevoli, infonderanno almeno un maggiore interesse e più verace utilità.
“Qualche commercio, qualche obbligo mutuo (disse Montaigne) corre fra noi e gli animali.” Nè per conseguente può il moralista posporre d’investigare il modo con cui si conviene quelli trattare. Così giustizia, come umanità levano alto il grido contro la crudeltà che si esercita sopra questi esseri, cui se la natura privò di ragione, dotò di esquisita sensibilità. Possiamo essere umani co’nostri simili, essendo crudeli con le bestie? Che vale commendare ai fanciulli verso i loro simili dolcezza e benignità, se giuocar sulla vita degli animali e trastullarsi con le pene di quelli è loro conceduto? Per la qual cosa lo Spettatore assai capitoli ha composti per risvegliar benevolenza in verso gli animali; dal qual sentimento, più che non si stima, traggon forza i principii di moralità e di giustizia.
Ancora è parte del divisamente dello Spettatore il dover parlare di ordini, di usanze e di opinioni, le quali non che su i costumi, ma sulla felicità delle persone e della società sogliono operare. Ma necessità di non dilungarsi oltre misura, ed altre considerazioni ancora gli hanno interdetto di trattare più che un cotal numero di siffatti argomenti, siccome è a dire la guerra, il duello, l’amor di patria, i nemici naturali, i chiostri, la nobiltà, la moda, ec. Più ampiamente egli ha scritto di lettere e di arti, come di quelle che non solamente possono riformare i costumi, ma sono dirittamente ordinate ad eccitare e istillare i principii di moralità, non che a spargere i semi di umanità e di virtù, e fecondarli. Sono sofisti i quali hanno cavillato, l’uomo coltivante l’animo e la ragione guastarsi; e però vorrebbero contendergli l’uso delle scienze e delle arti, perchè quelle alcuna volta, come tante altre cose, malvagiamente adopera. Il che altro non viene a conchiudere, se non che lo vorrebbero a paro a par con le bestie: senza por mente che la sorte di quelle, non d’altro che dello istinto partecipi si è costante e invariabile; laddove l’uomo, provveduto della facoltà cogitativa ed estimativa, è naturalmente a mille mutazioni sottoposto, nè dallo svolgere ed ampliare tutte sue potenze si rimane giammai. La prima considerazione partorì tutte le altre, e la via fece a ritrovare ed avanzare le arti e le scienze. Il perchè volergli impedire di coltivarle, perduta opera sarebbe. A incatenarlo nello stato d’ignoranza, la quale specifica gli esseri d’inferior condizione, torre gli si dovrebbe la facoltà di parlare e di giudicare. Ma la vera filosofia invece di vietargli lo sviluppar sue potenze, che sono il dono più prezioso del Creatore, in sollevar quelle, e assodarle, e convertirle al dilatamento della virtù e della felicità, pone fatica.
Un’Opera intesa alla esposizione dei principii di moralità, e alla dipintura della vita umana, non avrebbe una parte essenziale, se lo spettacolo della morte e del sepolcro le mancasse. È questo il più forte e più notabile atto del gran dramma della vita, dal quale altissima scuola e i consigli più salutevoli si apprendono. Si studiarono il poeta Young e il filosofo Harvey e più altri moralisti di torre quell’orribile aspetto alla morte, sotto il quale in più luoghi è mostrata; e vollero avvezzare i mortali a riguardarla come una legge, non come una pena, e loro insegnare sommissione a questa legge universale. “Al savio, dice un filosofo, altro non è la necessità di morire, se non se una ragione a pazientemente tollerare le avversità della vita.” Non è che fallace giudizio quello che nello estendere fino alla morte, e non più oltre, il nostro sguardo, rendeci quella il più gravoso de’mali nostri. Natura stessa ne è maestra di sommissione; onde è a vedere l’uomo idiota e semplice che contro la morte poco si affanna, e quasi senza querimonie l’incontra. Se non che sommessione che da ragion muove, non è mai perfetta nè intera, e tale può renderla solamente la religione. Sopra questo grave soggetto ha composto lo Spettatore più capitoli, nei quali egli disegna pitture e scene convenienti, egli è il vero, ad indurre malinconia, ma non vote di utilità, nè di certa dolcezza come quella che gli oggetti del nostro amore e de’sospiri nostri ci torna alla memoria.
Sono queste le cose che contiene il nuovo Spettatore, che per condirle di allettamento e di novità ha dovuto nuove e variate forme trovare. Veramente egli tentò d’immaginare un Viaggio, poscia un Decamerone; ma finalmente, lasciando stare ogni artificio, scelse la forma dello Spettatore Inglese, come la più suscettiva di una gran quantità di argomenti. Ma egli l’Opera sua componendo di capitoli il più separati, gli ha disposti in certo ordine che li congiunge e un tutto insieme ne produce. Tratta nei primi dei doveri de’genitori, della puerizia, della educazione; e gli ultimi portano le pitture della morte e della tomba. Se leggonsi con diletto i saggi insegnativi dello Spettatore Inglese, senza dubbio di grandissimo pregio, ma sconnessi ed alieni l’un dall’altro; perchè non dee dilettevole parer la lettura di capitoli di sentimento, di carattere e di considerazioni concorrenti ed uniti a formare un’ampia dipintura, sì veramente che allettino essi il leggitore e lo intrattengano? Si è studiato il nuovo Spettatore di vestire alla sua Opera quanta varietà gli è stata possibile; della qual cosa fanno fede le differenti forme onde ha tessuti i suoi capitoli, componendoli a quando a quando di pitture, di narrazioni, di allegorie, di dialoghi, di ritratti; ed a questi or considerazioni, or giudizi intramettendo. La qual varietà di forme, posta con la diversità de’soggetti, per forza cagiona l’uso di più d’uno stile, e ricever può tutte le ricchezze della lingua.
Si è studiato lo Spettatore di evitar l’aria e il tenor della cattedra, tra perchè ha voluto schifar quella noia che a lungo andar vi si trova, e perchè, inteso a recare in azione la moralità, la dovea ridurre e sottomettere allo intendimento di qualunque lettore. Malagevole si è l’arte di trasmutare in forma di ricreazione gli ammaestramenti; e per averla, si vuol essere di molto intelletto, d’immaginazione e di sentimento fornito, e meglio le cose conoscere che non bisognerebbe a chi le trattasse a moda di scuola; perocchè egli è fuor di dubbio essere i lunghi trattati più agevoli a comporre. Non pertanto ha pochi lettori che sappiano queste difficoltà bene apprezzare; anzi è chi talora dell’utilità dell’Opera, conciossiachè l’autore n’abbia celato il fine, si mostra sconoscente. Or questo ingegno di formare in immagini le astratte idee, quest’arte di far popolari le più alte cognizioni, questa difficile facilità fanno riputare frivole e insulse quelle dottrine che se fossero tessute di vocaboli scientifici, assiepate di allegazioni e involte di oscurità, parrebbero avere più fondamento e più sodezza. Pur l’arte di dare insegnamenti sotto forme dilettevoli, che ad ogni scienza si possono rivocare, sta bene, più che altri non avvisa, alla moralità, cui nè calcoli nè severe dimostrazioni fanno luogo; posciachè farsi intendere a tutta la gente col parlare alla immaginazione, al cuore ed allo spirito, è il suo vero ufficio.
Fra i grandi vantaggi che un libro morale coglie dalla drammatica forma, l’uno si è il mostrare, con l’oggetto che alla fantasia dell’autor si fa, la impression ch’ei ne sente; e il metter noi sempre in compagnia di lui stesso. Senza fallo è questa forma delle più allettatrici; ma via via giunge a nuocere in questo, che fa un egoismo scuoprir nell’autore, come in colui che quasi il suo lettor costringerebbe a viver con seco in troppa dimestichezza, manifestandogli l’animo e lo intendimento suo continuamente. Da siffatto inconveniente si è voluto guardare lo Spettatore, con lo introdurre personaggi i quali nella maggior parte non sono supposti, siccome Goodman, Van-liber, Eugenio, Aristo, ec., ch’egli avea seco di grande amistà legati. In tal guisa, lasciando stare che lo egoismo letterario, del quale non è il perdono molto agevole ad impetrare, si cessa, ma cresce altresì la varietà.
Sono capitoli in quest’Opera che simiglianza hanno di frammenti; e consistono in quadri e narrazioni, ove si tacciono alcuni fatti e accidenti anteriori che dallo stesso ragionamento si possono intender e supplir di leggieri, e vengono a fine senza seguire la storia di personaggi che nella scena si appresentano. Si acquista con tal maniera il potere entro una tavola molto angusta figurar soggetti che non si potrebbero senza molta latitudine trattare. È il vero che generalmente fanno immaginare i frammenti non aver lo scrittore ingegno che basti ad una perfetta Opera: ma nondimeno un buon frammento ne lascia quella impressione stessa nell’animo che noi, veggendo alcun membro formato da un valente artista, sentiremmo, il quale ne metterebbe in desio di veder tutta la statua. Ancora si può affermare che come una semplice parte lavorata da un ottimo artefice è senza misura più da pregiar che un intero gruppo di figure scolpite da volgar maestro; così buon frammento val più che volumi di comunali cose ingrossati.
In molti capitoli del nuovo Spettatore si veggono ritratti e caratteri; nella qual cosa è bisognato all’Autore studiare e torre ad esemplare il celebrato la Bruyere, ma senza presumere d’imitarlo; perocchè la colui maniera di scrivere ha siffatta impronta d’originale ingegno, che contraffare, ma non imitare si può. Non giudicò l’Autore dover seguitarlo sempre nella forma dei caratteri. E nel vero suole la Bruyere accozzare in un ritratto tutte le vicende differentissime di un vizio o di una virtù, tenendo il modo de’comici poeti, che in un sol personaggio immaginato e di convenzione adunano con verisimiglianza tutti quanti i tratti del vero che in molti si trovano sparsi. Questa forma di componimento ha il vantaggio di pennelleggiare dipinture di più colpo e di maggior significanza. Ma sono sempre al vero ben simiglianti?
E si ravvisano così spesso nella società falsi devoti, svagati e curiosi, quali per la Bruyere sono dipinti? Troppo amplificati alcuna volta e fuor di natura sembrano que’ritratti, ne’quali regnan pure moltissimi tratti di calda e fertile immaginazione. Similmente lo Spettatore ha molti caratteri formati col porvi tutti i gradi che lor potessero convenire: ma generalmente, per essere più fedele alla natura, ha voluto moltiplicare i ritratti d’una stessa passione. In Italia un cosiffatto genere, che tanto alletta e tanto piace, non si è costumato come in Francia, ove quasi per via di moda discorse, eziandio prima che la Bruyere si segnalasse. Forse il solo Gasparo Gozzi puossi chiamare dipintor di caratteri tratteggiati co’più vivi e naturali colori; ma lascia desiderare maggiore profondità ed acume.
Ha la Bruyere un’altra forma di componimento che non è paruto d’imitare allo Spettatore, e quella si è di edificare la sua Opera con disgiunte pitture e con pensieri isolati. Egli non dirà con Boileau che la Bruyere, fuggendo le transizioni, si è alleviato di quello che in un’Opera è più malagevole a farsi. Conciossiachè assai manifesto si conosce esservi nell’arte di scrivere più alti segreti che quello di ritrovar modi da legar i concetti, e le parti commettere della orazione. D’altra parte, chi non discerne, la Bruyere, declinando dalle transizioni, essersi carico di una maggior soma, cioè d’infondere in ciascun pezzo uno allettamento ed un valore che nessun bisogno ha di preparazione o di legame con tutti gli altri? La qual difficoltà non può essere superata che da un ingegno altissimo e bene avventuroso. Non però che non sia vero non esser punto regolare questa maniera di componimento; e il seguitamento della orazione e il legamento de’concetti pogniamo ancora, che non siano dell’arte di scrivere il più duro nodo, formarne pure l’una delle sustanziali qualità, e pendere da questa, più che altronde, l’effetto di un’Opera. Dei pensieri separati e dei frammenti poche orme negli animi rimangono, perciocchè troppo numero d’interposti concetti tralasciano, cui pochi lettori sanno da se medesimi supplire. Per la qual cosa lo Spettatore a ciascun soggetto ha composto suo capitolo, mescolandovi i caratteri e le considerazioni, per modo che l’uno all’altro ed esempio e prova diviene. Nondimeno a variare la forma dell’Opera, e molti pensieri in poco spazio chiudere, egli ha scritto più d’un capitolo di sciolti e scompagnati concetti; ma questi risiedono in su lo stesso argomento, e col legame di quello sono fra se stessi congiunti.
Per lo proponimento dall’Autor fatto di manifestare le domestiche scene della vita e i gradi dei caratteri, ha egli avuto uopo di scendere a certe particolarità le quali paiono minute e da niente. Nella pittura spesse volte da certi piccoli tratti che appena sono notabili la somiglianza depende; e così dei caratteri addiviene, come dei ritratti. Perchè tanta verità si ritrova, tanta natura in certi romanzi? Egli è perchè incidenze le più volte minute, e forse da credere inutili, ne trasportano fra i loro personaggi, e del continuo ne rammentano quelli esser uomini siccome noi. Nessun tratto che rilevar potesse un carattere sdegnò mai di usare Molière, l’uno, dico, dei più sublimi pittori della natura umana. Sono tratti di carattere nella gente ai quali, comechè mille volte veduti, nessuno mai pose mente; e ben son essi a cui dee badare il moral dipintore. La vita eziandio dell’uomo più ragguardevole ed innalzato si tesse di piccole cose; e qual si mette a ritrarre la natura, o non dee altrimenti pigliarla che ella sia fatta, o dal vero e dalla verisimiglianza si disvia. Metter fuori le familiari scene della vita con allettamento e con interesse, è il peso più forte a cui si possa un autor sottoporre; perciocchè ogni lettore diventa giudice di sue pitture.
L’avere un’Opera, come a dir, disegnata, non basta; perchè bisogna saperla colorare, dal che pende il suo successo singolarmente. Quindi non sia negato allo Spettatore ch’egli renda ragione dei principii che in questo grave punto e malagevole dell’arte di scrivere ha seguitati. Al dire dei maestri di quest’arte, son le locuzioni e le immagini che sollevano sopra gli altri i valenti scrittori: ma gran fallo è voler lo stile diviso dalle idee giudicare; chè l’idee sole, secondo l’uno de’più grandi autori dell’ultimo secolo1, danno materia e campo allo stile. Onde gli scrittori che hanno dovizia di vocaboli e penuria di concetti, sono senza stile. Colui che, in iscambio di effigiare pensieri, disegna parole, tutto che possano avere eleganza e armonia, non è mai buono scrittore. Falsamente egli si avviserà di tener dietro ai classici autori, e di pareggiarli ancora, perocchè altro non fa che le locuzioni, i modi e le frasi di quelli ripetere: e come in lui vanno i pensieri appresso le locuzioni, invece di fargliele essi germinare, così lo stil suo sempre è diffuso, rimesso e languente; anzi, come egli scrive senza avere il suo avviso ben meditato, nè i pensieri sustanziali del suo argomento raccolti e ordinati, così vanno i suoi concetti sempre incerti e indeterminati vagando, senza mai tra sè aver catena, o non si appiccano che col tenor dei vocaboli. E però di necessità Opera povera e nuda di succo, di unione e di allettamento, non può generar che noia.
Vinto dal vero di siffatti principii lo Spettatore, si è affaticato di addimesticarsi con la lingua de’Classici italiani, e più di quei del Trecento, i quali, tra per la convenienza delle voci e per la loro semplicità e leggiadria, non che per la dolcezza, saranno lo esemplare più perfetto sempre. Ma scrivendo egli, ha badato a render chiari i suoi pensieri, e precisi e dilettevoli, senza camminare sulle orme di quelli servilmente. Non ha investigato mai come il Boccaccio o altro classico autore avrebbe espresso uno o altro tal pensiero, e molto meno ha speculato se alcuna locuzione di questi autori potesse alla sua idea convenire. Le locuzioni e tutte le forme del suo stile sono state condotte da’suoi concetti. Intanto se ha saputo prender sua pastura da’suoi esemplari, e quella digestir bene, e al suo sangue, come dice Quintiliano, condizionarla, fia di necessità che il suo stile ritenga il sapore e la natura e la forma di quelli. Avrà per avventura imitato, da che non si può lo ingegno più felice riguardare; ma non nutrendosi egli di un esemplar solo, e il suo carattere mantenendo, avrà certo uno stile e uno andamento suo proprio. Che se non ha saputo imitare com’uom d’ingegno, in cui l’imitazione, lungi dallo escludere la invenzione, è propriamente essa un’altra orazione; egli almeno non ingrosserà la turba degli scrittori i quali, in luogo d’inventare e accordare i pensieri, niente altro che modi accattare e accozzare insieme conoscono.
V’ha pure un altro sconcio assai più che la servile imitazione da vituperare, da che tutto è dirizzato a guastare e disfigurare la italica lingua, cioè la smania di quel barbarismo a cui di gallicismo si dà il nome. È cominciata questa pestilenza dal torrente di quelli esecrabili volgarizzamenti di libri francesi, ove coi nudi vocaboli e suoni italici tutto il colore e costrutto dell’idioma francese rimane. Hanno poi ampliata questa miseria que’tanti autori nostri i quali hanno scritto così come se in Italia non fosser cresciuti; e mostra che essi non conoscono che il nostro volgare per abbondanza, per flessibilità, per armonia, per nobiltà, per precisione, agguaglia, e forse trapassa tutti gli altri. Costoro, invece di procacciarsi le dovizie del bellissimo loro idioma, ed usarle a modo di tanti illustri scrittori, si occupano a deturparlo con cacciarvi entro non che i modi e le locuzioni del linguaggio francese, ma gl’idiotismi ancora di quello. Nè comprendono avere ciascuna lingua sue proprietà e sue naturali bellezze; onde avviene spesso che quello che è fiore in una lingua, non è bello in altra. Oltre questo, se la natura del nostro volgare accetta quelle inversioni che appresentano i pensieri e le immagini nell’ordine lor naturale, in quello, io dico, che allo allettamento e al sentimento ben serve; perchè si abbandona e si disprezza questo inestimabile vantaggio per seguire l’ordine grammaticale della lingua francese, il quale non è che di una forma sola, e poco all’eloquenza e meno alla poesia porge aiuto? E non dovrebbero accorgersi che gli stessi scrittori francesi, se si abbattono a dover parlar il linguaggio del cuore e delle passioni, si sforzano verso la costruzion latina quanto più possono? Lo Spettatore, quantunque tenga appresso ai Classici, non ha mica imitati quelli i quali si sono lasciati trascorrere a trasposizioni poco idonee alla qualità della italica lingua, cui gli articoli e i verbi chiamati ausiliarii distinguono sustanzialmente dalla latina: ma non per questo ha mancato di usar quella dote dalla quale attinge lo stile più chiarezza, più armonia, più forza e più precisione in una guisa mirabilmente efficace.
Nel fuggire un vizio è da schifare il cadere in un altro. Il carattere e la proprietà della lingua italica senza dubbio si deve conservare; ma strano inganno sarebbe il credere che tutta sola negli scrittori del Trecento dimori, e sia essa da reputar lingua da tre secoli morta, e si convenga proferire e spiegare col solo antico toscano tutto ciò che dopo la predetta età si è pensato e inventato. Contro ragion sarebbe il volere una lingua viva stabilire per siffatta maniera, che non abbia essa da patir mutazione. Chè di necessità è suddita all’impero dell’uso, a quell’arbitro degl’idiomi; all’influenza delle scienze e delle arti senza mai ristar camminanti, ed alle revoluzioni che nelle leggi, nei costumi e nelle opinioni intervengono. Ancora il commercio dei pensieri e dei lumi, per cui deve essa con le altre lingue vive usare, conviene che ad arricchirla dia opera. E di vero che frutto si trarrebbe dall’ostinarsi a voler parlare e scrivere solamente la bella, ma circoscritta lingua del Trecento? Dandosi nuove significanze alle parole per esprimere i nuovi pensieri, s’introdurrebbe un neologismo universale che da sè solo basterebbe a corromper la lingua. Se si vietasse agli scrittori il potere le forme di stile ringiovanire, e creare immagini e figure, ed accordare nuove leghe di vocaboli, si anderia tutto riducendo ad una incomportabile mediocrità. Perciocchè il continuo studio di porre la sua mente, quasi a dire, nella forma della mente altrui, fia mestieri che la vincoli ne’suoi movimenti, ne ammorzi il calore, e i pensieri ne raffreni. Quando Tullio si volse a trasportare nella sua patria i filosofici lumi della Grecia, dovendo trattar di materie ai Latini ignote, fu costretto a produrre una nuova lingua, o accattarla dai Greci. Laonde ai moderni ancora è lecito senza fallo, considerato il bisogno, l’uso, l’analogie e l’autorità, trar fuori nuove parole; per tal condizione, che questa libertà sia con freno e parsimonia usata, secondo l’esempio che ne ha dato Cicerone stesso. Debbono aver fitto in mente che il crear voci inutili è uno aggravare, e non uno arricchir la lingua; e che il pigliar locuzioni forestiere è un rinnovare in alcun modo la inondazione dei barbari che, per primo danno, guastò le lingue.
A siffatti principii è ito fedelmente appresso lo Spettatore; e poche parole nuove ha prese le quali erano già di quella filosofia che partitamente disamina le potenze dell’intelletto e le affezioni del cuore, insegnandone con chiarezza le distinzioni precisamente e le definizioni. Di questi vocaboli, che alla qualità dell’Opera sua si richiedeano, il principale è la sensibilità, cui nessuno altro fra gli antichi parlari risponde, nè potrebbe ancora, da che essa viene a dire una disposizione all’amor de’nostri simili, una delicatezza di sentimento e una perfezione di umanità che gli antichi non conoscevano. La regola di loro educazione, e i loro civili ordinamenti e politici a sopprimere, più che a seminare e nutrire, la sensibilità intendevano. Nè la conobber gli stessi moderni se non quando il viver civile è giunto ad alto grado, e maggiormente dopo che si è cominciato ad avere alle donne quel riguardo, quel rispetto e quella cura che hanno addolciti i caratteri e forbiti i costumi. Gl’Italici, che in tutte le cose prevennero le altre nazioni, furono primi a conoscere e significare la sensibilità. Le poesie del Petrarca specialmente ne fanno manifesta testimonianza, come quelle che di nobili e delicati sentimenti, e del tutto ignoti ai poeti dell’antichità, sono piene. Ed in esse le voci gentile e gentilezza aggiunte a cuore tanto valgono quanto sensibile e sensibilità2; salvo che quelle nè la precisione hanno nè il largo senso di queste, che d’altra parte sono per l’uso generale e per l’autorità confermate.
Nella composizione dell’Opera non si ascosero all’Autore le difficoltà di compiere il divisamento di che viene egli a specificare una notizia distinta. Chi non dee conoscere quanto sia malagevole a spiegare i principii della universale moralità, pennelleggiando insieme la tavola della vita umana; a dimostrar l’uomo di tutti i tempi, descrivendo i costumi dell’età nostra; ad ammaestrare altrui senza aridità nè fastidio di precetti, presentando sempre variate dipinture sotto forme drammatiche? Per venire a capo del suo proponimento lo Spettatore investigò ne’suoi viaggi e studiò il mondo, e lungamente contemplò lo spirito e il cuore umano, nutricandosi della lettura dei moralisti antichi e moderni, e maggiormente di quelli che i costumi ci ritrassero e i caratteri. Per uno ruminato studio di siffatti scrittori, parecchi de’quali ha egli fatti esempi a se stesso, potè conoscere le particolari lor qualità, notando insieme i procedimenti della scienza morale ne’diversi popoli. Fian poste nel cominciamento dell’Opera le considerazioni sopra sì grave materia, nè per ventura vi staranno esse indarno a coloro che nello studio più necessario all’uomo si vogliono di sicure guide provvedere.
Nel Saggio Critico sovra i Moralisti diviso lo Spettatore non solo di far conoscere quelli che diedero ammaestramenti di moralità, ma quelli ancora che ad uno fine morale dipinsero i costumi e i caratteri. Per conseguente gli fu di necessità che poeti e romanzieri, e quanti altri s’ingegnarono di abbellir con finzioni, o di porger sotto forme drammatiche la moralità, facesse egli entrare nel suo componimento. E perchè preoccupata opinione o altro errore nol traviasse, egli, nel voler giudicar di tanti estranii scrittori, tolse a sua scorta que’critici che più fama ebbero in ciascuna nazione. Conciossiachè troppo comunal cosa egli sia il dar sentenza sopra l’altrui letteratura non con altro, che col paragonarla con quella della nazion propria; non altrimenti che si dovessero tutti i popoli un medesimo gusto avere ed un medesimo ingegno. Ancora più volte incontra che, giudicando senza conoscere, alcun parla o con poco peso, o eziandio con disprezzo di cose che sono da savie e colte nazioni ammirate. Nominar si possono alcuni e di grido e di autorità nelle lettere, siccome la Harpe e Marmontel, i quali furono ripigliati di aver falsi giudizii proferti, che per prova si fondano sulla ignoranza. Ma lo aver conosciuta una lingua ed una letteratura poco vale, se non si pone per fermo, secondo i critici di più senno, e fra gli altri l’Autor francese della Storia letteraria d’Italia, essere infinite cose di stile, di gusto e di sentimento le quali può solo chi è della lor nazione sentir bene e discernere. È il vero che se stranier mai parve aver diritto di sentenziare ogni cosa circa la letteratura italica, egli è certamente colui che i più famosi scrittori con tanto discernimento, con tanta sottilità, con tanto senno esaminò tritamente; ma nondimeno quante fiate si toglie esso dal giudicare, rimettendosi in quelli della stessa nazione? A questo savio riguardo, che con tanta istanza egli a’suoi cittadini raccomanda, lo Spettatore s’è molto ingegnato di tener dietro, dilungandosi dall’esempio di coloro che s’avvisano, coll’offuscar gli illustri stranieri, esercitar di giuste rappresaglie.
Oltre a ciò, l’essere spassionato, dotto e cauto, a giudicar bene delle Opere morali non basta: chè come uno acuto critico in eloquenza deve essere egli stesso eloquente, così deve un sottil critico nella moralità posseder quel principio di sensibilità e di rettitudine che le verità morali gli faccia concepire e pronunciar con vigore; e ancora quel principio di nobiltà e di elevazione che muove in noi l’entusiasmo della virtù. “Se potesse la virtù, dice un filosofo, farsi visibile agli uomini, parrebbe sì bella e amabile, che nessuno se ne potria riparare.” In questa forma la deve apprendere non pur chi la dipinge, ma chi ne disamina le dipinture: salvo che i veri critici in ogni cosa non sono quasi men rari che i buoni autori. E lo Spettatore, annoverando le doti che a trattar bene sì malagevol arte si richiedono, altro non vuol dimostrare, se non che a vincere queste difficoltà si è a tutto potere adoperato.
Dallo studiare i moralisti, che all’Autore furono esemplari a seguire, egli ha un’altra utilità ricolta, la quale non si dee per lui, nè si vuole tenere occulta: questa si è l’acquisto di pensieri, di osservazioni ed eziandio di capitoli ond’egli ha fatto dovizia alla sua Opera. Di che specialmente è tenuto ai moralisti francesi e inglesi, e fra questi ultimi ai principali imitatori dello Spettatore, che sono l’Avventuriere, il Rambler, il Mirror e il Lounger. Similmente egli s’è accomodato delle Opere morali dei signori Knox, Pratt e Keate; e qualche passo che dava materia a’suoi capitoli, ha tratto ancora dai giornali inglesi. Non dirà il nuovo Spettatore, siccome la Bruyere, che “la scelta dei pensieri è una invenzione”; ma s’egli con discernimento ha fatto suo quello che recò o imitò dagli altri, non gli fia disdetto più sicuramente sperare d’aver compiuta un’Opera utile e dilettevole. Più capitoli di questo libro furono, è già molti anni, messi nei giornali francesi. E prima eziandio di quel tempo, ciò fu nell’anno 1781, quando era l’Autore nel fior di sua giovinezza, pubblicò in quell’idioma una ricolta di ritratti e di considerazioni, parecchi de’quali poi ricomposti ed ampliati, ora nello Spettator Italiano ritornano fuori. Questo saggio pur deboletto, come che ricevuto cortesemente, s’altro non facesse, almen prova che assai per tempo l’Autor diede opera allo studio di moralità. Lo ha poi continuato molti e molti anni, ed a quello ha fatto servire i suoi viaggi. E conciofossechè avess’egli fermato di principalmente rilevar l’uomo di tutti i tempi e di tutti i luoghi, bene gli ha messo il potere, fra i diversi popoli ch’egli ha visitati, prendere il soggetto delle sue pitture, e gli esemplari de’suoi caratteri. Di che conseguita che il luogo dell’azione quando è in Italia, quando in Francia, quando in Inghilterra e quando in Olanda. Or questi cangiamenti di scena, giovando alla varietà dell’Opera, si conformano ancora ai principii di filantropia che vuole istillare l’Autore. E dimostrando gli uomini essere in ogni parte dai medesimi sentimenti animati, insegna loro a trattarsi come membri di una stessa famiglia, ed a guardarsi da quegli odii di nazione che la politica e le false opinioni vi piantano e vi coltivano.
Ben le notizie che porge questo Proemio delle cose trattate per lo nuovo Spettatore, palesano essere ordinato ad ogni condizione di leggitori. Concetti e parole che la purezza dell’onestà e la dignità dei costumi in qualunque modo offendessero, furono quinci più che interdetti. Può bene il giovane e il vecchio, la donzella e la madre indifferentemente utile scuola ricevere, senza incontrare foglio che far mai le possa arrossire. Chè proponimento è dell’Autore solamente innamorare altrui della virtù, e questa mostrare agevole, affinchè la gente vie più la segua. Il perchè se venisse di buona fede alcun lettore a dirgli: Tu scrivesti un buon libro; egli ne saria lieto senza dubbio. Ma se colui gli soggiungesse: Tu m’hai fatto amante della umanità e delle virtù; troppo più se ne terrebbe egli contento e felice. Può essere che nello Spettatore Italiano, che è l’Opera dell’intera vita dell’Autore, si osservi da taluno qualche differenza nello stile di parecchi capitoli, i quali sono stati scritti alcuni in grande distanza di tempo dagli altri. Ma cosiffatta differenza non ha impedito che si sfuggano sempre con ogni premura i due eccessi per noi indicati in questo Proemio, cioè il mal vezzo de’gallicismi e la servile imitazione del Trecento. La varietà dello stile in Opere di questa natura, anzichè essere riguardata per difetto dagl’Inglesi, è tenuta per un novello fonte di diletto.
Non possiamo por fine a questo Proemio senza quivi testimoniare l’obbligo della riconoscenza nostra a quei letterati i quali ci sono stati liberali dei consigli e degli aiuti loro. Ne ricorderemo tre soli cui da molto tempo ci congiunge il nodo d’una soave amistà, cioè il cavalier Vincenzo Monti, il conte Giulio Perticari e il sig. Tenente Francesco Cecilia, romano. I due primi hanno già riempiuto di loro fama l’Italia; l’altro, al quale noi dichiariamo di professare anche maggiori obblighi, ha dato già qualche bel saggio del suo singolare ingegno, e teniamo per certo lui dover pervenire ai primi seggi dell’italiana letteratura, se gli verrà fatto di potere, dall’estranie occupazioni disbrigato, a quegli studi al tutto ricondursi ai quali fu da natura ottimamente disposto.

1V. Discorso del conte di Buffon all’Accademia francese.

2Amor che a cuor gentil ratto s’apprende. Dante.