L’Osservatore veneto: Numero LXXXII
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N° LXXXII
A dì 14 novembre 1761.
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Dialogue
innanzi, fronte invetriata,
vienne. Rizza gli orecchi, e rispondi. Qual se’tu, e
donde venuto? Ombra prima. Ippocrate, la vita ch’io
feci colà su nel mondo, fu veramente di sorta,
ch’essendo ora venuto quaggiù, non ho punto da
temere s’io debbo comparire dinanzi a questi giudici
e alla tua sperienza. Quella
professione ch’eci al mondo di dire la
verità in faccia ad ogni uomo di qualsivoglia
condizione, mi fece cadere in tant’odio di tutti,
che appena v’avea chi volesse più sofferirmi alla
sua presenza. Ma io innamorato della bellissima
verità, e tenendo più conto di lei che d’altra cosa
del mondo, mi feci beffe dell’altrui indignazione, e
portandola sempre sulle labbra, la scoccava fuori di
quelle a guisa d’acutissima saetta contra le male
operazioni di tutti. Io non credo i che m’abbisogni
ora di scusarmi appresso di te, che non fossi mai
guidato in ciò dal desiderio d’utilità veruna;
imperciocchè tu sai bene, che chi cerca nel mondo di
trarre vantaggi, unge piuttosto la lingua sua col
mèle delle adulazioni e delle lusinghe, procacciando
d’adescare gli animi altrui col sapore di questa
ineffabile dolcezza. Mal fa i fatti suoi chi
atterrisce le genti com’io faceva, e le tiene da sè
lontane. Ma ad ogni modo poco mi curai d’essere
vilipeso, povero e fuggito da ognuno; e tanta fu la
soavità ch’io provai nel dir sempre il vero, che non
mi curai d’ogni calamità che mi sturbasse.
Ippocrate. Benchè l’amore della verità sia una bella
cosa, e degno di grandissima lode il profferirla,
ombra mia, ci possono essere certi principii
nell’amatore e profferitore di quella, che
intorbidino il suo cuore; e però io non ne dirò
nulla, se non l’avrò veduto con molta diligenza.
Sicchè porgilo, ch’io ne faccia la prova con questi
miei ferri. Ombra prima. Non è già ch’io tema punto
di vederlo notomizzato, E se non te lo do così
tosto; ma mi fo solamente maraviglia, che in questo
luogo, in cui s’ha così di subito cognizione di
tutte le cose, non si comprenda che in un cuore, il
quale tenne solamente conto della verità, non sia
potuta penetrare magagna veruna. Ippocrate. Questo
comprendo io però, che mentre mi di’le sue lodi e
l’esalti di bontà e di schiettezza, lo vai tenendo
stretto più che mai, e a poco a poco tenti di
nasconderlo. Dà qua, io non voglio altri indugi.
Oimè! che cuore è questo! Ecco, o supremi giudici
degli spiriti venuti a questa seconda vita, com’esso
si rigonfia nelle mie mani e dinanzi a voi, sicchè
pare che scoppi, e ad ogni modo è leggiero come una
paglia. Si direbbe che fosse una vescica ripiena
d’aria. Qua, mano a’ferri. Poh! uh! quanto vento n’è
uscito al primo taglio! Benchè così al primo non
apparisca agli occhi la magagna, io non dubito punto
di non ritrovarnela in qualche cantuccio. Lasciatemi
rifrustare. Oh! nol diss’io? Ecco qua donde veniva
il vento. Ecci un muscolo che pare un mantice.
Vedetelo. Ecco di qua l’animella, da cui l’aria è
attratta; eccoci il cannellino, donde l’era
schizzata fuori. Di qua, di qua veniva quel suo
grande amore alla verità. Non la diceva già egli
sulla faccia alle genti, per bene ch’egli volesse
loro; ma perchè egli si vanagloriava a questo modo,
e gli parea di signoreggiare tutti gli altri, e
d’essere una cosa mirabile fra’popoli. E però si
godeva egli, ed era anche lieto del vedersi fuggito
e in abbominazione delle genti, tenendosi così fatto
abbonamento per gloria e onore. Nè mai delle buone
opere commendava altrui, che però sarebbe stata
verità anche questa; ma andava cercando il pel
nell’uovo per dirne male; perchè il bene altrui non
gli dava diletto, non attraeva la vanagloria in
questo suo occulto mantice, anzi glielo facea
aggrinzare e sgonfiare. Che ne di’? Non è egli vero?
Tu ammutolisci? abbassi il capo? non rispondi più?
Ora tocca a voi, o giustissimi giudici, il comandare
quello che si debba fare di questo pezzo di carne
fracida. Plutarco. Che mai diranno? A
me pare che Ippocrate abbia ragione. Minerva. Non
vedi tu ch’essi hanno già fatto cenno che il cuore
sia gittato agli uccellacci di rapina? Eccolo già in
aria lanciato. Essi lo ghermiscono e lo squarciano,
e l’ombra è sparita tutta svergognata, ed è andata
dov’è da’giudici stabilito. Sta’ad udire. Ippocrate.
A te, a te. Vienne oltre. Tu m’hai una faccia molto
sicura. Da’qua il cuore. Ombra seconda. Io non ho
sospetto veruno a dartelo; e lodato sia il cielo,
che in esso non ritroverai macula veruna. Credo
bene, che avendo io nel mondo fuggito a tutto mio
potere la sordidezza dell’interesse, e arrecatomi
solo ad onore l’essere cortese e liberale, di che ho
testimonianza il mondo tutto, non avrai di che
potermi incolpare. Io ho sempre considerato il mio,
come fosse roba altrui; e mi sono dilettato dello
spendere gagliardamente, beneficando tutti gli amici
e quanti furono da me conosciuti. Ippocrate. Bene
sta: ma intanto tu ritieni il cuore in tua mano: e
io non l’ho; e non posso fare l’ufficio mio. Ombra
seconda. Quasi quasi io credetti che non ci fosse
bisogno. Ippocrate. Lascia credere a noi quello che
abbisogna, o no. Tu, che fosti nel mondo cotanto
liberale, perchè ora ritieni con tanta custodia un
pezzo di carne che non è più tua, ma dovuta a questo
tribunale? Dàlla, dàlla. Nel vero, o venerandi
giudici, al rimirarla così di fuori, io non ci veggo
difetto veruno; e quasi quasi giurerei che la fosse
sana di dentro, quale estrinsecamente apparisce. Ma
l’arte mia non suole affidarsi alle apparenze. Io
non presto fede ad altro che al gammautte. Oltre di
che, ecco ch’io sento sotto alle dita un certo
enfiato di qua, una certa durezza che mi dà sospetto
di qualche cosa. Noi vedremo che al taglio questo
cuore non ci riuscirà così buono, com’è al vederlo.
Che è stato? Tu cominci già a tremare e ad abbassare
la fronte? O liberale, di che dubiti tu? Vediamo.
Plutarco. Oh! che visacci fa egli nel tagliare!
Vedi, vedi quanto si maraviglia! E che mai ne tragge
egli fuori con tanta diligenza? Minerva. Adagio,
attendi, e ascolta. Ippocrate. Come l’era incarnata
e avviluppata in mille aggiramenti questa carnicina
quasi invisibile, che ha la figura d’una chiave! A
pena a pena m’è bastata l’arte mia per poternela
spiccare intera. Pur, lodato sia, eccola. Che dirai
tu ora? Qual segno ti par questo? Ombra seconda. Che
ne so io? Io non sono notomista. Ippocrate. E pure
io so benissimo che tu sai che questa chiavicina
così celata e impacciata nel cuor tuo, con tutte le
liberalità e cortesie da te usate nel mondo, era uno
strumento dell’avarizia, la quale avea in te
grandissimo potere. Alza la barba, guardami in
viso . . . Non ispendevi tu forse gagliardamente,
quando tu avevi intenzione d’acquistare in doppio?
Non eri tu spesso cortese a coloro i quali ti parea
che potessero giovare alle tue intenzioni? Non è
anche forse avvenuto che tu non ti curasti mai
d’essere largo e cortese co’tuoi congiunti d’una
spilla, e gli lasciasti travagliare tra gli affanni
della povertà, mentre che tu facevi sguazzare del
tuo coloro, da’quali speravi qualche utilità e
avanzamento? Quando ti desti mai una briga al mondo
di qualche onesto uomo, tuo conoscente e forse anche
amico tuo, il quale avesse bisogno di
te? Ma vuoi tu vedere che fosti avaro? Ricorditi tu
quelle laute mense, alle quali invitavi così lieto
tutti coloro che ti poteano far giovamento? Ti viene
in mente con qual faccia gioconda trinciavi alla tua
tavola, dando loro largamente le migliori vivande
che producano terra, aria e mare? Con quanto diletto
profferivi loro i più squisiti bocconi? Ma poi
quando erano tutti partiti, egli ti verrà in mente
che, andato nella tua stanza con le ciglia
aggrottate, gonfio, pettoruto e pieno di dispetto,
facevi cadere sopra quel pover’uomo dello spenditore
tutta la tua rabbia dell’avere speso; in ogni
partita ti parea di vedere qualche ladroncelleria, e
con altissime voci sgridandolo, poco mancava che non
lo battessi con le tue mani; e avresti calpestato
co’piedi pollaiuoli, pescivendoli e qualunque altra
persona avea dato di che imbandire quella
nobilissima tua mensa; la quale era commendata di
fuori per lauta, solenne e senza risparmio veruno;
mentre che tu stavi azzuffandoti e rinnegando il
cielo per pochi quattrini. Ve’ve’, ch’io avrò pure
detto il vero, dappoichè tu cominci a rannicchiarti
e a voltare in là la faccia. Che debbo io fare, o
giudici? . . . Ho inteso. A voi, Nibbi. Plutarco.
Questo Ippocrate ha del mirabile e del divino: e non
solamente egli è buon notomista, ma egli mi pare
perfetto strologo. Minerva. Non sai tu com’egli fu
grande uomo nel fare conghietture, mentre che visse?
Questa è l’arte medesima. Da quel poco che si vede,
si dee argomentare. Quella chiavicina a così
grand’uomo è stata sufficiente per trarre dal buio
tutte le verità ch’egli disse. Ippocrate. Qual è
quest’ombra che non chiamata e da sè m’offerisce il
suo cuore senza dir nulla? Vediamo. Veramente di
fuori non c’è mancanza veruna. La misura sua è quale
dev’essere, morbido naturalmente da ogni lato, d’un
colore che mostra la vita e la sanità perfetta. Si
tagli. Bello e buono di dentro, come di fuori.
Queste picciole vene risplendono a guisa di raggi. O
virtuosa ombra, donde se’tu, qual sei, e come
facesti tu a conservare così puro e netto da ogni
macola questo bel pezzo di carne? Ombra terza.
M’appagai dello stato mio, e ogni cosa riconobbi da
Giove. Ippocrate. Va’agli Elisi fortunati, e questo
cuore arrecherai teco riposto in un vasellino d’oro.
All’altre ombre, all’altre. Minerva. Ippocrate, non
t’affaticare per oggi di più. E voi, o giudici,
siate certi che di quante ombre son ora giunte in
questo luogo, non ve n’ha una sola che possa
offerirvi un cuore che non abbia in sè qualche
difetto. Quanti io qui veggo uomini e femmine,
fecero professione d’esercitare quale una virtù, e
quale un’altra; ma l’apparenza di fuori ingannò gli
occhi del mondo; non quelli del padre mio. E però
voi potete ad ogni modo pascere questi uccellacci
che sono qui intorno. Ippocrate. Qual volontà
celeste, o divina Minerva, t’ha ora fatto in questi
sotterranei luoghi apparire, e perchè non veduta
dimoravi poc’anzi in questo luogo? Minerva. Io ci
conduco un mio discepolo invisibile, acciocch’egli,
assecondando il volere di Giove, divenga perfetto
conoscitore degli umani cuori. Tu nol dèi vedere,
perchè essendo nato tanti anni dopo di te, non è
lecito che un vivo parli ad un morto, e che questi
gli risponda. Verrà tempo che, onorato
e o di fama, discenderà anch’egli in
questi luoghi, e allora potrete avere insieme
conversazione. Statevi in pace; addio. Plutarco. Oh!
nobile e veramente scuola degna di te, che tu m’hai
data! Minerva. Ripassiamo la palude . . . Eccoci di
nuovo al mondo. Ora tu hai veduto. Studia nelle
azioni degli uomini, e ricordati bene ch’essi hanno
due cuori. Però usa ogni perspicacia prima di
giudicare, e va’col calzare del piombo; nè ti fidare
alle apparenze.