Trento I luglio 1765.
Discorso parenetico a pag. 65 vi è pure un dizionarietto di alcune parole e frasi usate dal Griselini, parte del quale dice così. « Scienza digerita. Viste creatrici. Lettere infantate. Menzogna lampante. Pezzo singolarissimo. Breve sfoderato. Inserviente. Intangibile. Ente rarissimo. Motivi che saltano allo spirito d’ogni mediocre ingegno. In mentre. Spoglio d’ogni spirito d’interesse. Istillare spirito. Infantare invenzioni. Infantar lettere. Nicchiare nel suo luogo. Gittare in imbarazzo. Dar dietro ad una fortezza. Dar dietro ad un’opera. Dar dietro ad un’istoria. »
Sentiamo ora come la paternità reverendissima ha accozzate insieme queste auree parole e frasi purissime del buon Griselini nel suddetto Discorso Parenetico a pag. 66. « Qual nuovo genio maligno v’ istillò a sfoderare un libro, e in mentre siete spoglio d’ogni scienza digerita, d’ogni vista creatrice, e d’ogni discorso, infantare un ente rarissimo di menzogna lampante, e nicchiar tra noi un pezzo singolarissimo e intangibile d’impudenza
Non solamente don Luciano disapprova le parole già riferite, e moltissime altre da me usate nella mia Frusta, ma disapprova altresì moltissime delle mie frasi, e non vorrebbe esempligrazia sentirmi dire che nel suo Bue Pedagogo « v’è un flagello di ribalderie e di bugie scempiate, » e non vorrebbe sentirmi dire che sua paternità « non può senza fatica pronunciare drittamente un nome straniero; » e non vorrebbe sentirmi dire che « i suoi pensieri non hanno soverchia elasticità; » e non vorrebbe sentirmi dire che « nella sua poesia non v’è poesia; » e non vorrebbe sentirmi dire che Agatopisto Cromaziano « non è uno di que’sovrani ingegni atti a scoprire incognite provincie nel vasto continente dell’umano sapere, e stia pure il dì e la notte mulescamente fitto nello studio di Demostene e di Timoleonte; » e in somma egli non vorrebbe più che io scrivessi in avvenire alcuna di quelle frasi da esso accuratamente registrate nella sua sesta novella menippea, schiamazzando che non sono buone frasi, che non sono frasi del Boccaccio, che non sono frasi coll’andamento cice-
Dal quel pochino che s’è detto negli antecedenti Discorsi la vastissima confraternita de’gonzi dovrebbe omai essere intieramente convinta che non decise con esuberante saviezza quando decise non esser possibile all’autore della Frusta il dare alcuna risposta al Bue Pedagogo.
Confraternita amabile e rispettabile, io potrei aggiungere molt’altri pochini a quel pochino; e vieppiù mostrando la stoltezza di quella tua decisione potrei confermarti vieppiù nel tuo disinganno. Potrei mo-Frusta Letteraria è un titolo da far istrabiliare ognuno che ne contempli la proprietà, l’energia, la vaghezza. Potrei mostrarti non v’essere un pelo fuor di luogo in tutto quello che ho sentenziato di messer Dante, di messer Petrarca, di messer Boccaccio, e di tutti gli altri messeri della lingua nostra: potrei mostrarti che ho parlato anch’io come un Demostene, e come un Timoleonte quando feci motto degli arcadi, de’cruscanti e di tutti i nostri autori passati, presenti e futuri. E in somma, potrei mostrarti, amplissima ed inestinguibile confraternita, che non sarà mai data ad alcuno de’tuoi membri la facoltà di provare che la mia Frusta non sia la più bella Frusta, e la più vezzosa Frusta, e la più peregrina Frusta, e la più ammiranda Frusta, che sia stata veduta mai, o che si possa mai più vedere.
A che però buttar via il tempo in mostrare una cosa che è veduta da ogni monoculo non che da ogni binoculo? E a che sconciarsi tanto per la confraternita de’gonzi?
Invece dunque di fare una scialacquatura inutile d’invincibili ragioni, che fa-
Ma qui un mezzo milione di genti griderà che non occorre punto rintracciare, poichè tutti sanno che sotto la diafana maschera di Luciano da Firenzuola si scorse un giorno distintamente quella bella, rubiconda e bernoccoluta facciaccia del reverendissimo padre don Appiano Buonafede abate celestino. Siccome però la paternità sua reverendissima va oggidì schiamazzando che quella diafana maschera non ricoperse mai quella facciaccia bella, rubiconda e bernoccoluta, con la qual metafora vuol dire che il Bue Pedagogo non è fattura sua; però m’è forza provargli che la paternità sua reverendissima ha mille torti quando vuole così smentire un mezzo milione di genti, e che a nessuno fuorchè al reverendissimo padre don Appiano Buonafede abate celestino si deve la somma gloria d’avere scritto quel gran pezzo di birbologia intitolato il Bue Pedagogo.
Fa dunque d’uopo sapere, signori miei, che la Pubblica Voce la quale attribuisce il Bue Pedagogo al Buonafede (lascio nella penna la ripetizione de’suoi titoli per brevità) ebbe appunto origine in quella Bologna dove risiede non so da quant’anni. XVIII della Frusta, in cui v’è la tante volte accennata critica alla prima Commedia filosofica d’Agatopisto Cromaziano, vale a dire d’Appiano Buonafede, il buon padre menò un vampo grandissimo contro quel povero numero, e contro tutti gli altri numeri, e più contro la persona del loro autore.
Ma, diss’io nel ricevere queste notizie, che sorta di creatura è mai questo frate? Perchè tutta questa sua collera? Una critica è ella una pugnalata? Che male gli fa, che male gli può fare? Se la trova giusta dovrebbe approfittarsene e correggersi de’suoi difetti anzi che andare in collera; ma se non la trova giusta in ogni punto, perchè non si mette a confutarla? Perchè non cerca provare a me e ad altri che la sua Commedia è squisita? Forse teme che la mia critica gli faccia perdere il carattere di frate, o quello di galantuomo se lo ha?
Queste ed altre tali cose io borbottai fra me stesso quand’ebbi letti i due riferiti paragrafi di lettere. Senza però darmi soverchio pensiero delle smanie claustrali, tirai innanzi a scrivere i miei fogli: quand’ecco che il veneto revisore d’essi mi prega a non criticar più alcuna opera del padre Buonafede. Egli s’è adoperato, mi disse quel revisore, presso certi nostri galantuomini onde siate indotto a lasciarlo in pace. Di qual pace intendete voi, rispos’io, se questo matto mi sta preparando una guerra peggio di quella d’Aspramonte? Io non credo questo, soggiunse il revisore, ma comunque sia, egli m’ha fatto parlare da più d’uno de’nostri gentiluo-
Dopo che il Buonafede s’ebbe co’suoi maneggi procurata così da me questa promessa, io aveva ragione d’aspettare che sarebbe stato contento di non far più fiato, e che si sarebbe acconcio a lasciar correre intatta e inosservata quella inezia di quella poca critica alla sua gran Commedia filosofica. Ma non passarono molti dì che da molte parti mi fu scritto come sua paternità mi stava preparando una satiraccia tanto tremendaccia da farmi scappare sino i denti di bocca per maladetta paura. Oh questa, pensai io, varrebbe propio cinque soldi! Il Buonafede s’adopera co’gentiluomini di Venezia per farmi tacere; il Buonafede mi fa promettere silenzio dal revisore de’ miei fogli; e il Buonafede sta frattanto allestendosi a satirizzarmi? S’egli però aveva questa intensione, perchè non l’effettuare senza ricorrere ai gentiluomini.
In questo mentre una lettera da Torino mi disse: nobiltà e della dottrina di questo critico e antagonista sugli ultimi dì dell’anno scorso, ricevendo da Bologna il Bue Pedagogo.
.... Il dotto Buonafede
Che vincitor ti tien sul collo il piede.
Se siete conoscente di cotesta gentildonna Cornelia G... lo potrete leggere da lei, che il Frugoni glie1’ ha mandato ».
Mentre queste e moltissime altre lettere di consimile tenore mi fioccavano addosso da tutte bande, Paolo Calombani librajo e stampatore in Venezia fu indotto da due frati, uno chiamato Scottoni, e l’altro Facchinei, a ristampare questo Bue Pedagogo. Ma cominciata appena la ristampa con le debite licenze de’superiori per la data forestiera, uno degli eccellentissimi riformatori, vale a dire il procuratore Lorenzo Morosini, fu avvertito che in alcune pagine di tal opera v’era un’obbliqua invettiva a lui ed agli altri due membri del magistrato in proposito d’una certa espressione intorno a certi chiodi, che da esso Morosini e dagli altri due colleghi era pro tribunali sentenziata innocente, ad onta d’un cert’uomo grave e venerando che pretendeva fosse offensiva. Che bella cosa se in Venezia si fosse stampata con le debite licenze de’superiori quell’obbliqua invettiva, e il bell’onore che ne sarebbe derivato a quel signore, il quale permise la ristampa di quell’infame libello il dì stesso o il dì dopo che fece sospendere la Frusta! Viscere mie! Questa sì che avrebbe fatto rider tutti da Venezia sino a Napoli! Ma la fortuna che opera qualche volta con più giudizio che non fanno gli uomini, volle che quell’eccellentissimo fosse fatto accorto in tempo di quella invettiva, onde ordinò al frate Scottoni di tagliarla via da questa nuova edizione. E qui si sappia per parentesi che nella città di Venezia si giudicò a proposito di sospendere un foglio letterario intitolato la Frusta, perchè in quel foglio s’era provato che il cardinal Bembo, quondam gentiluomo veneziano, disse male due secoli fa quando disse che « se il cuore fosse stato d’un bel cristallo, madonna v’avrebbe potuto legger dentro con quella facilità con cui un prete legge in un breviario nuovo ». Questa fu la potentissima ragione che cagionò la sospensione di quel foglio e che fece anzi permetter subito la ristampa in Venezia del Bue Pedagogo. Oh ragione potentissima!
chiodi fosse troncata via da quel Bue Pedagogo! Come mai fare il taglio crudelissimo, dicevano essi quasi lagrimando, e come farlo in modo che il leggitore non se ne avvegga! Finalmente dopo molto vano esaminare e vano consultare, i due ignorantissimi reverendi furono costretti ricorrere al già nominato revisore, che pigliando pietà della loro bessaggine e del loro affanno, fece egli stesso l’orribil taglio dell’obbliqua invettiva, e quindi bellamente racconciò, e congiunse le due tronche estremità con alcune poche parole così bellamente, che il senso cammina molto bene, e chi non è informato di tutta questa faccenda non è possibile possa scorgere dove il taglio fu fatto se non confronta la seconda edizione colla prima.
Io domando adesso a’ miei leggitori, se dietro tutti questi antecedenti dovevo credere il Buonafede autore del Bue Pedagogo? Se potevo ricusare l’attestato della pubblica fama? Se dovevo non arrendermi alla testimonianza del Frugoni, notorio amico di sua paternità? Se potevo negar credenza a’ padri Celestini di Milano, che affermarono il Bue Pedagogo essere fattura d’Agatopisto Cromaziano?
Aggiungiamo a tutti questi argomenti la tanta somiglianza del Bue Pedagogo coll’altre opere del padre Buonafede. Tutte le sue opere sono bisbeticamente scritte con assai meno virgole che non s’usa, e tutte con la stessa ortografia, e tutte con la stessa sintassi soverchio latinizzata, con una ricorrenza continua degli stessi vocaboli, delle stesse frasi, e degli stessi pensieri, collo stesso metodo di comporre, e di passare da cosa a cosa; e finalmente collo stesso scialacquo d’erudizione, collo stesso ordine di critica e di satira d’ appertutto dove costui vuol fare l’erudito, il critico e il satirico. Io maneggio la penna da tant’anni, che ben dovrei intendete questo mestiero, ed essere in istato di conoscere l’autore d’ un libro dal suo modo generale di scrivere quando n’abbia già scritto un altro; e questo argomento solo nel presente caso mi fa tanta forza, che mi terrei sicuro in coscienza dell’attribuzione che ne faccio al Buonafede, se mi mancasse anche ogn’altro argomento.
Mosso dunque da queste tante riunite evidenze e testimonianze, io concorsi cogli altri a credere fermamente che il Bue
Sospettando nulladimeno che l’autore del biglietto anonimo potess’ essere un qualche bell’umore vago di baje e di pigliarsi trastullo a spese d’altri, mi venne in capo di cercare io stesso al padre Buonafede come stava questa faccenda: ed ecco la lettera che gli scrissi a Bologna a questo effetto.
Il Bue Pedagogo sia stato scritto dalla paternità vostra. Un anonimo però m’avvertì jeri con un suo biglietto che ella niega d’esserne autore. Avrei caro sapere come il fatto stia, onde mi volgo a dirittura a lei pregandola dirmi se quel
A questa mia semplice domanda mi pare che il Buonafede avrebbe potuto dare una risposta semplicissima, ed assicurarmi con quattro righe di non essere autore del Bue Pedagogo se non lo è, o se non vuol esserlo. Invece però delle suggeritegli quattro righe di suo pugno, sentiamo
Bue Pedagogo, hanno affermata una cosa che non sanno, e non possono provare »
A che proposito, padre mio, questa furbesca ambiguità? Perchè non negare a dirittura d’essere autore del Bue Pedagogo? Perchè entrare nella discussione se chi m’ha ragguagliato può provare o non può provare?
Ecco un seconda furbesca ambiguità! Io non ho domandato al Buonafede, se riconosce quel libretto per suo, ma gli ho domandato se ne è l’autore. Ed altro è essere l’autore d’una cosa altro è riconoscerla per nostra. Questo Bue Pedagogo è un libello infamatorio, e pochi sono gli autori di libelli infamatorj che messi al punto vogliano riconoscerli per cose propie, quantunque ne sieno veramente gli autori. Il Buonafede poi sapendo essere pubblica voce e fama che il Bue Pedagogo sia suo, non doveva servirsi del ter-chiacchiera’, ma sibbene di qualche termine un po’ più forte, ed atto a mostrare che sente dispiacere d’essere universalmente supposto e chiamato autore d’un libello manifestamente infamatorio.
Cioè le dico che alcuni hanno ardito di raccontare anche a me questa chiacchiera. Che importa però a me che alcuni abbiano ardito o non ardito? A me importa solo sapere se egli sia o non sia l’autore del Bue Pedagogo; e a questa domanda sua paternità non ha ancora risposto ingenuamente ne’ tre primi periodi della sua lettera. È vero che pende un poco alla negativa, ma non me la decide risolutamante, come dovrebbe fare chiunque si sente accusato d’essere autore d’un libello infamatorio.
Come m’ha questo a bastare? Come può suppormi soddisfatto da queste ambiguità, e da quella studiata noncuranza con cui egli mi parla di questa faccenda che per lui è di qualche importanza? E perchè vuole che io tacci di chiacchiera temeraria la pubblica voce e fama? E perchè vuole che io tacci di chiacchieroni temerarj il suo amico Frugoni, e i suoi celestini di Milano, e tanti miei corrispon-
Bello quel sospettoso forse! L’innocenza però non suol essere sospettosa, nè mai cerca di destar sospetti in altrui senza un’evidente cagione; e qui il padre non aveva cagione alcuna di sospettare che alcuno volesse godere la commedia a spese sue, poichè stava in sua mano il non cominciarla negandomi solennemente con quattro sole righe d’essere autore del Bue Pedagogo a lui attribuito dalla voce universale.
Cioè il suo grado gli comanda di non fare il Zanni in teatro, come se la qualità mia lo permettesse a me. Ma perchè dirmi obbliquamente questa impertinenza? Il suo grado però gli doveva comandare
Ecco qui il suo Grado un’altra volta, e convertito francesemente in Rango! E che ho io che fare col suo rango, o col suo grado? Ma a che proposito mi fa egli la minaccia di chiamarmi dinanzi a tutti i tribunali del mondo? Non bastava l’avermene già minacciato nel suo biglietto anonimo, senza ripetermelo qui così inopportunamente? Qui non doveva pensare a minacce, che delle minacce tutti gli uomini animosi se ne ridono, nè egli ha prova alcuna ch’ io sia un uomo vigliacco. Qui non doveva pensare ad altro che a persuadermi di non essere l’autore del Bue Pedagogo; e questo poteva farlo molto meglio con una seria e solenne protesta in quattro righe, che non colle sue
Lo credo anch’ io, perchè chi in un caso di tanta importanza consiglia tanto male sè stesso, che s’induce a scrivere con furbesca ambiguità, non è veramente uomo da dar consigli a niuno.
Nota l’impertinente clausola, sine qua non.
II povero frate delira. E chi gli ha detto ch’ io voglia aver litigio con esso o con altri? Lo so anch’ io che dai litigi si raccolgono talora de’ biasimi e de’ malanni; ma che ha questo che fare col caso mio? Un furfante dice di me mille calunnie in istampa; io mi metto a confutare quelle sue calunnie, ed il mio confutare si chiamerà litigio? Non mi sono poi neppur
« Dicono ch’ ella abbia molte notizie non comuni dell’arti, delle scienze, e de’geni inglesi ».
Questo dicono pute un poco d’ironia, e conseguentemente d’ impertinenza; e dall’ impertinenza ogn’ uomo dovrebbe aste-dicono, la Frusta dice tanto di me, da far lasciare l’impertinenza da un canto ad ogni onesto letterato, essendo tutta piena di letteratura sana, di curiose notizie, e soprattutto di morale veramente cristiana. Ma cotesta gentaglia mal nata e peggio educata non può mai far forza a sè stessa quando ha le passioni in moto, ed è pur d’ uopo che a qualche segno si mostri sempre gentaglia mal nata e peggio educata.
Il Buonafede qui la fa da magro buffone suggerendomi di scrivere un libro col ridicolo e inintelligibil titolo de’ Genj inglesi. Ma cosa intende sua paternità per libro ben ragionato che potesse farmi onore? Forse che la mia Frusta non è libro ben ragionato, e forse che mi fa disonore? Ad quid questa sua nuova impertinenza? E pensa egli di rimuovermi dal mio crederlo autore del Bue Pedagogo quando mi dice che la mia Frusta ha cagionate delle sinistre impressioni?
Qui il poverello delira un’ altra volta! E come mai, quand’ anche l’avesse voluto, avrebbe potuto ricevere i miei sentimenti con animo appassionato, se io non gli ho comunicato alcun mio sentimento? Se gli ho anzi detto che riguardo
Quel suo equivoco potrebbe darsi toglie tutta la sincerità al suo complimento, e così la lettera finisce con quell’ambiguità furbesca con cui fu cominciata e proseguita.
Ecco la sua sottoscrizione.
Più su ha messo in dubbio s’ io abbia erudizione ed ingegno: qui si dichiara ammiratore del mio ingegno, così si viene a dar l’ ultima pennellata a questo capo d’ opera di lettera con una finissima ironia; ed io pongo fine al commento con rallegrarmi seco lui del suo doppio rango d’ abate e di visitatore; cosa tanto sovrumana nella gerarchia ecclesiastica, che tutti i tribunali del mondo hanno a sentenziare non esser egli autore del Bue Pedagogo quando la paura della mia risposta lo faccia ricorrere al valoroso ripiego di non riconoscere quel libretto per suo con qualche pubblica protesta.