Numero XXX Giuseppe Baretti Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Alexandra Kolb Mitarbeiter Lisa Pirkebner Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 14.01.2019

o:mws.7419

Baretti, Giuseppe: La Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue. Herausgegeben von Appiano Buonafede. Milano: Lorenzo Sonzogno, 1829, 1349-1379 La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue 6 30 1765 Italien
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N°. XXX.

Trento, I giugno 1765.

tentrione dell’ignoranza sino al Settentrione della brutalità niun altro quadrupede può essere autore di quel fondaco di capi d’opera salvochè il Bue Pedagogo ». Mi rallegro moltissimo con le signorie illustrissime delle genti accorte di questo loro giudizio favorevole; ma quanto starete voi, padre don Luciano, a mostrare che quelle mie lettere devono anch’esse annoverarsi fra le più tenebrose produzioni del secolo tenebroso? Io mi struggo dalla voglia di vedervi porre i piedi sull’orme di quel Bue col Sajo, e di vedervi attraversare con esso l’occidentale Inghilterra, e un bel pezzo d’Oceano Atlantico, e il Portogallo, e la Spagna, e la Francia, o per dirla nel vostro lepido modo, vorrei vedervi attraversare il ventricolo, e la pancia, e il pettignone e il diretro dell’Europa. Quanto godrò, padre mio, nel sentirvi assicurare ad ogni passo, che questo non è vero, che questo è falso, e che questa cosa sta così, e che quell’altra sta colà! Quanto rideremo quando vi sentiremo ripetere con un’aria di filosofo ateniese, e parlando mezzo greco e mezzo da comacchio, che questa è una cacofonia, e questa una battologia, e quella una tropocachia, e quell’altra più in là verso voi una birbologia! E poi m’apparecchio a vedervi col cappuccio a traverso gridare a quanto n’avrete in gola, che qui sono un bue inglese, e qua un bue oceano o atlantico, e costà un bue portoghese, e colà un bue spagnuolo, e più su un bue francese, soggiungendo fors’anche per maggior cumulo di lepidezza che io sono un bue ventricolo, o un bue petto, o un bue pancia, o un bue pettignone, o un bue diretro. Coteste vostre spiritosaggini immensamente fratesche corroboreranno il giudizio favorevole dato delle mie lettere da quelle vostre genti accorte, e non la-sceranno più dubitare alcuno della mia ignoranza settentrionale, o della mia settentrionale brutalità. Basta che non abbandoniate il vostro stile di birbologo, e ne sentiremo delle belle quando (come promettete a pag. 1185) esporrete quelle mie lettere alle irrisioni degli avveduti mercatanti. Già ne avete dato un buon saggio della vostra perfetta birbologia, dicendo a pag. 1175 che « ne’ miei viaggi io ho visitata la Mecca, e raccolto il mio prodigioso Milione da coloro che Maccometto mise nel settimo cielo, i quali aveano settecentomila teste, e in ogni testa settecentomila bocche, e in ogni bocca settecentomila lingue parlanti in settecentomila idiomi ». Quanto siete erudito e spiritoso, il mio caro birbologo! E chi potrà mai finire di ammirarvi sentendovi aggiungere a queste vostre erudite e spiritose birbologie, che « previo il rito della circoncisione io ho potuto aver di colà gli idiomi, e le lingue, e le bocche, ma le teste nè di colà nè d’altronde! » Ah questa, padre mio, è veramente tanto erudita e tanto spiritosa, che non si può andare più insù! Queste sono lepidezze, queste sono grazie, queste sono facezie tutte vostre, tutte di don Luciano, tutte del mio birbologo; e nelle mie lettere io non ho certamente mai potuto salire a una tanto smisurata altezza di lepidezza, di grazia, di facezia e di birbologia; onde sarà pur forza ch’io rinunci alla dolce speranza di vederle mai annoverate dalle vostre genti accorte fra le produzioni e fra le glorie del secolo tenebroso!

Avete però molta ragione, reverendissimo, laddove mi riprendete per aver fatto dire ad uno stampatore, che quelle lettere sono « un caos di roba, un fondaco di cose, una pirlonea ». Confesso che ho fatto male a non far che il mio stampatore imitasse quello del vostro Bue Pedagogo, o quello del vostro Suicidio. Dal primo di questi voi vi fate modestissimamente chiamare uno « scrittore illustre, a cui non mancan sali e dottrina, e pareggiabile da pochi per la indicibile copia di lepidezze, di vivacità, di eleganze e d’ingegnosissime discussioni ». Poffar il mondo! Questo è ben altro che un fondaco, un caos e una pirlonea! Questa è una birbologia delle più sublimi e delle più ammirabili! Dallo stampatore poi del vostro Suicidio voi fate birbologamente dire, a pag. 235, che il vostro discorso parenetico contro il Griselini è una « scrittura dotta ed eloquente, e piena di forza e di leggiadria, e di molt’altre buone cose ». E questa non è mo’ anch’essa una birbologia degna degnissima della paternità vostra sempre birbologa? Non mi sono poi ignote le tant’altre birbologhe lodi che voi avete centinaja di volte nella bottega di monsù Guiberto diluviate addosso alla vostra Commedia filosofica, a’vostri Ritratti, alle vostre Malignità storiche, a quel Discorso contro il Griselini, e ultimamente al vostro stupendissimo Bue Pedagogo; nè ignoro tampoco quell’altre lodi birbologhissime che di tal Bue Pedagogo avete scritte in più parti d’Italia, e fingendo di non riconoscerlo per fattura vostra per non muover poi vomito davvero a quelli a’quali le scrivevate. Questa è la sfacciataggine fratesca che io avrei dovuta avere per agguagliarmi al gran birbologo Agatopisto; questa è la fratesca birbologia che io avrei dovuto usare per pareggiarmi a don Luciano; e questo è in somma quello che avrei dovuto fare anch’io per dar riputazione alle mie Lettere viaggiatorie, e alla mia Frusta, ed alle mie cose, per farle indisputabilmente annoverare come tutte le vostre fra le maggiori glorie del secolo tenebroso!

Orsù, frate birbologo, frate illustre, frate pieno di sali e di dottrina, frate pareggiabile da pochi, frate copioso di lepidezze e d’eleganze, frate abbondantissimo di vivacità e d’ingegnosissime discussioni, frate dotto, frate eloquente, frate forte e frate leggiadro, affrettatevi a mo-strare alle genti accorte ed agli avveduti mercatanti, che quelle mie lettere non sono nè caossi, nè fondachi, nè pirlonee come le opere vostre, e soprattutto non vi scordate di provare che la mia traduzione delle tragedie di Pier Cornelio non è punto fedele all’originale. Mi sono già avveduto dalla vostra macchina montata a falso, e dal vostro automato montato a falso, e dal giudizio da voi dato di Voltaire in qualità di critico degl’Italiani, che voi siete infranciosato quanto basta per giudicare drittamente della fedeltà o della infedeltà di qualsisia traduzione dal francese. M’è però forza avvertirvi a proposito di Voltaire, che voi siete un birbologo molto semplice quando v’immaginate che io non conosca quell’autore di cui a pag. 1228 del Bue Pedagogo rifiutate di dirmi il nome. Quantunque il libraio Guiberto non m’assista co’libri che i torchi oltramontani vanno moltiplicando, pure le opere postume di Guglielmo Vadè non sono cose dell’altro mondo che voi solo abbiate ad averne notizia. Ho letto anch’io il ragguaglio dato in quelle supposte opere postume, dell’Hamlet di Shakespeare, ed ho ammirato per la centesima volta Voltaire in qualità di critico degli Inglesi come l’ho già tante volte ammirato in qualità di critico degli Italiani, degli Spagnuoli e de’Portoghesi. Ma vor-reste voi, padre mio, ch’io buttassi il tempo a discorrere o a disputare con voi di cose inglesi, o spagnuole, o portoghesi, e a confutare le scempiaggini che voi dite di Shakespeare sulla fede di Voltaire? Di minestre e di brodi credo ve n’intendereste se ve ne parlassi, ma a che diavolo venite ad intrigarvi colla lingua inglese, e colle tragedie d’Hamlet, e coll’altre opere di Shakespeare! Imbacuccatevi nel cappuccio, frataccio impudente, e non venite a parlare di cose di cui v’intendete quanto i somieri di musica; nè vi fate difensore e antagonista di Wilkie, di Balchloch, di Hume, di Tompson, di Milton, di Spenser, di Pope, di Swift e d’altra tal gente, della quale non solo non sapete la lingua, ma non sapete pronunciar i nomi, anzi neppur copiarli esattamente senza far fatica. Questo è quello che vi posso dire in proposito degli autori d’Inghilterra, de’quali voleste pur cinguettare coll’ajuto della mia Frusta e dell’Opere postume di Guglielmo Vadè. Se parlerete più di quella gente vi scapperanno dalla bocca dell’altre assurdità compagne di quella che v’è scappata parlando di Shakespeare e di Goldoni. « Se i drammi di Shakespeare (dite voi a pag. 1227 del vostro Bue) fanno affollare gl’Inglesi al teatro un giorno dopo l’altro, come dunque ardisci, o Aristar-co, di biasimare il Goldoni, che anch’esso fa affollare gran gente intorno ai teatri? » Ma non vedete, frate assurdo, che questa vostra osservazione è un’osservazione da truffaldino, e che quantunque il Goldoni faccia a’dì nostri affollare gran gente a’teatri non l’ha ancora come Shakespeare fatta affollare un secolo dopo l’altro, essendo tuttavia vivente? Io però mi scordava che voi siete uno de’principali scrittori del secolo tenebroso, e che quindi v’è lecito dire quante assurdità e quanti spropositi volete. Che bella cosa vedervi aggiogato a un carro di letame con quel prete Rebellini della Minerva, che difendendo anch’egli il Goldoni cominciò colla protesta « di non aver mai letta nè sentita leggere o recitare alcuna commedia del Goldoni! » E qui per finire questo mio discorso col Goldoni, vi torno a dire con la mia usata imperturbabilità, che darò sempre il caratteristico titolo di pubblico avvelenatore ad ogni poetastro drammatico che insegnerà come il Goldoni cattiva morale dalle scene, qualunque possa essere l’opinione vostra, quella del prete Rebellini, e quella del nostro caro carissimo secolo tenebroso. Don Luciano, vi sono schiavo.

Discorso sesto che comincia con un dialogo, e che contiene alcune bugie sciempiate, ed alcuni ritratti francesi. – L’autore della Frusta.

Io ve l’ho già detto, reverendissimo padre, che nel vostro Bue Pedagogo v’è una cosa la quale m’ha cagionata maraviglia.

D. Luc. Sì, me l’hai detto, e me ne ricordo, bue mio. Quello che t’ha cagionata maraviglia è stato il mio discorrere in quel libello con la più perfetta ignoranza di cose trivialissime, e note sino agli sbarbati discipuli a malapena iniziati negli studj.

L’Aut. No, padre non bue, non fu questo.

D. Luc. Sarà dunque stata, bue carnivoro, quella mia smania ridicola di voler fare il faceto e lo spiritoso malgrado la natura che m’ha onninamente negata quella snellezza d’ingegno, quella dilicatezza di fantasia, e quella esattezza di giudizio che si richiede per fare lo spiritoso e il faceto.

L’Aut. No, padre non bue, non fu nemmeno questo.

D. Luc. Dunque sarà stata, bue automato, quella mia smoderata immodestia nel farmi da me stesso replicatamente il panegirico, e nel chiamarmi da me stesso un uomo illustre, nudrito nella pulitezza e nella eleganza, buono storico, buon antiquario, buon filosofo, e buon teologo quantunque io sia...

L’Aut. No, padre non bue, non fu nemmeno questo in vostra malora! Oh che poca memoria, storico mio, antiquario mio, filosofo mio, e teologo mio!

D.Luc. Dunque, bue legislatore, sarà stata quella mia abbondanza di concetti intorno al Bue, che mi sono tutti fortunatamente riusciti tanto ottusi, e che ho appiccati collo sputo al cognome di Scannabue. A dirtela in confidenza io costì feci propio una fatica da asino.

L’Aut. Questo non occorre che me lo diciate, padre non bue. Lo so anch’io che costì faceste una fatica da asino, e che il ridicolo cognome da me dato all’immaginario Aristarco per far isbigottire gli sciocchi con quella strana parolaccia, non meritava che v’affaticaste così asinescamente a stravolgerlo in tanti modi. Ma lasciamo andar questo e lasciatemi dire che non avete ancora toccato il punto della mia maraviglia.

D. Luc. Sarebbe stata mai, bue medico, quella mia sbirresca maniera di darti più nomi oltraggiosi che non ne furono dati a Giuda, a Nerone, e a Gano da Pontieri?

L’Aut. No, padre non bue, io mi rido della vostra stupida malignità.

D. Luc. Sarebbe mai stata quella mia ira, quel mio maltalento, e quella mia sottile perfidia in procurare, bue cipolla, di farti un nimico d’ogni mio leggitore, interpretando sempre in modo iniquo e fraudolente ogni tuo sentimento intorno alla letteratura, alla morale, ed alla religione?

L’Aut. No, no, e poi no, paternità mia non buesca, non fu nè tampoco alcuna di queste cose! Queste sono cose da destare maraviglia in chi non conosce troppo bene 1’irascibile ciurmaglia di voi altri scrittori italiani moderni; ma queste cose non potevano destare maraviglia in me che ho piena pratica di voi altri, irascibile ciurmaglia ciurmagliaccia. Prima di leggere il vostro Bue Pedagogo io avevo casualmente saputo che voi siete un frataccio più orgoglioso e più burbero di Belzebubbe e più artificioso e più maligno d’Astarotte; e m’era in oltre stato scritto da Bologna che la mia giusta critica alla vostra Commedia filosofica v’aveva mossa tanto la bile (scusate se questa mossa di bile non è anatomicamente vera), che in sul vostro primo leggerla schizzaste fuoco dagli occhi, e bava dalla bocca come rospo calpestato. Avevo poi anche veduto il vostro Discorso Parenetico contro il Griselini, e notato con quanto attossicata dispettosaggine 1’avevate maltrat-tato per aver lodato forse un po’troppo fra Paolo Sarpi in quel suo libro; nè m’era scappato dall’occhio il nauseoso elogio da voi fatto al vostro stesso Discorso Parenetico in una lunga e non necessaria postilla al vostro Suicidio Ragionato.

Pensate, padre mio, se dietro a tutte queste antecedenze io poteva aspettarmi nel vostro Bue Pedagogo altro che dell’ignoranza assai prima di tutto, e poi della lepidezza falsa, e della spiritosaggine bastarda, e della immodestia tanta, e disingenuità e malcreanza tanta tanta, e quindi una dose più che mediocre d’ira, di maltalento, e di perfidia? E come mai tutte queste cose venute appunto com’io me le stava aspettando m’avrebbero potuto cagionare la menoma maraviglia?

Qual è dunque la cosa (soggiungerete voi) che te n’ha cagionato nel leggere il mio Bue Pedagogo? Dimmelo, dimmelo.

Uh, padre poca memoria! Forse ch’io non vel dissi già nel Discorso secondo? Tornate a leggerlo attentamente, e vedrete che ve l’ho già detto! Ma no, state qui, che ve lo voglio replicare per risparmiarvi l’incomodo di leggere di nuovo quello che già leggeste.

Sappiate dunque, padre mio, che quando ebbi scorso da un capo all’altro quel Bue Pedagogo io non mi maravigliai d’altro che della vostra somma Scempiataggine in somministrarmi come faceste un troppo facil modo di farvi ripetutamente ed innegabilmente comparire un Bugiardo, citando tanto spesso i miei paragrafi come faceste, e non citandoli mai come stanno, ma falsificandomeli tutti nel ricopiarli. Come mai è possibile, dicevo io a misura che leggevo il libello, come è possibile che questo frate sia stato così scempiato da dire in istampa alla gente delle cose false, e la di cui falsità si può tosto riscontrare? Come mai è possibile che costui m’abbia per tanto impotente di non saper iscoprire alla brigata le sue ripetute ed innegabili bugie? S’è egli più trovato uno avversario tanto scempiato, che attaccando un’opera stampata ne citi un passo e due, e tre, e dieci, e venti, e trenta che non sono in tale opera, o che non istanno così com’egli li ricopia? Non bisogn’egli essere scempiato affatto per lusingarsi che i leggitori non sarebbero iti a confrontare il Bue Pedagogo colla Frusta subito che si fossero da me sentiti assicurare che il suo citare era in molti luoghi falso in parte, e in molti luoghi falso in tutto? E come non pensò questo scempiato bugiardo che in conseguenza d’un tal confronto egli doveva per necessità aspettarsi dal pubblico l’infame taccia di bugiardo, e di bugiardo intierameute scempiato?

Eccovi detta la cosa, padre mio, che nel vostro Bue Pedagogo m’ha fatto maravigliare. Vi credevo capace d’ogni ribalderia prima di leggerlo; e m’aspettava in esso una buona grembiulata d’ingiurie e di villanie; ma non avrei mai potuto persuadermi innanzi tratto che alla ribalderia, alle ingiurie, ed alle villanie voi aveste ad accoppiare la scempiataggine delle bugie innegabili. Questo m’è riuscito nuovo, e questo m’ha cagionata maraviglia.

Ma è egli possibile, soggiungevo io a misura che leggevo, possibile che in una mia opera composta di cinquanta buoni fogli di stampa non vi sia la minima minuzia a cui un colleroso avversario si possa appigliare? Possibile che questa mia Frusta sia tanto buona che di cotesti preti e frati miei avversarj, neppur uno abbia potuto confutarne una riga, e che tutti abbiano dovuto ricorrere alle ingiurie, alle villanie, alla cavillazione, alla mutilazione, alla falsificazione, ed alla bu-gia? Vi sono pure in quella Frusta delle cose assai, le quali si possono piuttosto chiamare opinioni mie particolari che non ragioni evidenti. Perchè non cercarono costoro di combattere quelle mie particolari opinioni coll’arme almeno delle opinioni altrui? Vi sono pure in quella Frusta delle cose in fatto di letteratura che non sono forse mai più state dette in Italia. Perchè non s’industriarono costoro a rispondere qualche cosa di plausibile alle mie novita? Si cerca pure nella Frusta di mostrar false certe massime che da un pezzo passano per vere e per irrefragabili presso la comune de’nostri poeti, de’nostri prosatori, de’nostri antiquarj, de’nostri filologi, de’nostri critici, e presso la comune di molt’altre generazioni de’letterati nostri. Perchè non seppero costoro addurre almeno delle autorità rispettabili se non delle ragioni in sostegno di quelle massime? Come mai è avvenuto che nessun d’essi ha voluto, o ha saputo, o ha potuto fare il minimo sforzo d’ingegno per confutarmi, per convincermi, per mettermi in sacco almeno sur un articolo o due? E perchè si sono tutti quanti buttati al facil mestiero di strapazzarmi sempre, di vilipendermi sempre, e di calunniarmi sempre? E come mai finalmente questo frate don Luciano, che fra tutti i miei avversarj è giudicato il più atletico, s’è anch’egli po-tuto porre alla scempiata impresa di falsificare ogni mia sillaba che cita, e ad infilzare un mondo di bugie facilissime a scoprirsi al semplice confronto delle sue citazioni col mio testo? Non è questo un andar cercando col lumicino il suo propio discapito e la sua propia infamia presso tutti quelli almeno che avranno la curiosità di leggere l’opera sua e l’opera mia?

Ma perchè io faccio professione di tutt’altri mestieri che di quelli del nostro reverendissimo, e de’suoi degni colleghi in critica, voglio qui confessare al leggitore, che vi è una parola da lui criticata drittamente nella mia Frusta. Sua paternità mi critica con molta ragione, laddove io scrissi barometro invece di termometro. Questo è stato veramente un mio fallo, nè io voglio qui difenderlo, come forse potrei, e non voglio nè anche scusarlo con dire che m’è fuggito dalla penna una volta sola per fretta e per disattenzione; e non voglio dire che chiunque sa con quanta velocità io fui talvolta obbligato a scrivere qualcuno de’miei periodici fogli si maraviglierà fors’anco ch’io non abbia commessi de’falli molto maggiori di questo: e non voglio dire che avendo io dimorato dieci anni in un paese dove in quasi ogni casa v’è un barometro, e in ogni bagno un termometro, non può troppo parer possibile che io ignori quello che colà è saputo sino da’fanciulli e sino dalle donnicciuole: e non voglio finalmente dire che io ho registrati questi due vocaboli con le loro definizioni nel mio Dizionario italiano e inglese stampato in Londra. No, non voglio far fiato in difesa di quel mio fallo, e voglio per concesso a don Luciano che io l’ho commesso non per fretta e per inavvertenza ma per pura crassissima ignoranza. Quale scempiataggine però è stata la vostra, padre mio, di stampare una bugia majuscola anche nell’unico caso in cui potevate trionfare della mia ignoranza crassa crassissima? Perchè nella vostra nota a pag. 1172 del Bue Pedagogo avete voi detto sfacciatamente che io ho commesso quel fallo due volte, cioè a pag. 9 della mia introduzione alla Frusta, e poi al n. II, pag. 84 della Frusta medesima? Egli è vero, padre mio, che al n. II, pag. 84 della Frusta io ho commesso quel fallo una sol volta, ma è una bugia ch’io l’avessi già commesso a p. 9 della mia introduzione. Io non ho nominati nè barometri nè termometri in quella introduzione, anzi non ho mai più avuta congiuntura alcuna di valermi d’un vocabolo o dell’altro in alcun’altra pagina di quella mia opera.

Non è dunque stata questa una vostra bugia, e una bugia veramente scempiata perchè troppo facile a scoprirsi? e non è stato questo un accoppiare la ribalderia alla bugia? Signor Frugoni, se voi prestaste mai fede a questo frate più che non a me, sconciatevi a scorrer coll’occhio lungo una sola pagina di stampa, vale a dire lungo la pagina 9 di quella mia introduzione, e confesserete che avete il torto a prestare più fede a lui che non a me.

Non è poi anche stato un mediocre cumulo di scempiate bugie quel vostro ripetuto asseverare che la Frusta è stata da tutti in Italia giudicata una cosa pessima. Voi non vi siete contentato di dire a p. 1106 che la mia Frusta « è una stalla d’immondezze molto più sordida e dannosa di quella d’Elide». Voi non vi siete contentato di dire a pag. 1117, che la mia Frusta « è un libro che in ribalderia può valere per mille »; voi non vi siete contentato di dire a pag. 1211, che la mia Frusta « ribocca principalmente di costume grossolano, e di morale quanto più si può animalesca »; voi non vi siete contentato di dire in nome vostro propio molte centinaja d’altre tali calunniose e scempiate bugie, ma voi avete voluto crearvi da voi medesimo interprete generale delle varie opinioni di tutti i nostri compatriotti, e avete voluto riunirle tutte quante colla vostra, e farne per così dire una pasta sola. E così nella vostra breve ma goffa prefazioncella al Bue Pedagogo avete assicurato che « tutti i buoni ingegni italiani giudicano la Frusta una censura composta di pedanterie, d’inezie e di scurilità; sprovveduta di raziocinio, di dottrina e di verità ». E poi a pag. 1191 del libello avete detto che « io vivo nello scherno d’Italia »; e poi a pag. 1196-1197 avete detto che la mia Frusta « è in irrisione e in disprezzo per tutta la nostra contrada »: e poi a pag. 1234 avete detto che « da tutti gli ordini di letterati io sono stato severamente punito con tanto scherno e con tanta esecrazione, che il regno delle lettere non vide mai la maggiore ». Ma paternità reverendissima, e non iscorgete voi, che tutte queste matte esagerazioni vi sono state dettate dalla rabbia, o piuttosto dal troppo vino, e che tutte sono bugie scempiate? Poveretto! Voi avete sicuramente alzato un po’ troppo il fiasco dopo d’aver letta quella critica nella quale vi consigliai caritatevolmente a non pubblicare colle stampe quell’altre vostre stolte Commedie filosofiche di cui ne minacciavate. Se vi foste conservato sobrio in quel punto, la matta rabbia non v’avrebbe forse tanto velato il discernimento, e non v’avrebbe forse potuto spingere a dire di queste bugiacce scempiate scempiatissime. Oh don Luciano poveretto, chi mai altri che voi, o qualche vostro cagnotto briaco, come voi, poteva supporre che l’Italia tutta fosse d’un pensiero, e tutta del vostro pensiero? E chi mai, se non voi e quell’altro amico del fiasco, poteva dire che la mia Frusta contiene delle immondezze, delle scurilità, del costume grossolano, e della morale animalesca? Una qualche inezia può darsi che la contenga, e non voglio neppur dire che ogni mio raziocinio in essa sia assolutamente perfetto; e può anch’essere che tutto in essa non sia dottrina spremuta col torchio, e verità stillata per limbicco. Difficil cosa è lo scrivere cinquanta fogli di stampa assai minuta senza che ti scappi un’inezia, e senza che un qualche raziocinio zoppichi un po’ poco; ed è più ancora difficile il riempirli tutti cinquanta di dottrina e di verità. Ma qualunque errore io possa aver commesso in fatto di letteratura, io so che in fatto di costume e di morale non ho commesso errore alcuno, e so che in que’cinquanta fogli non v’è immondezza nè ribalderia; e voi siete un mascalzone degno d’essere scopato dal boja fuori della società umana quando m’apponete di queste calunnie. Io nella Frusta ho criticati de’libri frivoli e de’libri cattivi con severità e con rigidezza, ma con candore e con verità; e se ho tocco personalmente e assai sul vivo qualche autore, come a dire il Borga, il Vicini, il Rebellini o qualch’altro tale gagliofaccio, l’ho fatto per rintuzzare quell’insolenza con cui cominciarono ad attaccarmi nelle loro sciaurate prose e ne’loro sciauratissimi versi; nè altri che un sofista, un bugiardo, un mascalzone come voi poteva accusarmi d’avvere nella Frusta violato il costume e la morale.

Chi sa però, don Luciano, che delle vostre malediche esagerazioni voi non cantiate ancora la palinodia? Chi sa che con questi miei Discorsi io non vi riduca un giorno a protestare ed a giurare sulla vostra poca onoratezza e sulla vostra corrotta coscienza, che voi non siete autore del Bue Pedagogo? Il cuor mi dice che quando questi miei Discorsi saranno stampati voi farete il diavolo a quattro (scusate questo franzesismo) per far credere a quell’Italia di cui vi faceste qui generale interprete, che voi non siete stato l’autore di quel bricconissimo libello. Il cuor mi dice che presto vi smentirete vigliaccamente in faccia a que’medesimi vostri cagnotti, a’quali avete confidato il gran segreto di questa vostra stupenda opera. Oh il bel gusto che ci darete sgambettando a tutto potere per ricoprire come gatto le vostre sporcizie! Ma lasciamo andare le profezie per ora, e torniamo alle vostre scempiate bugie.

A pag. 1235 del Bue Pedagogo voi avete scritte queste bellissime parole. « I Gesuiti che soffrono molti malevoli e molti invidiosi, come quegli che hanno assai cose degne d’invidia, ascoltarono non è già molto un loro grande nimico, il quale volendogli opprimere del vituperio che dir si possa maggiore, scrisse in un celebre giornale, che i Gesuiti aveano confederazione ed amicizia con te, la quale accusazione quei dotti e prudenti uomini si tennero a grandissimo improperio, e con ogni maniera d’argomenti si studiarono a rimovere una tanta infamazione, e persuadere le genti, che gli onesti e ragionevoli uomini, siccome essi pur sono, non possono mai prostituirsi a così nera viltà ».

Ma, padre don Luciano, che è questa fola dell’augellin bel verde che voi qui ci narrate? Che ho io che fare co’Gesuiti, e che hanno essi che fare colla Frusta? Io non ho mai nominati i Gesuiti in essa, e non ho mai fatta la minima allusione ai disturbi avuti dal loro ordine in questi pochi anni: io non ho mai voluto parlare nella Frusta d’alcuno di quei tanti libri stampati contr’essi, come non volli nè anco far motto d’alcuno di quelli scritti in loro favore. E se io non ho, come certamente non ho dato mai nel mio carattere di scrittore il minimo motivo all’ordine de’Gesuiti di lagnarsi di me, e se nel mio carattere d’uomo privato io ho sempre rispettato ed onorato quel loro ordine, e se amo anzi ed osservo alcuni pochi d’essi che conosco di persona, e mi pregio dell’amicizia e della benevolenza loro, come mai avviene che i Gesuiti abbiano adoperata « ogni maniera d’argomenti per rimuovere da se stessi una infamazione » che non hanno e che non possono avere, che non sussiste, che non può sussistere? Che bugia strana non meno che scempiata è questa vostra nuova bugia? Perchè calunniate voi i Gesuiti dicendo che m’hanno fatto un torto, un’ingiustizia, una soverchieria che non m’hanno fatta, che non mi fanno, e che non hanno e non avranno mai luogo di farmi? Ho già notato, parlando del Cocchi, che voi avete de’molto pazzi modi di mostrarvi amico degli amici; e un modo molto pazzo è anche quello che qui tenete di mostrarvi amico de’Gesuiti. Ma voi non la guardate tanto pel sottile quando si tratta di scagliarmi qualcuna delle vostre avvelenate frecce; e zara a chi tocca se invece di ferir me va a ferir altri.

Chi sa però che con questa vostra fola voi non abbiate avuta intenzione di rendermi odioso a’ nemici de’ Gesuiti per un altro verso, e chi sa che non abbiate voluto artatamente farmi passare nel mondo per un mercenario de’ Gesuiti? Vi trovo tanto pieno di malizia in ogni pagina del vostro Bue Pedagogo, che non è strano se penso sempre il peggio d’un sottilissimo ed astutissimo birbone come voi siete. Non mi sono ancora scordato che un altro birbone, cioè il già nominato abate Giambattista Vicini, fra gli arcadi Egerio Porconero, nella prefazione d’una certa sua raccoltuzza di cattive rime mi toccò questa corda, ed accennò la Gazette Ecclesiastique (da voi chiamata un celebre Giornale) in cui si assicura con inaudita sfrontataggine, che la mia Frusta è una lucrifera periodica apologia de’Gesuiti. Ma, padre don Luciano, come non arrossiste voi di rammemorare quel matto dire di quel fanatico francese che è autore di quella gazzetta, il quale parlò come una ghiandaja briaca, e a cui lo sciocco Vicini fece eco come un’altra ghiandaja briaca? V’è egli dunque bisogno di provare che la mia Frusta non ha punto che fare co’Gesuiti, e che essi v’ebbero tanta mano quanta n’ebbero negli scritti del mago Zoroastro e di Mercurio Trismegisto? E se essi non v’hanno avuta mano, e se io non m’impaccio in essa con essi, perchè hanno a procurare con ogni maniera d’argomenti di convincere il mondo d’una cosa che il mondo non crede punto, nè ha mai creduta, nè può credere, nè crederà mai?

Diamo nulladimeno per concesso alla paternità reverendissima che i Gesuiti sieno disgustati meco o in qualità di scrittore, o in qualunque altra qualità, io domando al nostro mentecatto frate quali sono gli argomenti adoperati da’Gesuiti per persuadere al mondo che « si riputerebbero ad improperio, ad infamazione, e a nera viltà la confederazione meco e 1’amicizia mia? » Forse che il loro padre generale ha pubblicata qualche dichiarazione in tal proposito? forse che qualche loro collegio in nome di tutto l’ordine ha fatto qualche atto, qualche protesta, qualche proclama, o qualch’altra simil cosa per disingannare quel loro « grande nimico, autore del celebre giornale, » per disingannare l’illustrissimo signor abate Vicini, e per disingannare chiunque altri prestasse lor fede intorno a questa ridicola, insussistente, impossibile, e mattamente sognata confederazione? Sarebbe bella che i Gesuiti avessero usati argomenti, anzi ogni maniera di argomenti per far dispiacere e disonore a me a proposito d’una confederazione ridicola, insussistente, impossibile, e mattamente sognata! sarebbe bella che i Gesuiti si sconciassero a confutare un Vicini e un gazzettiere francese che cianciano come due ghiandaje briache! e sarebbe più bella ancora che il loro padre generale o qualche loro col-legio in nome di tutto l’ordine avessero fatte dichiarazioni, e atti, e proteste, e proclami contro di me, e ch’io non me ne sapessi nulla, e che nessuno non ne sapesse nulla, e che questo frataccio fosse il solo che il sapesse! Eh frataccio, frataccio, questa è una fola da te inventata in qualche momento che scherzavi soverchio col fiasco, o per dir meglio questo è il tuo solito usare ogni maniera d’argomenti per farti credere a forza un bugiardo scempiato; però si contenti la paternità tua reverendissima, ch’io metta questa a mazzo con quella del fallo da me commesso due volte intorno al barometro: e con quella del Lami cane e del Manfredi scimmiotto; e con quella delle quattromila gazzette inglesi; e con quella de’miei segreti per guerire il reumatismo; e con quella del mio odiare e calpestare le ceneri del Cocchi; e con quella de’brutti nomi da me dati ai re ed ai pontefici; e con quella del mio spinosismo; e con quella del mio profanare i sepolcri de’martiri; e con quella del mio consigliar le donne a non pensar mai alla vita eterna; e con quella del mio non ammettere spiritualità ed incorporeità; e con quella della mia ignoranza intorno alle zone; e con quella degli sgherri con le partigianacce mandatimi dal personaggio grave e venerando; e in somma con tant’altre scempiatissime tue bugie miste di somma ribalderia, che a riferirle tutte sarebbe quasi mestiero di ricopiare il Bue Pedagogo da un capo all’altro.

Orsù, notiamo ancora una o due di queste scempiate bugie del nostro reverendissimo, e poi affrettiamoci a terminare un discorso, che come gli altri dovrebbe riuscirgli in sommo grado dilettevole quand’egli non abbia ancora totalmente soffocata quella sua meschina cosuccia chiamata coscienza.

Don Luciano mio, a pag. 1107, voi dite che avete incontrato non è molto un valente uomo, il quale vi disse di me queste belle ciceroniane parole. « Niuno guarda in volto costui che non senta fastidio: niuno lo ricorda che nol condanni. Lo evitano, lo fuggono, ricusan d’udirne parlare; come mal augurio lo detestano. I famigliari lo scacciano; i popolani lo maledicono; i vicini lo temono; gli affini se ne vergognano. » Ma, padre mio, è egli poi vero che oltre all’essere sovente briaco, e che oltre all’esser sempre pazzo e sempre frenetico, voi non pratichiate neppur mai con altri che con persone briache, pazze e frenetiche? e chi può mai essere, se non un qualche briaco, un qualche pazzo, un qualche frenetico quel vostro amico valente uomo che v’ha detto di me queste belle ciceroniane parole? credete però voi difficile a me 1’indovinare che questo vostro immaginario valente uomo non è altri che quello stesso illustre uomo al quale già deste tanto incenso? Padre sì, il vostro valente uomo è quello stesso illustre uomo, di cui diceste che è pregno di dottrina, di sali, di vivacità, di lepidezze, e d’altre buone cose assai, e seguace di Menippo, e di Luciano, e di Demostene, e di Timoleonte, e soprammercato buon storico, buon antiquario, buon filosofo, e buonissimo teologo. Padre reverendissimo, oh se sapeste quanto affanno mi date facendo parlare di me i valenti uomini e gl’illustri uomini appunto come Cicerone parlava di Vatinio! Chi sa ch’io non ne muoja come Erasmo e Cardano, o come il minore Scaligero, o come Vossio, o come Salmasio, o come Pope, che secondo il vostro dire a pag. 1233 del Bue Pedagogo furono tutti ammazzati colla penna, taluno da un nimico vivo, e taluno da un nimico morto! Capperi! Sentirmi dire da voi che tutti mi condannano, mi evitano, mi fuggono, mi detestano, mi scacciano, mi maladicono, è cosa propio micidiale, e da farmi andare intorno pel bosco cercando un albero a cui impiccarmi come un secondo Bertoldo! Parlate però di me in istile ciceroniano a grado vostro, giacchè v’ho fatta la grande offesa di consi-gliarvi a non istampare quell’altre vostre Commedie filosofiche; e così assicurate a pag. 1224 che Voltaire ha descritto me quando descrisse un Petit Singe in sei versi; e un Polisson in sei altri versi; ma abbiate almeno avvertenza nel copiare que’suoi versi di non gliene storpiare alcuno, come faceste copiando quelli del Polisson, de’quali guastate il secondo e l’ultimo, grazie al vostro profondo sa-pere di lingua francese. Che direste però, don Luciano, se anch’io assicurassi che lo stesso Voltaire ha dipinto voi come autore di commedie filosofiche e di buoi pedagoghi? Guardate se m’appongo. « Le langage d’Agatopiste sent son misérable charlatan. Ce sont les pointes les plus basses et les plus dégoûtantes. Il n’est pas même plaisant pour le peuple, et il est insupportable aux gens de jugement, et d’honneur. On ne peut souffrir son arrogance, et les gens de bien détestent sa malignité » Vi pare che questo ritratto s’assomigli, reverendissimo? E non voglio dirvi da quale opera di Voltaire io l’abbia tolto per rifarmi della vostra inciviltà in non volermi dire a pag. 1227 da quale delle sue opere avevate rubati tutti que’grandi spropositi che diceste dell’inglese Shakespeare. Vedete come sono vendicativo! Anzi perchè la vendetta sia eguale all’offesa, dopo il primo ritratto da opporsi a quello del Petit Singe ve ne voglio dar un altro da opporsi al Polisson. Eccovelo. « Vous croiriez que ce vilain Agatopiste est un portefaix du Pont-noeuf. Mais laissons là sa choquante figure. Ce n’est pas sa faute s’il ressemble aux portefaix. Sourcilleux Littérateur, il poudre tous ses discours et tous ses écrits de facéties et de grec. On le dit ami du bon vin à cause de son visage parsemé de boutons rouges. Cela est croyable. On le dit propre à peupler une colonie, et négligeant son talent par des raisons socratiques. Cela est croyable aussi. On le dit bon homme et bon chretien: mai cela est il croyable? »

Guardate ora, padre mio, se potete trovare nella bottega di monsù Guibert il libro di Voltaire da cui ho cavato questo vostro secondo ritratto. Se a voi non dispiacesse (come diceste a pag. 1151) vedermi scommettere i denti, ve ne scommetterei tosto uno colla gingiva che nol trovate. Ma che lo troviate o che non lo troviate, non mi stuzzicate mai più coi Petits Singes, e coi Polissons a rovistare i miei libri oltramontani, se non volete ch’io vi trovi di questa sorte di ritratti a centinaja. Intanto paragonate bene questi due coll’originale, e serbateveli che li dono tutti due, e son vostri. Viva don Luciano.

N°. XXX. Trento, I giugno 1765. tentrione dell’ignoranza sino al Settentrione della brutalità niun altro quadrupede può essere autore di quel fondaco di capi d’opera salvochè il Bue Pedagogo ». Mi rallegro moltissimo con le signorie illustrissime delle genti accorte di questo loro giudizio favorevole; ma quanto starete voi, padre don Luciano, a mostrare che quelle mie lettere devono anch’esse annoverarsi fra le più tenebrose produzioni del secolo tenebroso? Io mi struggo dalla voglia di vedervi porre i piedi sull’orme di quel Bue col Sajo, e di vedervi attraversare con esso l’occidentale Inghilterra, e un bel pezzo d’Oceano Atlantico, e il Portogallo, e la Spagna, e la Francia, o per dirla nel vostro lepido modo, vorrei vedervi attraversare il ventricolo, e la pancia, e il pettignone e il diretro dell’Europa. Quanto godrò, padre mio, nel sentirvi assicurare ad ogni passo, che questo non è vero, che questo è falso, e che questa cosa sta così, e che quell’altra sta colà! Quanto rideremo quando vi sentiremo ripetere con un’aria di filosofo ateniese, e parlando mezzo greco e mezzo da comacchio, che questa è una cacofonia, e questa una battologia, e quella una tropocachia, e quell’altra più in là verso voi una birbologia! E poi m’apparecchio a vedervi col cappuccio a traverso gridare a quanto n’avrete in gola, che qui sono un bue inglese, e qua un bue oceano o atlantico, e costà un bue portoghese, e colà un bue spagnuolo, e più su un bue francese, soggiungendo fors’anche per maggior cumulo di lepidezza che io sono un bue ventricolo, o un bue petto, o un bue pancia, o un bue pettignone, o un bue diretro. Coteste vostre spiritosaggini immensamente fratesche corroboreranno il giudizio favorevole dato delle mie lettere da quelle vostre genti accorte, e non la-sceranno più dubitare alcuno della mia ignoranza settentrionale, o della mia settentrionale brutalità. Basta che non abbandoniate il vostro stile di birbologo, e ne sentiremo delle belle quando (come promettete a pag. 1185) esporrete quelle mie lettere alle irrisioni degli avveduti mercatanti. Già ne avete dato un buon saggio della vostra perfetta birbologia, dicendo a pag. 1175 che « ne’ miei viaggi io ho visitata la Mecca, e raccolto il mio prodigioso Milione da coloro che Maccometto mise nel settimo cielo, i quali aveano settecentomila teste, e in ogni testa settecentomila bocche, e in ogni bocca settecentomila lingue parlanti in settecentomila idiomi ». Quanto siete erudito e spiritoso, il mio caro birbologo! E chi potrà mai finire di ammirarvi sentendovi aggiungere a queste vostre erudite e spiritose birbologie, che « previo il rito della circoncisione io ho potuto aver di colà gli idiomi, e le lingue, e le bocche, ma le teste nè di colà nè d’altronde! » Ah questa, padre mio, è veramente tanto erudita e tanto spiritosa, che non si può andare più insù! Queste sono lepidezze, queste sono grazie, queste sono facezie tutte vostre, tutte di don Luciano, tutte del mio birbologo; e nelle mie lettere io non ho certamente mai potuto salire a una tanto smisurata altezza di lepidezza, di grazia, di facezia e di birbologia; onde sarà pur forza ch’io rinunci alla dolce speranza di vederle mai annoverate dalle vostre genti accorte fra le produzioni e fra le glorie del secolo tenebroso! Avete però molta ragione, reverendissimo, laddove mi riprendete per aver fatto dire ad uno stampatore, che quelle lettere sono « un caos di roba, un fondaco di cose, una pirlonea ». Confesso che ho fatto male a non far che il mio stampatore imitasse quello del vostro Bue Pedagogo, o quello del vostro Suicidio. Dal primo di questi voi vi fate modestissimamente chiamare uno « scrittore illustre, a cui non mancan sali e dottrina, e pareggiabile da pochi per la indicibile copia di lepidezze, di vivacità, di eleganze e d’ingegnosissime discussioni ». Poffar il mondo! Questo è ben altro che un fondaco, un caos e una pirlonea! Questa è una birbologia delle più sublimi e delle più ammirabili! Dallo stampatore poi del vostro Suicidio voi fate birbologamente dire, a pag. 235, che il vostro discorso parenetico contro il Griselini è una « scrittura dotta ed eloquente, e piena di forza e di leggiadria, e di molt’altre buone cose ». E questa non è mo’ anch’essa una birbologia degna degnissima della paternità vostra sempre birbologa? Non mi sono poi ignote le tant’altre birbologhe lodi che voi avete centinaja di volte nella bottega di monsù Guiberto diluviate addosso alla vostra Commedia filosofica, a’vostri Ritratti, alle vostre Malignità storiche, a quel Discorso contro il Griselini, e ultimamente al vostro stupendissimo Bue Pedagogo; nè ignoro tampoco quell’altre lodi birbologhissime che di tal Bue Pedagogo avete scritte in più parti d’Italia, e fingendo di non riconoscerlo per fattura vostra per non muover poi vomito davvero a quelli a’quali le scrivevate. Questa è la sfacciataggine fratesca che io avrei dovuta avere per agguagliarmi al gran birbologo Agatopisto; questa è la fratesca birbologia che io avrei dovuto usare per pareggiarmi a don Luciano; e questo è in somma quello che avrei dovuto fare anch’io per dar riputazione alle mie Lettere viaggiatorie, e alla mia Frusta, ed alle mie cose, per farle indisputabilmente annoverare come tutte le vostre fra le maggiori glorie del secolo tenebroso! Orsù, frate birbologo, frate illustre, frate pieno di sali e di dottrina, frate pareggiabile da pochi, frate copioso di lepidezze e d’eleganze, frate abbondantissimo di vivacità e d’ingegnosissime discussioni, frate dotto, frate eloquente, frate forte e frate leggiadro, affrettatevi a mo-strare alle genti accorte ed agli avveduti mercatanti, che quelle mie lettere non sono nè caossi, nè fondachi, nè pirlonee come le opere vostre, e soprattutto non vi scordate di provare che la mia traduzione delle tragedie di Pier Cornelio non è punto fedele all’originale. Mi sono già avveduto dalla vostra macchina montata a falso, e dal vostro automato montato a falso, e dal giudizio da voi dato di Voltaire in qualità di critico degl’Italiani, che voi siete infranciosato quanto basta per giudicare drittamente della fedeltà o della infedeltà di qualsisia traduzione dal francese. M’è però forza avvertirvi a proposito di Voltaire, che voi siete un birbologo molto semplice quando v’immaginate che io non conosca quell’autore di cui a pag. 1228 del Bue Pedagogo rifiutate di dirmi il nome. Quantunque il libraio Guiberto non m’assista co’libri che i torchi oltramontani vanno moltiplicando, pure le opere postume di Guglielmo Vadè non sono cose dell’altro mondo che voi solo abbiate ad averne notizia. Ho letto anch’io il ragguaglio dato in quelle supposte opere postume, dell’Hamlet di Shakespeare, ed ho ammirato per la centesima volta Voltaire in qualità di critico degli Inglesi come l’ho già tante volte ammirato in qualità di critico degli Italiani, degli Spagnuoli e de’Portoghesi. Ma vor-reste voi, padre mio, ch’io buttassi il tempo a discorrere o a disputare con voi di cose inglesi, o spagnuole, o portoghesi, e a confutare le scempiaggini che voi dite di Shakespeare sulla fede di Voltaire? Di minestre e di brodi credo ve n’intendereste se ve ne parlassi, ma a che diavolo venite ad intrigarvi colla lingua inglese, e colle tragedie d’Hamlet, e coll’altre opere di Shakespeare! Imbacuccatevi nel cappuccio, frataccio impudente, e non venite a parlare di cose di cui v’intendete quanto i somieri di musica; nè vi fate difensore e antagonista di Wilkie, di Balchloch, di Hume, di Tompson, di Milton, di Spenser, di Pope, di Swift e d’altra tal gente, della quale non solo non sapete la lingua, ma non sapete pronunciar i nomi, anzi neppur copiarli esattamente senza far fatica. Questo è quello che vi posso dire in proposito degli autori d’Inghilterra, de’quali voleste pur cinguettare coll’ajuto della mia Frusta e dell’Opere postume di Guglielmo Vadè. Se parlerete più di quella gente vi scapperanno dalla bocca dell’altre assurdità compagne di quella che v’è scappata parlando di Shakespeare e di Goldoni. « Se i drammi di Shakespeare (dite voi a pag. 1227 del vostro Bue) fanno affollare gl’Inglesi al teatro un giorno dopo l’altro, come dunque ardisci, o Aristar-co, di biasimare il Goldoni, che anch’esso fa affollare gran gente intorno ai teatri? » Ma non vedete, frate assurdo, che questa vostra osservazione è un’osservazione da truffaldino, e che quantunque il Goldoni faccia a’dì nostri affollare gran gente a’teatri non l’ha ancora come Shakespeare fatta affollare un secolo dopo l’altro, essendo tuttavia vivente? Io però mi scordava che voi siete uno de’principali scrittori del secolo tenebroso, e che quindi v’è lecito dire quante assurdità e quanti spropositi volete. Che bella cosa vedervi aggiogato a un carro di letame con quel prete Rebellini della Minerva, che difendendo anch’egli il Goldoni cominciò colla protesta « di non aver mai letta nè sentita leggere o recitare alcuna commedia del Goldoni! » E qui per finire questo mio discorso col Goldoni, vi torno a dire con la mia usata imperturbabilità, che darò sempre il caratteristico titolo di pubblico avvelenatore ad ogni poetastro drammatico che insegnerà come il Goldoni cattiva morale dalle scene, qualunque possa essere l’opinione vostra, quella del prete Rebellini, e quella del nostro caro carissimo secolo tenebroso. Don Luciano, vi sono schiavo. Discorso sesto che comincia con un dialogo, e che contiene alcune bugie sciempiate, ed alcuni ritratti francesi. – L’autore della Frusta. Io ve l’ho già detto, reverendissimo padre, che nel vostro Bue Pedagogo v’è una cosa la quale m’ha cagionata maraviglia. D. Luc. Sì, me l’hai detto, e me ne ricordo, bue mio. Quello che t’ha cagionata maraviglia è stato il mio discorrere in quel libello con la più perfetta ignoranza di cose trivialissime, e note sino agli sbarbati discipuli a malapena iniziati negli studj. L’Aut. No, padre non bue, non fu questo. D. Luc. Sarà dunque stata, bue carnivoro, quella mia smania ridicola di voler fare il faceto e lo spiritoso malgrado la natura che m’ha onninamente negata quella snellezza d’ingegno, quella dilicatezza di fantasia, e quella esattezza di giudizio che si richiede per fare lo spiritoso e il faceto. L’Aut. No, padre non bue, non fu nemmeno questo. D. Luc. Dunque sarà stata, bue automato, quella mia smoderata immodestia nel farmi da me stesso replicatamente il panegirico, e nel chiamarmi da me stesso un uomo illustre, nudrito nella pulitezza e nella eleganza, buono storico, buon antiquario, buon filosofo, e buon teologo quantunque io sia... L’Aut. No, padre non bue, non fu nemmeno questo in vostra malora! Oh che poca memoria, storico mio, antiquario mio, filosofo mio, e teologo mio! D.Luc. Dunque, bue legislatore, sarà stata quella mia abbondanza di concetti intorno al Bue, che mi sono tutti fortunatamente riusciti tanto ottusi, e che ho appiccati collo sputo al cognome di Scannabue. A dirtela in confidenza io costì feci propio una fatica da asino. L’Aut. Questo non occorre che me lo diciate, padre non bue. Lo so anch’io che costì faceste una fatica da asino, e che il ridicolo cognome da me dato all’immaginario Aristarco per far isbigottire gli sciocchi con quella strana parolaccia, non meritava che v’affaticaste così asinescamente a stravolgerlo in tanti modi. Ma lasciamo andar questo e lasciatemi dire che non avete ancora toccato il punto della mia maraviglia. D. Luc. Sarebbe stata mai, bue medico, quella mia sbirresca maniera di darti più nomi oltraggiosi che non ne furono dati a Giuda, a Nerone, e a Gano da Pontieri? L’Aut. No, padre non bue, io mi rido della vostra stupida malignità. D. Luc. Sarebbe mai stata quella mia ira, quel mio maltalento, e quella mia sottile perfidia in procurare, bue cipolla, di farti un nimico d’ogni mio leggitore, interpretando sempre in modo iniquo e fraudolente ogni tuo sentimento intorno alla letteratura, alla morale, ed alla religione? L’Aut. No, no, e poi no, paternità mia non buesca, non fu nè tampoco alcuna di queste cose! Queste sono cose da destare maraviglia in chi non conosce troppo bene 1’irascibile ciurmaglia di voi altri scrittori italiani moderni; ma queste cose non potevano destare maraviglia in me che ho piena pratica di voi altri, irascibile ciurmaglia ciurmagliaccia. Prima di leggere il vostro Bue Pedagogo io avevo casualmente saputo che voi siete un frataccio più orgoglioso e più burbero di Belzebubbe e più artificioso e più maligno d’Astarotte; e m’era in oltre stato scritto da Bologna che la mia giusta critica alla vostra Commedia filosofica v’aveva mossa tanto la bile (scusate se questa mossa di bile non è anatomicamente vera), che in sul vostro primo leggerla schizzaste fuoco dagli occhi, e bava dalla bocca come rospo calpestato. Avevo poi anche veduto il vostro Discorso Parenetico contro il Griselini, e notato con quanto attossicata dispettosaggine 1’avevate maltrat-tato per aver lodato forse un po’troppo fra Paolo Sarpi in quel suo libro; nè m’era scappato dall’occhio il nauseoso elogio da voi fatto al vostro stesso Discorso Parenetico in una lunga e non necessaria postilla al vostro Suicidio Ragionato. Pensate, padre mio, se dietro a tutte queste antecedenze io poteva aspettarmi nel vostro Bue Pedagogo altro che dell’ignoranza assai prima di tutto, e poi della lepidezza falsa, e della spiritosaggine bastarda, e della immodestia tanta, e disingenuità e malcreanza tanta tanta, e quindi una dose più che mediocre d’ira, di maltalento, e di perfidia? E come mai tutte queste cose venute appunto com’io me le stava aspettando m’avrebbero potuto cagionare la menoma maraviglia? Qual è dunque la cosa (soggiungerete voi) che te n’ha cagionato nel leggere il mio Bue Pedagogo? Dimmelo, dimmelo. Uh, padre poca memoria! Forse ch’io non vel dissi già nel Discorso secondo? Tornate a leggerlo attentamente, e vedrete che ve l’ho già detto! Ma no, state qui, che ve lo voglio replicare per risparmiarvi l’incomodo di leggere di nuovo quello che già leggeste. Sappiate dunque, padre mio, che quando ebbi scorso da un capo all’altro quel Bue Pedagogo io non mi maravigliai d’altro che della vostra somma Scempiataggine in somministrarmi come faceste un troppo facil modo di farvi ripetutamente ed innegabilmente comparire un Bugiardo, citando tanto spesso i miei paragrafi come faceste, e non citandoli mai come stanno, ma falsificandomeli tutti nel ricopiarli. Come mai è possibile, dicevo io a misura che leggevo il libello, come è possibile che questo frate sia stato così scempiato da dire in istampa alla gente delle cose false, e la di cui falsità si può tosto riscontrare? Come mai è possibile che costui m’abbia per tanto impotente di non saper iscoprire alla brigata le sue ripetute ed innegabili bugie? S’è egli più trovato uno avversario tanto scempiato, che attaccando un’opera stampata ne citi un passo e due, e tre, e dieci, e venti, e trenta che non sono in tale opera, o che non istanno così com’egli li ricopia? Non bisogn’egli essere scempiato affatto per lusingarsi che i leggitori non sarebbero iti a confrontare il Bue Pedagogo colla Frusta subito che si fossero da me sentiti assicurare che il suo citare era in molti luoghi falso in parte, e in molti luoghi falso in tutto? E come non pensò questo scempiato bugiardo che in conseguenza d’un tal confronto egli doveva per necessità aspettarsi dal pubblico l’infame taccia di bugiardo, e di bugiardo intierameute scempiato? Eccovi detta la cosa, padre mio, che nel vostro Bue Pedagogo m’ha fatto maravigliare. Vi credevo capace d’ogni ribalderia prima di leggerlo; e m’aspettava in esso una buona grembiulata d’ingiurie e di villanie; ma non avrei mai potuto persuadermi innanzi tratto che alla ribalderia, alle ingiurie, ed alle villanie voi aveste ad accoppiare la scempiataggine delle bugie innegabili. Questo m’è riuscito nuovo, e questo m’ha cagionata maraviglia. Ma è egli possibile, soggiungevo io a misura che leggevo, possibile che in una mia opera composta di cinquanta buoni fogli di stampa non vi sia la minima minuzia a cui un colleroso avversario si possa appigliare? Possibile che questa mia Frusta sia tanto buona che di cotesti preti e frati miei avversarj, neppur uno abbia potuto confutarne una riga, e che tutti abbiano dovuto ricorrere alle ingiurie, alle villanie, alla cavillazione, alla mutilazione, alla falsificazione, ed alla bu-gia? Vi sono pure in quella Frusta delle cose assai, le quali si possono piuttosto chiamare opinioni mie particolari che non ragioni evidenti. Perchè non cercarono costoro di combattere quelle mie particolari opinioni coll’arme almeno delle opinioni altrui? Vi sono pure in quella Frusta delle cose in fatto di letteratura che non sono forse mai più state dette in Italia. Perchè non s’industriarono costoro a rispondere qualche cosa di plausibile alle mie novita? Si cerca pure nella Frusta di mostrar false certe massime che da un pezzo passano per vere e per irrefragabili presso la comune de’nostri poeti, de’nostri prosatori, de’nostri antiquarj, de’nostri filologi, de’nostri critici, e presso la comune di molt’altre generazioni de’letterati nostri. Perchè non seppero costoro addurre almeno delle autorità rispettabili se non delle ragioni in sostegno di quelle massime? Come mai è avvenuto che nessun d’essi ha voluto, o ha saputo, o ha potuto fare il minimo sforzo d’ingegno per confutarmi, per convincermi, per mettermi in sacco almeno sur un articolo o due? E perchè si sono tutti quanti buttati al facil mestiero di strapazzarmi sempre, di vilipendermi sempre, e di calunniarmi sempre? E come mai finalmente questo frate don Luciano, che fra tutti i miei avversarj è giudicato il più atletico, s’è anch’egli po-tuto porre alla scempiata impresa di falsificare ogni mia sillaba che cita, e ad infilzare un mondo di bugie facilissime a scoprirsi al semplice confronto delle sue citazioni col mio testo? Non è questo un andar cercando col lumicino il suo propio discapito e la sua propia infamia presso tutti quelli almeno che avranno la curiosità di leggere l’opera sua e l’opera mia? Ma perchè io faccio professione di tutt’altri mestieri che di quelli del nostro reverendissimo, e de’suoi degni colleghi in critica, voglio qui confessare al leggitore, che vi è una parola da lui criticata drittamente nella mia Frusta. Sua paternità mi critica con molta ragione, laddove io scrissi barometro invece di termometro. Questo è stato veramente un mio fallo, nè io voglio qui difenderlo, come forse potrei, e non voglio nè anche scusarlo con dire che m’è fuggito dalla penna una volta sola per fretta e per disattenzione; e non voglio dire che chiunque sa con quanta velocità io fui talvolta obbligato a scrivere qualcuno de’miei periodici fogli si maraviglierà fors’anco ch’io non abbia commessi de’falli molto maggiori di questo: e non voglio dire che avendo io dimorato dieci anni in un paese dove in quasi ogni casa v’è un barometro, e in ogni bagno un termometro, non può troppo parer possibile che io ignori quello che colà è saputo sino da’fanciulli e sino dalle donnicciuole: e non voglio finalmente dire che io ho registrati questi due vocaboli con le loro definizioni nel mio Dizionario italiano e inglese stampato in Londra. No, non voglio far fiato in difesa di quel mio fallo, e voglio per concesso a don Luciano che io l’ho commesso non per fretta e per inavvertenza ma per pura crassissima ignoranza. Quale scempiataggine però è stata la vostra, padre mio, di stampare una bugia majuscola anche nell’unico caso in cui potevate trionfare della mia ignoranza crassa crassissima? Perchè nella vostra nota a pag. 1172 del Bue Pedagogo avete voi detto sfacciatamente che io ho commesso quel fallo due volte, cioè a pag. 9 della mia introduzione alla Frusta, e poi al n. II, pag. 84 della Frusta medesima? Egli è vero, padre mio, che al n. II, pag. 84 della Frusta io ho commesso quel fallo una sol volta, ma è una bugia ch’io l’avessi già commesso a p. 9 della mia introduzione. Io non ho nominati nè barometri nè termometri in quella introduzione, anzi non ho mai più avuta congiuntura alcuna di valermi d’un vocabolo o dell’altro in alcun’altra pagina di quella mia opera. Non è dunque stata questa una vostra bugia, e una bugia veramente scempiata perchè troppo facile a scoprirsi? e non è stato questo un accoppiare la ribalderia alla bugia? Signor Frugoni, se voi prestaste mai fede a questo frate più che non a me, sconciatevi a scorrer coll’occhio lungo una sola pagina di stampa, vale a dire lungo la pagina 9 di quella mia introduzione, e confesserete che avete il torto a prestare più fede a lui che non a me. Non è poi anche stato un mediocre cumulo di scempiate bugie quel vostro ripetuto asseverare che la Frusta è stata da tutti in Italia giudicata una cosa pessima. Voi non vi siete contentato di dire a p. 1106 che la mia Frusta « è una stalla d’immondezze molto più sordida e dannosa di quella d’Elide». Voi non vi siete contentato di dire a pag. 1117, che la mia Frusta « è un libro che in ribalderia può valere per mille »; voi non vi siete contentato di dire a pag. 1211, che la mia Frusta « ribocca principalmente di costume grossolano, e di morale quanto più si può animalesca »; voi non vi siete contentato di dire in nome vostro propio molte centinaja d’altre tali calunniose e scempiate bugie, ma voi avete voluto crearvi da voi medesimo interprete generale delle varie opinioni di tutti i nostri compatriotti, e avete voluto riunirle tutte quante colla vostra, e farne per così dire una pasta sola. E così nella vostra breve ma goffa prefazioncella al Bue Pedagogo avete assicurato che « tutti i buoni ingegni italiani giudicano la Frusta una censura composta di pedanterie, d’inezie e di scurilità; sprovveduta di raziocinio, di dottrina e di verità ». E poi a pag. 1191 del libello avete detto che « io vivo nello scherno d’Italia »; e poi a pag. 1196-1197 avete detto che la mia Frusta « è in irrisione e in disprezzo per tutta la nostra contrada »: e poi a pag. 1234 avete detto che « da tutti gli ordini di letterati io sono stato severamente punito con tanto scherno e con tanta esecrazione, che il regno delle lettere non vide mai la maggiore ». Ma paternità reverendissima, e non iscorgete voi, che tutte queste matte esagerazioni vi sono state dettate dalla rabbia, o piuttosto dal troppo vino, e che tutte sono bugie scempiate? Poveretto! Voi avete sicuramente alzato un po’ troppo il fiasco dopo d’aver letta quella critica nella quale vi consigliai caritatevolmente a non pubblicare colle stampe quell’altre vostre stolte Commedie filosofiche di cui ne minacciavate. Se vi foste conservato sobrio in quel punto, la matta rabbia non v’avrebbe forse tanto velato il discernimento, e non v’avrebbe forse potuto spingere a dire di queste bugiacce scempiate scempiatissime. Oh don Luciano poveretto, chi mai altri che voi, o qualche vostro cagnotto briaco, come voi, poteva supporre che l’Italia tutta fosse d’un pensiero, e tutta del vostro pensiero? E chi mai, se non voi e quell’altro amico del fiasco, poteva dire che la mia Frusta contiene delle immondezze, delle scurilità, del costume grossolano, e della morale animalesca? Una qualche inezia può darsi che la contenga, e non voglio neppur dire che ogni mio raziocinio in essa sia assolutamente perfetto; e può anch’essere che tutto in essa non sia dottrina spremuta col torchio, e verità stillata per limbicco. Difficil cosa è lo scrivere cinquanta fogli di stampa assai minuta senza che ti scappi un’inezia, e senza che un qualche raziocinio zoppichi un po’ poco; ed è più ancora difficile il riempirli tutti cinquanta di dottrina e di verità. Ma qualunque errore io possa aver commesso in fatto di letteratura, io so che in fatto di costume e di morale non ho commesso errore alcuno, e so che in que’cinquanta fogli non v’è immondezza nè ribalderia; e voi siete un mascalzone degno d’essere scopato dal boja fuori della società umana quando m’apponete di queste calunnie. Io nella Frusta ho criticati de’libri frivoli e de’libri cattivi con severità e con rigidezza, ma con candore e con verità; e se ho tocco personalmente e assai sul vivo qualche autore, come a dire il Borga, il Vicini, il Rebellini o qualch’altro tale gagliofaccio, l’ho fatto per rintuzzare quell’insolenza con cui cominciarono ad attaccarmi nelle loro sciaurate prose e ne’loro sciauratissimi versi; nè altri che un sofista, un bugiardo, un mascalzone come voi poteva accusarmi d’avvere nella Frusta violato il costume e la morale. Chi sa però, don Luciano, che delle vostre malediche esagerazioni voi non cantiate ancora la palinodia? Chi sa che con questi miei Discorsi io non vi riduca un giorno a protestare ed a giurare sulla vostra poca onoratezza e sulla vostra corrotta coscienza, che voi non siete autore del Bue Pedagogo? Il cuor mi dice che quando questi miei Discorsi saranno stampati voi farete il diavolo a quattro (scusate questo franzesismo) per far credere a quell’Italia di cui vi faceste qui generale interprete, che voi non siete stato l’autore di quel bricconissimo libello. Il cuor mi dice che presto vi smentirete vigliaccamente in faccia a que’medesimi vostri cagnotti, a’quali avete confidato il gran segreto di questa vostra stupenda opera. Oh il bel gusto che ci darete sgambettando a tutto potere per ricoprire come gatto le vostre sporcizie! Ma lasciamo andare le profezie per ora, e torniamo alle vostre scempiate bugie. A pag. 1235 del Bue Pedagogo voi avete scritte queste bellissime parole. « I Gesuiti che soffrono molti malevoli e molti invidiosi, come quegli che hanno assai cose degne d’invidia, ascoltarono non è già molto un loro grande nimico, il quale volendogli opprimere del vituperio che dir si possa maggiore, scrisse in un celebre giornale, che i Gesuiti aveano confederazione ed amicizia con te, la quale accusazione quei dotti e prudenti uomini si tennero a grandissimo improperio, e con ogni maniera d’argomenti si studiarono a rimovere una tanta infamazione, e persuadere le genti, che gli onesti e ragionevoli uomini, siccome essi pur sono, non possono mai prostituirsi a così nera viltà ». Ma, padre don Luciano, che è questa fola dell’augellin bel verde che voi qui ci narrate? Che ho io che fare co’Gesuiti, e che hanno essi che fare colla Frusta? Io non ho mai nominati i Gesuiti in essa, e non ho mai fatta la minima allusione ai disturbi avuti dal loro ordine in questi pochi anni: io non ho mai voluto parlare nella Frusta d’alcuno di quei tanti libri stampati contr’essi, come non volli nè anco far motto d’alcuno di quelli scritti in loro favore. E se io non ho, come certamente non ho dato mai nel mio carattere di scrittore il minimo motivo all’ordine de’Gesuiti di lagnarsi di me, e se nel mio carattere d’uomo privato io ho sempre rispettato ed onorato quel loro ordine, e se amo anzi ed osservo alcuni pochi d’essi che conosco di persona, e mi pregio dell’amicizia e della benevolenza loro, come mai avviene che i Gesuiti abbiano adoperata « ogni maniera d’argomenti per rimuovere da se stessi una infamazione » che non hanno e che non possono avere, che non sussiste, che non può sussistere? Che bugia strana non meno che scempiata è questa vostra nuova bugia? Perchè calunniate voi i Gesuiti dicendo che m’hanno fatto un torto, un’ingiustizia, una soverchieria che non m’hanno fatta, che non mi fanno, e che non hanno e non avranno mai luogo di farmi? Ho già notato, parlando del Cocchi, che voi avete de’molto pazzi modi di mostrarvi amico degli amici; e un modo molto pazzo è anche quello che qui tenete di mostrarvi amico de’Gesuiti. Ma voi non la guardate tanto pel sottile quando si tratta di scagliarmi qualcuna delle vostre avvelenate frecce; e zara a chi tocca se invece di ferir me va a ferir altri. Chi sa però che con questa vostra fola voi non abbiate avuta intenzione di rendermi odioso a’ nemici de’ Gesuiti per un altro verso, e chi sa che non abbiate voluto artatamente farmi passare nel mondo per un mercenario de’ Gesuiti? Vi trovo tanto pieno di malizia in ogni pagina del vostro Bue Pedagogo, che non è strano se penso sempre il peggio d’un sottilissimo ed astutissimo birbone come voi siete. Non mi sono ancora scordato che un altro birbone, cioè il già nominato abate Giambattista Vicini, fra gli arcadi Egerio Porconero, nella prefazione d’una certa sua raccoltuzza di cattive rime mi toccò questa corda, ed accennò la Gazette Ecclesiastique (da voi chiamata un celebre Giornale) in cui si assicura con inaudita sfrontataggine, che la mia Frusta è una lucrifera periodica apologia de’Gesuiti. Ma, padre don Luciano, come non arrossiste voi di rammemorare quel matto dire di quel fanatico francese che è autore di quella gazzetta, il quale parlò come una ghiandaja briaca, e a cui lo sciocco Vicini fece eco come un’altra ghiandaja briaca? V’è egli dunque bisogno di provare che la mia Frusta non ha punto che fare co’Gesuiti, e che essi v’ebbero tanta mano quanta n’ebbero negli scritti del mago Zoroastro e di Mercurio Trismegisto? E se essi non v’hanno avuta mano, e se io non m’impaccio in essa con essi, perchè hanno a procurare con ogni maniera d’argomenti di convincere il mondo d’una cosa che il mondo non crede punto, nè ha mai creduta, nè può credere, nè crederà mai? Diamo nulladimeno per concesso alla paternità reverendissima che i Gesuiti sieno disgustati meco o in qualità di scrittore, o in qualunque altra qualità, io domando al nostro mentecatto frate quali sono gli argomenti adoperati da’Gesuiti per persuadere al mondo che « si riputerebbero ad improperio, ad infamazione, e a nera viltà la confederazione meco e 1’amicizia mia? » Forse che il loro padre generale ha pubblicata qualche dichiarazione in tal proposito? forse che qualche loro collegio in nome di tutto l’ordine ha fatto qualche atto, qualche protesta, qualche proclama, o qualch’altra simil cosa per disingannare quel loro « grande nimico, autore del celebre giornale, » per disingannare l’illustrissimo signor abate Vicini, e per disingannare chiunque altri prestasse lor fede intorno a questa ridicola, insussistente, impossibile, e mattamente sognata confederazione? Sarebbe bella che i Gesuiti avessero usati argomenti, anzi ogni maniera di argomenti per far dispiacere e disonore a me a proposito d’una confederazione ridicola, insussistente, impossibile, e mattamente sognata! sarebbe bella che i Gesuiti si sconciassero a confutare un Vicini e un gazzettiere francese che cianciano come due ghiandaje briache! e sarebbe più bella ancora che il loro padre generale o qualche loro col-legio in nome di tutto l’ordine avessero fatte dichiarazioni, e atti, e proteste, e proclami contro di me, e ch’io non me ne sapessi nulla, e che nessuno non ne sapesse nulla, e che questo frataccio fosse il solo che il sapesse! Eh frataccio, frataccio, questa è una fola da te inventata in qualche momento che scherzavi soverchio col fiasco, o per dir meglio questo è il tuo solito usare ogni maniera d’argomenti per farti credere a forza un bugiardo scempiato; però si contenti la paternità tua reverendissima, ch’io metta questa a mazzo con quella del fallo da me commesso due volte intorno al barometro: e con quella del Lami cane e del Manfredi scimmiotto; e con quella delle quattromila gazzette inglesi; e con quella de’miei segreti per guerire il reumatismo; e con quella del mio odiare e calpestare le ceneri del Cocchi; e con quella de’brutti nomi da me dati ai re ed ai pontefici; e con quella del mio spinosismo; e con quella del mio profanare i sepolcri de’martiri; e con quella del mio consigliar le donne a non pensar mai alla vita eterna; e con quella del mio non ammettere spiritualità ed incorporeità; e con quella della mia ignoranza intorno alle zone; e con quella degli sgherri con le partigianacce mandatimi dal personaggio grave e venerando; e in somma con tant’altre scempiatissime tue bugie miste di somma ribalderia, che a riferirle tutte sarebbe quasi mestiero di ricopiare il Bue Pedagogo da un capo all’altro. Orsù, notiamo ancora una o due di queste scempiate bugie del nostro reverendissimo, e poi affrettiamoci a terminare un discorso, che come gli altri dovrebbe riuscirgli in sommo grado dilettevole quand’egli non abbia ancora totalmente soffocata quella sua meschina cosuccia chiamata coscienza. Don Luciano mio, a pag. 1107, voi dite che avete incontrato non è molto un valente uomo, il quale vi disse di me queste belle ciceroniane parole. « Niuno guarda in volto costui che non senta fastidio: niuno lo ricorda che nol condanni. Lo evitano, lo fuggono, ricusan d’udirne parlare; come mal augurio lo detestano. I famigliari lo scacciano; i popolani lo maledicono; i vicini lo temono; gli affini se ne vergognano. » Ma, padre mio, è egli poi vero che oltre all’essere sovente briaco, e che oltre all’esser sempre pazzo e sempre frenetico, voi non pratichiate neppur mai con altri che con persone briache, pazze e frenetiche? e chi può mai essere, se non un qualche briaco, un qualche pazzo, un qualche frenetico quel vostro amico valente uomo che v’ha detto di me queste belle ciceroniane parole? credete però voi difficile a me 1’indovinare che questo vostro immaginario valente uomo non è altri che quello stesso illustre uomo al quale già deste tanto incenso? Padre sì, il vostro valente uomo è quello stesso illustre uomo, di cui diceste che è pregno di dottrina, di sali, di vivacità, di lepidezze, e d’altre buone cose assai, e seguace di Menippo, e di Luciano, e di Demostene, e di Timoleonte, e soprammercato buon storico, buon antiquario, buon filosofo, e buonissimo teologo. Padre reverendissimo, oh se sapeste quanto affanno mi date facendo parlare di me i valenti uomini e gl’illustri uomini appunto come Cicerone parlava di Vatinio! Chi sa ch’io non ne muoja come Erasmo e Cardano, o come il minore Scaligero, o come Vossio, o come Salmasio, o come Pope, che secondo il vostro dire a pag. 1233 del Bue Pedagogo furono tutti ammazzati colla penna, taluno da un nimico vivo, e taluno da un nimico morto! Capperi! Sentirmi dire da voi che tutti mi condannano, mi evitano, mi fuggono, mi detestano, mi scacciano, mi maladicono, è cosa propio micidiale, e da farmi andare intorno pel bosco cercando un albero a cui impiccarmi come un secondo Bertoldo! Parlate però di me in istile ciceroniano a grado vostro, giacchè v’ho fatta la grande offesa di consi-gliarvi a non istampare quell’altre vostre Commedie filosofiche; e così assicurate a pag. 1224 che Voltaire ha descritto me quando descrisse un Petit Singe in sei versi; e un Polisson in sei altri versi; ma abbiate almeno avvertenza nel copiare que’suoi versi di non gliene storpiare alcuno, come faceste copiando quelli del Polisson, de’quali guastate il secondo e l’ultimo, grazie al vostro profondo sa-pere di lingua francese. Che direste però, don Luciano, se anch’io assicurassi che lo stesso Voltaire ha dipinto voi come autore di commedie filosofiche e di buoi pedagoghi? Guardate se m’appongo. « Le langage d’Agatopiste sent son misérable charlatan. Ce sont les pointes les plus basses et les plus dégoûtantes. Il n’est pas même plaisant pour le peuple, et il est insupportable aux gens de jugement, et d’honneur. On ne peut souffrir son arrogance, et les gens de bien détestent sa malignité » Vi pare che questo ritratto s’assomigli, reverendissimo? E non voglio dirvi da quale opera di Voltaire io l’abbia tolto per rifarmi della vostra inciviltà in non volermi dire a pag. 1227 da quale delle sue opere avevate rubati tutti que’grandi spropositi che diceste dell’inglese Shakespeare. Vedete come sono vendicativo! Anzi perchè la vendetta sia eguale all’offesa, dopo il primo ritratto da opporsi a quello del Petit Singe ve ne voglio dar un altro da opporsi al Polisson. Eccovelo. « Vous croiriez que ce vilain Agatopiste est un portefaix du Pont-noeuf. Mais laissons là sa choquante figure. Ce n’est pas sa faute s’il ressemble aux portefaix. Sourcilleux Littérateur, il poudre tous ses discours et tous ses écrits de facéties et de grec. On le dit ami du bon vin à cause de son visage parsemé de boutons rouges. Cela est croyable. On le dit propre à peupler une colonie, et négligeant son talent par des raisons socratiques. Cela est croyable aussi. On le dit bon homme et bon chretien: mai cela est il croyable? » Guardate ora, padre mio, se potete trovare nella bottega di monsù Guibert il libro di Voltaire da cui ho cavato questo vostro secondo ritratto. Se a voi non dispiacesse (come diceste a pag. 1151) vedermi scommettere i denti, ve ne scommetterei tosto uno colla gingiva che nol trovate. Ma che lo troviate o che non lo troviate, non mi stuzzicate mai più coi Petits Singes, e coi Polissons a rovistare i miei libri oltramontani, se non volete ch’io vi trovi di questa sorte di ritratti a centinaja. Intanto paragonate bene questi due coll’originale, e serbateveli che li dono tutti due, e son vostri. Viva don Luciano.