Zitiervorschlag: Cesare Frasponi (Hrsg.): "Lezione CCCXXVI", in: Il Filosofo alla Moda, Vol.6\326 (1730), S. 105-114, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.4754 [aufgerufen am: ].


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Lezione cccxxvi.

A Letterati sopra le Estensione dell’universo, e sopra la natura di Dio.

Zitat/Motto► Deum namque ire per omnes
Terrasque, trastusque maris, coelumque profundum.

Virg. Geor. IV. 221. ◀Zitat/Motto

Ebene 2► Ebene 3► Allgemeine Erzählung► Feci jeri sera una passeggiata fuori della Città, sino, che fui dalla Notte insensibilmente sorpreso. Mi applicai da principio a contemplare le varie beltà de’ colori, che compariscono verso l’Orizonte, dove trammonta il Sole. A [106] misura, che questi si estingueano, vi furono diverse stelle, ed alcuni Pianeti, che si ferono vedere l’uno dopo l’altro, fino che tutto il Firmamento ne diventò luminoso. La staggione dell’anno, ed i raggi di que’ luminari; che attraversavano l’Etere, davano rillievo al di lui biavo colore. La via lattea comparia nella sua più grande bianchezza. Per coronare la Scena si levò la Luna nel suo pieno, colla sua maestà fosca, e grave, e sé vedere all’occhio nuovo quadro della natura, carico delle più delicate ombre; i di cui splendori erano più dolci di quelli, che tramandava il Sole, mentre illuminava il nostro Emisfero.

Allorche mi occupavo a rimirare la Luna, che si moveva, con tutto il fasto, e pigliava il suo giro, frà le Costellazioni del Cielo, mi venne in mente un pensiero di quelli, che turbano sovente, ed inquietano le persone di naturale pensieroso, e serio. Lo stesso Davidde, alla vista di tale spettacolo, ne rimase sorpreso. Quoniam videbo Cælos tuos, [107] opera digitorum tuorum, Lunam, & stellas que tu fundasti. Quid est homo, quòd memor es ejus? aut fibius hominis quoniam vistas eum? Allorche pure rimiravo quell’esercito infinito di stelle, che brillavano a miei occhi, con quella innumerabile moltitudine de’ Pianeti, che giravano d’intorno a que’ vasti corpi, come d’intorno al loro centro. Allorche più innalzavo questa idea, e per ajutare la mia immaginazione venivo a suppore il, per altro, chimerico sistema di Soli, e di mondi sopra quello, che discuoprivo; e consideravo, che questo nuovo sistema era illuminato da un Firmamento ornato di altri Luminari, a lui superiori, collocati in sì enorme distanza, che compariscono agli abbitanti del primo, nella medesima grandezza di cui noi veggiamo le Stelle, allorche, dico, mi figuravo questa infinita adunanza di mondi non potei a meno di non sentire la mia picciolezza estrema, o più tosto il mio niente paragonato colla immensa estesa dell’universo. ◀Allgemeine Erzählung ◀Ebene 3

[108] Se il Sole (proseguivo a fingermi nell’accennato Sistema) che illumina questa parte della Creazione, e se tutti gli eserciti de’ Mondi Planetarj, che girano d’intorno a lui venissero ad essere annientiti, non vi parerebbe di più, che se si togliesse un grano di sabbia alla spiaggia del mare. Lo spazio, che occupano è di tanta picciolezza, in paragone dell’universo intero, che appena vi formerebbe un vacuo. La breccia riescirebbe impercettibile ad un’occhio, che potesse abbracciare tutto il giro della natura, e portare la sua vista da un capo all’altro di tutto il Creato, come un giorno può essere che abbiamo un tale senso, o che le Creature più di noi eccellenti, oggidì lo posseggano.

Col soccorso de’ nostri Teloscopj veggiamo quantità di Stelle, che altramente fuggono a nostri occhi: e quanto più i vetri, che visi pongono, sono esatti, tanto si accrescono le nostre scoperte; né si crede da alcuni impossibile vi siano delle Stelle, la luce delle quali non [109] sia per anco fino a noi pervenuta. Non vi è dubbio, che non sia chiuso dentro certi limiti l’universo; ma quando veniamo a considerare, ch’è l’opera d’un potere infinito, animato da una bontà infinita, che si esercita sopra uno spazio infinito, quai limiti la nostra immaginazione vi può prescrivere?

Per ritornare dunque alla mia prima idea, non seppi riflettere sopra me stesso, senza un segreto spavento, riputandomi indegno della minima occhiata di quell’essere supremo, che stà occupato al governo d’un sì vasto Impero. Temevo d’essere trascurato, e quasi perduto frà la immensità, che mi attorniava da tutte le parti; e frà la infinita varietà di creature, che riempiono tutte le vaste regioni dell’universo.

Ma per non soccombere al peso di sì mortificante idea volli ricercarne la vera cagione, e ritrovai, proveniva da stretti limiti, che diamo alla natura Divina. Noi non possiamo, némeno considerare molti oggetti alla volta. Se vogliamo avere cura di re-[110]golare certe cose fà di mestieri ne trascuriamo delle altre. Questa imperfezione, che nasce con noi, si ritrova più o meno in tutte le Creature, fieno quanto si voglia ellevate, appunto perche tutte sono limitate, e finite. La presenza d’ogni essere creato stà rinchiusa in un certo spazio, e per conseguenza le sue osservazioni si restringono ad un certo numero di Obbietti. La sfera dentro la quale tutte le creature si muovono, aggiscono, ed intendono, è di più, o meno grande ciconferenza, giusta il rango, che occupano nella Scala delle produzioni divine. Ma per quanto sia vasta questa sfera è sempre dentro i limiti. Quando per tanto veniamo a riflettere sopra la Natura Divina, siamo sì avvezzati a vedere in noi tale imperfezione, che l’attribuiamo in qualche maniera a quello, che n’è incapace. Ha bel dirci la Ragione, ch’egli è infinito, che sono infinti i suoi attributi, la nostra mente è sì debole, che non può a meno di non porre termini a tutto [111] ciò, che contempla, fino a tanto, che vi torna a riflettere, e dissipa que’ pregiudizj, che nostro malgrado vi s’innalzano, essendole naturali.

Essiglieremo in fatti dalle nostre menti sì fastidiosa idea, né temeremo, che l’Autore dell’universo ci abbandonasse a cagione della innumerabile moltitudine delle sue opere, e della infinita varietà egli obbietti, che pare incessantemente l’occupino, se da una parte fossimo ben persuasi, ch’ egli è da per tutto presente, e dall’altra, che sà e vede il tutto.

I. Non sapremmo, in primo luogo, dubitare della sua immensità. Egli penetra, muove, sostiene tutta la Fabbrica dell’Universo. Tutta la Creazione in generale, e ciascheduna delle sue parti è piena del suo essere. Non vi è niente di tutto ciò, che ha fatto, per quanto paja piccolo, o lontano, dove essenzialmente non abbiti. La di cui sostanza è nella sostanza di ciaschedun essere materiale, ed immateriale, e vi [112] si ritrova presente, in maniera sì intima, come è ogni essere a se medesimo. Sarebbe imperfezione per lui, se petesse trasferirsi da un luogo all’altro, o allontanarsi da alcuna delle sue creature, o da qualche parte di quello spazio, che si estende all’infinito. In somma per servirmi della espressione d’un antico Filosofo, è un essere, il di cui centro è da per tutto, e la di lui circonferenza in nissuna parte.

II. In secondo luogo possiede un’infinita Sapienza. E questo è un Attributo, che deriva necessariamente dall’altro. Non può non avvedersi di ciaschedun movimento, che si eccita nel mondo materiale, da lui sì essenzialmente penetrato, e d’ogni pensiero, che si elleva nel mondo intelletuale, a cui è sì intimamente unito. Molti Scrittori di morale hanno rimirato l’universo come il Tempio di dio, da lui fabbricato colle proprie mani, e riempiuto colla sua presenza. Ve ne sono altri, che riguardano lo spazio infinito come il ricettacolo, o più tosto come l’ab-[113]bitazione dell’Onnipotente, ma non si può formare un’idea più viva di questo infinito spazio, che intitolandolo, con un autroe moderno sensorio della Divintà. Gli uomini, e gli altri animali hanno i loro sensorioli, o piccioli sensori, per mezzo de’ quali, si accorgono della presenza, e dell’azione di que’ pochi obbietti, che li circondano. Le loro cognizioni, e le loro osservazioni si restringono fra’ termini assai ristretti; ma già che Dio non può non accorgersi, e conoscere tutto ciò, in cui risiede, lo spazio infinito da luogo ad una cognizione infinita, e serve per così dire, d’organo all’Onniscienza.

Se l’anima fosse separata dal corpo, e con una sola riflessione, si trasportasse di là da’ confini dell’universo, quando continuasse a passeggiare, colla medesima rapidità, nello spazio infinito, millioni, e millioni di anni, si ritroverebbe sempre frà le braccia del suo Creatore, e circondata da tutte le parti della immensità di Dio. Mentre siamo [114] nel corpo, non è meno con noi benche sia nascosto; e siamo assicurati, e dalla rivelazione, e dalla ragione, che non può essere lontano da noi, benche non veggiamo.

Quando si riflette a questi attributi, che intitoleremo co’ Francesi Onnipresenza, ed onniscienza svanisce ogni afflittivo pensiero. Dio non puole non riguardare tutto ciò che esiste, sovra tutte quelle Creature, che ben apprendono di non essere da lui trascurate, vede i loro più intimi pensieri, ed in particolare la inquietezza, che le turba in questa occasione. È impossibile, che niente fugga a’ suoi occhi; ne dobbiamo dubitare, che non riguardi, con occhio favorevole, tutti quelli, che tengono la vera strada di raccomandarsi alla sua benevolenza, e che mossi da profonda umiltà si giudicano indegni delle sue cure paterne, nè vi è da temere se non da chi troppo se ne lusinga. ◀Ebene 2 ◀Ebene 1