In tale Stato di cose resistè il Romano Popolo agli implacabili Tarquinj, che i Toscani, i Latini, ed altri Popoli eccitavano contro di Lui, ed al Lago Regillo il primo Dittatore Postumio uccide, e fa prigionieri 30 mila Latini. Videsi allora, qual differenza passi dal valore di soldati liberi a quello di schiavi, poiché libertà, e vittorie rapidamente si succedettero.
Ma questo fu un momento di Repubblica, giacchè cominciarono le gare civili fra i Nobili, ed i Plebei, e crebbero a segno, che questi ricusarono di andare alla Guerra contro de’ Volsci, e da ciò
Tutti i vicini voleano pur distruggere questo nascente Impero, ed egli non dovea la sua sussistenza che ai continui suoi sforzi per conservarsi. Per il che in Campo Marzio s’induri ogni Cittadino alle fatiche guerriere, ed ognuno fece del suo corpo una vittima alla Patria. La lotta, il corso, il cesto, ed ogni penosa fatica incallirono la sensibilità, sempre preparandosi ad una gloria avvenire virtus eglino non attaccavano le nostre idee, ma bensì l’idea della forza; e fu poscia in seguito chiamata virtù l’abitudine di esser utile alla società; e con tal nome a ragione chiamossi allora la forza, come la qualità più utile alla Patria in un governo guerriero.
Al principio del quarto secolo li Romani abbisognarono di Leggi, e quasi che non sapessero essere legislatori, mandarono a mendicare la greca Sapienza. Funesta fu tal spedizione, poichè i Decemviri eletti a raccoglierle, e promulgarle s’eressero in Tiranni. Ritornò la Plebe nel Monte sacro lasciando la vuota Città in preda alla Tirannia. Fu spento col dispotismo ogni resto di virtù; e fecesi allora quel vilissimo, ed iniquissimo giudicio fra gli Aricini, ed Ardeati. Questi confinan-
Appena la Plebe comincia a togliersi dalla depressione de’ Nobili potenti; aggiungendo al Tribun della Plebe il diritto di avere il Matrimonio comune co’ Nobili, che ricusavano gli soldati di andare alla guerra, onde vien loro fissato circa all’anno CCCXVIII. lo stipendio del danaro pubblico; ed il mestiere della guerra, che pria faceasi con non altra ricompensa che con quella che dà la gloria, cominciö a divenir venale.
Scendono i Galli dalle Alpi nel CCCLXIII.; distruggono Roma; e poco mancò, che per fin la di lei memoria non s’annientasse; e Manlio difensor del Campidoglio, troppo favorito dalla Plebe; viene gettato dalla rupe Tarpea; miseramente sfrantumato alle falde di quel Colle, ch’era monumento di sua gloria, e del suo supplicio.
Mentre; che sono incerti, e fluttuanti i confini dell’autorità della Plebe, e de’ Nobili, fannosi lunghe; continue; e sanguinose guerre coi Volsci, coi Galli Insubri, coi Tiburtini, Falisci, Tarauiniesi. Pure malgrado tanto esercizio di guerreggiare, al principio soltanto del quarto secolo si spinsero, l’armi Romane nella Magna Grecia, appresso a poco il Regno di Napoli d’oggidì. Malcontenta di nuovo la Plebe ritirasi per la terza volta nel Monte Gianicolo. Quale era mai la felicità di questo Popolo sempre impiegato in durissime guerre, e costretto ogni tratto a fuggire la tirannia de’ Nobili?
Ma successe un fenomeno nel Popolo Romano, ben raro a mio avviso; poichè il Popolo sempre turbolento, ed oppresso scosse a poco a poco il giogo della servitù; quindi nell’anno CCCLXXXIV. Set-
Ma breve fu il periodo di questa libertà, che anzi appena fu ella rapita dalle mani de’ Nobili, che ritornossi a perdere per non mai riacquistarla. Dal tempo de’ Gracchi Roma cadde sempre nel Dispotismo; e tanto a poco a poco v’inclinò, che ogni cosa dipendè dalla volontà di un solo. Misera, e luttuosa fu la sorte di questa Nazione nel tempo stesso della sua grandezza, mentre che Silla, Mario, Cesare, Pompeo se la disputavano. Le proscrizioni, le accuse segrete, ogni sorta di frode, e di tenebrosa crudeltà succedettero al fanatismo d’una disprezzata, e pericolosa virtù; e dopo le stragi di più di un secolo ebbe Roma sotto Augusto quella pace, che nacque dalla impotenza di esser libera. Ella fu una mancanza totale di moto. Or rivolgi, se ‘1 puoi senza fremere nell’intimo del cuore, il pensiero ai tempi de’ Tiberj, Neroni, Claudj, Domiziani, ed a tutta quella orrenda schie-
Lo spazio di cinque secoli impiegato in dure, e continove guerre non bastò per conquistare tutto quel Paese, che Italia chiamiamo oggidì, onde infinito sangue si sparse per conquistare una piccola pennisola. Quindi vennero le tre lunghe, e terribili guerre Puniche, per il che per ben sette secoli il Popolo Romano mai non cessò di guerreggiare da Romolo fino ad Augusto, se non eccettuato qualche intervallo di pace sotto di Numa. Quanto barbari fossero per tal cagione i costumi, quanto crudele fosse la sua superstizione, ce ne fa fede l’orrendo sacrificio a’ Dej d’Averno di un Uomo, e di una Donna delle Gallie, e di un Uomo, e di una Donna Greci fatto nel Foro Fabio, allorchè Annibale discese in Italia con portentosa prestezza. Duro, ed insopportabile era altresi il Romano Governo nelle Provincie, poichè i Galli Insubri, i Liguri, e le Spagne sempre furono ribellanti; e molte Città delle Spagne ridotte alla disperazione s’arsero con tutti i loro Cittadini. Il barbaro costume di uccidere i prigionieri proprio delle selvagge Nazioni fu adottato da’ Romani, e CCCL. Tarquiniesi de’ più illustri furono frustati, poscia uccisi nel Foro Fabio; ed altro rimarcabile esempio di ferocia si fu quello di CLXX. Matrone Romane, che tramarono di avvelenare i loro Mariti.
In vano cerchi fra quel Popolo di Guerrieri, e fra quelli Eroi o le arti, o le scienze, o i comodi della vita. Di ciò ne sia prova l’essersi veduta in Roma la prima moneta argentea l’anno CCCCXXXVIII., ed un mal organizzato Orologio fu esposto, ed ammirato in pubblico l’anno CCCCXC. Plinius. H.N. L.8. Cap. 60. ultim., e vi fu portato dal Console Valerio dopo la presa di Cattania. Nè conobbe questo Popolo trionfatore i piaceri della vita, che dopo la distruzione della sua grand’emula; e Siracusa, e Corinto, e le ricchezze del Re Attalo nuova foggia di vita gl’insegnarono. Allora fu odiata l’eguaglianza delle fortune, e nell’anno DCXX. il proporre che fece Tiberjo Gracco la Legge Agraria fu lo stesso, che il farsi trucidare. Ma malgrado il lusso, e la mollezza de’ costumi, che meritossi tante declamazioni, Roma molle, ed effeminata fu più grande, e conquistatrice di Roma parca, e frugale; e rispose alla stoica severità di Catone colle vittorie di più secoli, finchè giunse ad avere l’adulazione di que’ poco Geografi Scrittori, che la nominarono Regina dell’Universo.
In vista di questi fatti giudichisi, se veramente la grandezza fece i Romani felici. Il decidere tal questione sarebbe un’opera di una immensa erudizione, e fors’anco ripor dovrebbesi fralle impossibili. Poichè se tanto c’inganniamo ogni giorno nel decidere della felicità, od infelicità degli uomini in particolare, quanto più sarà dubbiosa la decisione intorno ad una intiera Nazione? Nel che io mi confermo pensando, che le Storie altro per lo più non ci forniscono che la cognizione degli universali avvenimenti; ma di condurci col pensiero nei Gabinetti della Politica, e nelle Capanne de’ Plebei; di esaminare la felicità, la morale, i costumi d’una Nazione, e i piccioli ordigni, con cui bene spesso movonsi gli’Imperj, ben di ra-A.
Oh quanti sbadigli, quanti stiramenti v’erano ieri mattina al Caffè! Gente che era stata tutta la notte al Ballo, gente annojata, e che voleva far credere d’essersi divertita, veniva in folla a ricercare qualche sorte di vita, e a ripigliare un po’ di vigore alla spossata sensibilità con una tazza del nostro eccellente Caffè. Il nostro Demetrio era tutto in facende, e di tratto in tratto mi slanciava qualche occhiata greca furbissima, perchè egli ed io eravamo i soli, che dopo aver ben Demetrio ed io, onde ebbimo tutto il campo di ragionare sulla scena, che ci era presentata.
Demetrio, come ne’ primi mesi dopo il suo arrivo da noi, un suo Amico gli propose di venire una sera al Ballo, ed ei curiosissimo di conoscere le usanze, ed i costumi de’ Paesi, accettò l’invito, e si preparò a godere d’un delizioso spettacolo. Venne la sera ed entrato appena nella sala del Ballo restò offeso dall’aria veramente malsana, che vi si respira, e che si manifesta e per la sensibile polve, che viene ad imbrattarvi il viso, le mani, gli occhi, e la bocca, e per quel sciagurato potpourry di odori di materie passate per gli ureterj, di arrosti, di traspirazione di corpi non tutti mondi, e di altre simili cose non certamente amene all’immaginazione. Appena, disse Demetrio, m’avvidi, che era pur forza, che alternativamente entrassero nel mio polmone tanti rifiuti d’altri uomini, appena mi sentii rosicar la pelle, impa-stare la bocca, e causticamente rodere gli occhi da tante materie eterogenee immiste in quell’aria, che mi trovai mal contento di esservi venuto. In fatti i Greci e gli abitatori tutti di quelle felici contrade sono avvez-Demetrio si trovò trasportato, gli parve un cattivo preludio per trovar ivi il piacere. Pure, rinvenuto Demetrio da questa prima scossa, girò l’occhio intorno per incontrarsi nei leggiadri Ichinguis (tale è il nome, che nell’Impero Ottomano dassi ai Ballerini) e non rincontrando altri che uomini e donne, vestiti tutti a lutto con nere gramaglie, s’accrebbe la sorpresa di lui sentendo, che non già ad un Funerale, ma ad un ballo cosi si costuma da noi di vestire, e che tutti gli uomini e donne che ivi vedeva erano tutti gli Ichinguis. Stette quasi per ritornarsene Demetrio a fare i fatti suoi, ma la curiosità di veder tutto lo trattenne ancora. Vide egli dunque molti Ichinguis, che passeggiando in costa ed inciampando in chi voleva passar loro frammezzo si davano ora la dritta, ora la sinistra con una serietà, colla quale si tratterebbe un affare di Stato, indi contenti d’aver ballato dieci Minuetti sbadigliavano soavemente sdraiati su una sedia. Vide Demetrio delle file, ossia delle lunghe strisce irregolari di Ichinguis grandi, piccoli, zoppi, gobbi, le quali si movevano e s’intrecciavano senza che alcuno potesse intenderne la simetria, e fra quelle due strisce ora cadeva un cappello, ora nel presentare sollecitamente la mano si dava un’ amoroso pugno, ora un buon piede impresso sul lembo della tonaca nera della donna gliela lacerava, sudavano frattanto, e si smaniavano, e facevan polvere molta gli Ichinguis, sin che giunti alla estremità della striscia protestavano di non po-Macone anche più fervidi ivi non potrebbero fare certamente le lor preghiere rivolte alla Mecca.
Almeno, soggiunse Demetrio, almeno avessi potuto vedere qualche oggetto, che mi ricompensasse di tutt’i mali che soffriva; ma le donne erano coperte il volto con una tela annerita, e con una melanconica barba di velo nero, gli uomini con una maschera, che aveva l’aspetto d’un cranio umano imbianchito; e chi russava sonoramente da una parte, chi spalancava eloquentissimamente la bocca dall’altra, annunziandoci il tedio mortale, in cui era assorto, chi svogliatamente andava errando con un perpetuo moto, sin tanto che la pazienza del buon Demetrio fu tutta esaurita, e se ne venne a casa sua più convalescente che sano, ripetendo quel detto d’Orazio: Sic me servavit Apollo?
Demetrio non v’incappa più. Oh uomini, si pose egli ad esclamare, oh uomini che volete avere la definizione di Animali ragionevoli; non basta a voi l’aver trovata nel mondo la febbre, la podagra, il mal di pietra, e l’infinita schiera degli altri mali innestati alla natura umana, che volete anche cambiare in tormenti veri e reali quelle azioni, che avete destinate alla vostra gioja! Oh uomini non sapete ancora, che l’indole d’ogni piacere è di essere di breve durata, e che protraendo per tutta la lunga notte d’inverno i vostri baccanali, quand’anche fossero tutti all’opposto di quello che pur sono, dovete ritornarvene carichi di noja! Oh uomini non sapete ancora, che l’uniformità e la madre del tedio, e che una variata successione di oggetti è la sola, che può tenervi l’animo in un dolce movimento, e che perciò condensando tutti i vostri tetrissimi, lunghissimi balli in un solo mese dell’anno, e ripigliandoli più volte la settimana dovrebbono stomacarvi, quand’anche fossero le Feste che davano le Fate ne’ Romanzi! Oh uomini . . . Demetrio, soggiunsi io, lasciate a parte le vostre Filippiche, lasciate lo stile del patriota vostro Demostene; ne patirebbero i vostri polmoni, e gli uomini non si cambieranno per tutto ciò. Gli uomini cercano il piacere, ma la maggior parte degli uomini crede di trovar piacere negli oggetti, dove si dice che vi si trovi, e quando non ve lo trovano, essi ne incolpano se stessi anzi che rivocare in dubbio l’autorità della moltitudine; onde per non aver la taccia di avere un guasto sentimento del buono, fingono di avere gioja, laddove adoperano sforzi infiniti per farla comparire. Cosi la moltitudine composta tutta di individui, che rispettano il parere della moltitudi-
Ebbene, soggiunse Demetrio, io lascio le mie declamazioni, lasciate voi le vostre riflessioni filosofiche, e se volete questa primavera nel mio Casino fuori di Città balliamo ogni quindici giorni per tre o quattr’ore. Avremo dodici Signore, avremo venti Signori. La Sala è comoda, l’aria salubre, a mezza notte il ballo sarà finito. Vi darò una cena dilicata e non pesante; ritornerete sani e allegri alle vostre Case, e vedrete che è miglior mestiero il passar bene il nostro tempo, ed il cercare i piaceri nostri di quello che non lo sia colle declamazioni, o colle ragioni il voler insegnare alla moltitudine, a passar bene i suoi giorni, cosa che non farà mai.
Cosi terminò la nostra conversazione. Entrò nella Bottega in quel punto un nuovo sonnacchioso, venuto dal ballo, il quale si disperava pensando di dovervi ritornare fra poche ore, quasi che dovesse perire lo Stato, s’egli vi avesse mancato; Demetrio. Frattanto ecco il seguito delle Osservazioni meteorologiche.
P.
La minore altezza del Termometro, ossia il maggior freddo effettivo, che in tutto questo tratto di tempo ho io osservato, fu nell’anno 1758. il giorno 27. Gennajo, nel quale di il Termometro a Mercurio, graduato colla scala del Signor di Reaumur abbassò a nove gradi sotto il termine del ghiaccio, e nel 1763. il 5. Gennajo parimenti a nove gradi sotto il freddo del ghiaccio, essendosi trovato otto giorni prima a 8 1/2 sotto il termine suddetto. Il maggior caldo effettivo, o la maggiore altezza dello Termometro da me veduta in tutto il già nominato tratto di tempo sino al di d’oggi, è stata ne’ giorni 8. 9. Agosto 1757. 29. Giugno 1760. e 22. Luglio 1762. a gradi 29. sopra la nulla.
Ne’ miei giornali trovo, che ordinariamente il maggior freddo in Milano accade tra li 21, Dicembre e la metà di Gennajo, ed il maggior caldo dalla fine di Giugno a tutto Luglio, ed alle volte anche fino alla metà di Agosto; dipendendo il più, o il meno del caldo, e del freddo dalla combinazione de’ venti colle piogge, o colle nebbie, o coll’asciuto.
Ho costantemente col Termometro osservato, che il vento di Mezzodì è sempre il più caldo, o il men freddo in tutto l’anno. Quello di Tramontana il più freddo nell’Inverno. Quello di Ponente il meno caldo nella State, massimamente di notte; ed il vento di Levante il più umido in tutto l’anno. Più volte ho io medesimo sperimentato sentendomi in un eguale stato di salute, tranquillità di moto, e di spirito; e per quanto nell’atto istesso venivami confermato dall’asserzione di altri