Numero XXXIV Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Angelika Hallegger Mitarbeiter Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 15.04.2019

o:mws.5468

Gozzi, Gasparo: Gli Osservatori veneti. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1762], 572-576 Gli Osservatori veneti 1 34 1761-06-30 Italien
Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Glück Fortuna Happiness Fortuna Bonheur Fortuna Italy 12.83333,42.83333

N° XXXIV.

A dì 30 giugno 1762.

Una bella e piacevole villetta mi fu a questi giorni apparecchiata dalla fantasia, mentre che ognuno uscito dalla città si gode l’aria serena e aperta della campagna. Egli è il vero che non posso ad ogni mia voglia riandarvi, nè rivederla; ma spesso ritornandovi colla mente, riveggio ancora quello che vidi una volta, e vado pascendomi delle sue delizie col pensiero, poichè non posso andarvi co’piedi del corpo. Ma acciocchè sia nota altrui la qualità di questa mia fantastica villetta, conviene ch’io entri in una certa breve narrazione necessaria per venire al fatto.

Che ognuno brami quello che non può aver facilmente, è cosa, notissima. A questi dì intrattenuto da diverse occupazioni, e spezialmente da questo benedetto calamaio, da cui ho tratte più parole di quante ne abbia mai profferite colla lingua in vita mia, lagnavami così fra me dicendo: “Ecco quante barchette si spiccano dalle rive. Io veggo parecchi burchielli molto ben ripieni di masserizie che se ne vanno; indizio che le persone, le quali vi sono dentro, intendono di fare una lunga dimora in campagna. Quanta allegrezza si manifesta in que’visi! come ne vanno lieti! Di qua a poche ore giungeranno cotanti giovani e quelle vezzose donne a quella cotanto desiderata libertà de’campi. Egli mi par già di vedere i castaldi, avvisati per lettera dell’andata de’padroni, affaccendati nell’aprire usci, finestre, rifar letta e spazzare stanze, acciocchè apparisca la diligenza loro; e mostrarsi desti e attenti, e dar ad intendere d’avere usata per tutto il tempo passato buona custodia all’abitazione. Spiegano all’aria le loro verdi fronde i cedri, gli aranci, e spargono soavissimo odore di fiori, e allettano gli occhi con la quantità delle frutte. Ed ecco che le barche approdano co’padroni, s’abbaruffano i servi a portare e a far portare le masserizie, si va a’giardini, si passeggia; si ritorna alle stanze, si giuoca, si scherza, si ride; si mangia, si dorme; e tutt’i pensieri sembrano fuggiti da’cervelli, nè altro si aggira intorno fuorchè contentezza e diletto.” Tutte queste cose parecchi giorni mi stettero fisse e salde nel capo, nè di là si poteano mai partire, dolendomi io grandemente che le mie faccende mi togliessero cotanto diletto, e quasi mi legassero quale schiavo alla catena. Per più farmi disperare, ebbi a tutti questi giorni da’cortesissimi spiriti i più grati inviti del mondo. “Vieni. Che vuoi far tu sempre penzoloni sopra que’tuoi mortiferi libri? Poi quando anch’egli ti toccasse il capriccio di leggere o scrivere, non credi tu che si possa? Molto maggiore e più largo campo ti darà di farlo quella solitudine, quel silenzio. E poi non sai tu che più utile si trova il cervello chi di tempo in tempo qualche sollazzo gli dà, che colui il quale lo tien teso sempre nelle applicazioni e tra le fatiche?” Io mi scusava, adduceva le mie ragioni, ringraziava, faceva inchini, e mi partiva di là dolendomi fra me amaramente di non poter accettare così belle cortesie; ed ingrognato e solo, rivolgeva per mente quel buon tempo ch’io perdeva. Ma il sonno mi compensò in parte de’passati rammarichi, e m’apparecchiò innanzi quello che scriverò qui sotto.

Sogno

Egli mi parea che, stillandomi il cervello continuamente in sui fogli, mi sentissi un grandissimo bollore nel capo, gli orecchi mi zufolavano dentro, avea, contra la usanza mia, le guance accese come di bragia; e quello che più mi diede dolore si fu che dinanzi agli occhi mi si calò a poco a poco una tela, la quale sempre più ingrossando, tanto si oppose alle cose di fuori, ch’io non vedea più punto, e andava brancolando, già divenuto cieco. Se mi dispiacesse questo fatto, ognuno lo può immaginare da sè senza ch’io lo dica. Nè mi valse punto a mia consolazione ch’io mi ricordassi che vi furono filosofi i quali per non essere sviati dalla vista, si accecarono da sè medesimi, nè che Omero fosse privo degli occhi. Rammentavami ancora che fra le genti del mondo le più liete appariscono quelle che non veggono, e diceva: “Chi è che più canti e suoni de’ciechi? Costoro quasi avendo tutt’i fatti del mondo per nulla, non hanno altro in mente che strumenti da suono e canzonette, e se ne vanno a coro per le vie, facendo con le loro accordate voci cerchio di persone intorno a sè; e se non facessero certi visacci e torcimenti di bocche, atteggiamenti loro particolari, appena ci sarebbe chi s’avvedesse che ciechi fossero. Nè è da dirsi che questa magagna impedisca loro l’andar dovunque vogliono. Si vanno diritti per tutte le vie, salgono i ponti con tanta baldanza, che il fatto loro è una sicurezza. E hanno in ciò questo vantaggio sopra i veggenti, che laddove questi camminano con saldi passi il giorno, e la notte poi vanno con sospetto, i ciechi all’incontro vanno con quella stessa sicurezza il dì che la notte, come quelli a’quali tanto è luce che ombra. E poi? Se non veggono molte belle cose che sono nel mondo, all’incontro non sono offesi dalla veduta di cotante sozze che sono forse il maggior numero.” Tutte queste cose mi s’aggiravano per l’animo; ma con tutto ciò non potea rimovere da me l’acerbità del dolore, nè la malinconia della mia cecità. Ma mentre che io stava fra cotanti e così dolorosi pensieri, udii una voce che disse: “Sta’su, infingardo, che fai tu? di che ti duoli? La tua cecità ti viene per tua cagione. Tu non sei cieco qual pensi; ma solamente sei tale, perchè ti sei a questi giorni dimenticato di me, e rivolgendo gli occhi altrove dalla mia faccia, hai perduto il lume che ti facea vedere. Innamorato de’giardini e delle delizie altrui, ti lasciasti uscire di mente ch’io ti avea fatto posseditore d’una bellissima campagna, e non curando punto quante volte fosti meco a vederla e a coltivarla, essa t’era già uscita di mente affatto. E che no, che tu non mi conosci? Parlami. Sai tu ch’io sia?” Mezzo fra lo spaurito e il consolato, levando su il viso come i ciechi fanno, le risposi: “Chiunque tu ti sia, io confesso che non ti conosco. Soave è la voce tua, e le tue parole dimostrano ch’io debba aver di te una gran conoscenza. Ma io ti prego bene che tu mi scusi, imperciocchè potrebb’essere che questo mio gravissimo dolore mi togliesse agli orecchi la famigliarità della tua voce, sicchè io più non la comprendessi bene. E però se tu fosti mai quella liberale verso di me che tu affermi, fa’che tu mi usi anche questa nuova grazia, e dimmi la tua condizione.” – “Io sono,” ripigliò ella, “poichè tu nol sai ancora, quella fedelissima compagna che tu avesti teco da tanti anni in qua, e colei principalmente che dimora teco sempre assidua pel corso di due anni. In breve, sono l’Osservazione. Sai tu ora chi io mi sia, o hai tu di bisogno che ti spieghi più a lungo le mie fattezze?” – “Oh! buona e diligente femmina, da me cotante volte veduta in faccia e udita a parlare, come si può egli dare ch’io mi sia cotanto dimenticato del fatto tuo, che non ti riconoscessi di subito? Ti prego, abbi compassione di me e perdonami; e se il puoi, aiutami e restituiscimi quella vista ch’io ho poco fa repentinamente perduta.” – “Ben sai che sì ch’io lo farò,” diss’ella, “e perchè tu non abbia da qui in poi a dolerti che mentre ognuno passa il tempo alla campagna, tu solo sei costretto a starti fra molte faccende, attendi.” Così detto, mi toccò gli occhi con la cima del dito mignolo, le cateratte svanirono, e vidi ch’io era in una bella e fiorita campagna, solitaria, piena di piante, d’arboscelli, d’alberi d’ogni qualità; scorrevano rivoli di acque finissime, si udivano canti di rosignuoli, e infine niuna cosa mancava di quelle che agli occhi e agli orecchi possano dar diletto. Pensi chi legge, s’io mi rallegrai a vedere tanta novità e così diverse bellezze, e sopra tutto mi piacque di rivedere la compagna mia, la quale con un ridente aspetto mi disse: “Che ti pare? Ora non è questo un bel luogo? Non è quello che tu vedesti tante volte meco? Questo è pur tuo. Io te ne feci pure il padrone, e tu noi vedevi più? che vuol dire?” Io mezzo impazzato giurava che non l’avea veduto mai più, e che quella era la prima volta. Ma poichè durò buona pezza fra noi la disputa del sì e del no, io le dissi finalmente: “Sia comunque tu voglia, io l’avrò veduto; ma ad ogni modo noi staremo qui in una troppo gran solitudine, poichè non veggo intorno anima che viva. Che farem noi qui così soli?” Rise allora la mia compagna, e disse: “Vedi tu? che tu non sei guarito bene ancora della tua cecità, e tu non sai la condizione del luogo da te posseduto. Sai tu che questi alberi, che tu vedi qui intorno, ad un mio cenno tutti si muovono, e, non altrimenti che si facesse ne’boschi della Tracia quell’antico e memorabile Orfeo, spiccate le loro barbe dal terreno, quando io il voglia, verranno innanzi a te, e tu gli potrai interrogare ed essi rispondere? Vuoi tu che ne veggiamo la prova?” – “Sì, ch’egli mi è tardi il vederla . . .” – “Or bene, adocchia alcuno fra questi alberi, e dimmi a cui tu vorresti favellare.” Mentre che in tal guisa si ragionava da noi, io udii un gran cinguettare, e standomi con l’orecchio attento m’accorsi ch’era nata quistione tra un garofano e un grappolo d’uva che non era maturo ancora. Diceva il primo: “Oh bella e gran cosa, che tu se’costà penzoloni e impiccato a quella tua vite! Vedi colore ch’è il tuo e quali strane fattezze! Vuoi tu dunque disputar meco di bellezza e di grazia? O tu se’cieco affatto, o tu non vuoi vedere queste mie garbate e così ben dipinte foglie, che, uscendo a foggia di corona, inghirlandano questo mio gentil gambo. Ma io non voglio però che ogni nostra speranza sia fondata nelle parole. Attendi che qualche galante giovine, o maschio o femmina, giunga in questo luogo, e vedrai a cui rivolgerà gli occhi. Io son certo che fra poco sarò spiccato di qua, e diverrò gratissimo ornamento del seno di una signora, laddove se ad alcuno venisse il capriccio di spiccare un granello di te, o pessimo agresto, son certo che mettendoti in bocca ti sputerebbe come veleno.” – “Oh sciocco,” ripigliava il grappolo! “A che ti affidi tu in quella tua leggiera e picciola bellezza che passerà tosto? Quando tu sarai colto, con tutto che ti verrà fatta molta custodia, e sarai messo in un’ampolla, acciocchè l’acqua con la sua freschezza sostenga quella tua debole vita, fra pochi giorni tu appassirai, e verrai gittato sulla strada con la spazzatura. Lasciami maturare, e io diverrò letizia delle mense de’signori, premuto in soavissimo liquore, e di giorno in giorno acqui-stando maggior forza, riscalderò gli animi de’convitati riempiendogli d’allegrezza e di festa; quando non sarà più di te memoria al mondo.” Poichè fu tra loro terminata la disputazione con mia grandissima maraviglia, che non avea più udito a parlare garofani o grappoli, vidi poco da lontano una quercia, e dissi alla mia compagna: “Io avrei caro di parlare a quella robusta pianta ch’io veggo colà.” – “Bene,” diss’ella, “attendi: O altissima quercia, vieni dinanzi a noi, e di’chi fosti.” Cominciarono a crollare i rami di quella, non altrimenti che quando gli percuote un mezzano fiato di vento, poscia piegandosi or di qua, or di là il tronco, finalmente la cominciò a muoversi e a camminare alla volta nostra e disse: “Io fui un tempo filosofo, ma ebbi in ogni cosa la fortuna contraria nel mondo a tale, che qualunque altro uomo, da me in fuori, si sarebbe disperato: ma io levando gli occhi al cielo, riconosceva quanta fosse la mia picciolezza, che sofferendo io moltissime percosse della fortuna, il mondo non perciò comportava male veruno; a poco a poco mi sentiva ad ingrandire l’animo, il quale volando quasi fuori di sè, non curava più cosa che al mondo fosse: laonde finalmente, quando invecchiai, indurandosi le mie carni, divenni quella che ora vedete fra queste altre piante, sopra le quali ora sollevo il capo, e sto signoreggiandole tutte intorno con la mia cima. Di che non insuperbisco io però punto, ma ringrazio solamente colui a cui piacque di concedermi quest’altezza.” – “Io non avrei creduto mai,” diceva fra me, “d’aver a udire a filosofar là quercia. Io ti ringrazio, o filosofo, vanne oggimai a’fatti tuoi.” Avute seco queste poche parole, ebbi appresso ragionamento con un pesco, con un melo, con una ficaia, e vidi che traevano la qualità delle frutta loro o fragili o durevoli, o buone o triste, da’costumi che aveano avuti nel mondo. Finalmente uscirono fuori di certi boschetti non so quali bestie domestiche, come dir pecore, conigli, cani, buoi e altri così fatti, i quali anch’essi parlavano; e già mi parea che la campagna mia non fosse meno maravigliosa e fruttifera di tutte le altre: quando la mia compagna rivoltasi a me, mi disse: “Oggimai tu non avrai più cagione di lagnarti ch’io non ti dessi facoltà e passatempi quanto hanno tutti gli altri e più, sicchè da qui in poi sta’lieto e ricordati del fatto mio.” Così detto, disparve, e io scosso dal sonno, mi trovai, secondo l’usanza mia, con la penna in mano, e mi diedi a scrivere quello che avea veduto.

N° XXXIV. A dì 30 giugno 1762. Una bella e piacevole villetta mi fu a questi giorni apparecchiata dalla fantasia, mentre che ognuno uscito dalla città si gode l’aria serena e aperta della campagna. Egli è il vero che non posso ad ogni mia voglia riandarvi, nè rivederla; ma spesso ritornandovi colla mente, riveggio ancora quello che vidi una volta, e vado pascendomi delle sue delizie col pensiero, poichè non posso andarvi co’piedi del corpo. Ma acciocchè sia nota altrui la qualità di questa mia fantastica villetta, conviene ch’io entri in una certa breve narrazione necessaria per venire al fatto. Che ognuno brami quello che non può aver facilmente, è cosa, notissima. A questi dì intrattenuto da diverse occupazioni, e spezialmente da questo benedetto calamaio, da cui ho tratte più parole di quante ne abbia mai profferite colla lingua in vita mia, lagnavami così fra me dicendo: “Ecco quante barchette si spiccano dalle rive. Io veggo parecchi burchielli molto ben ripieni di masserizie che se ne vanno; indizio che le persone, le quali vi sono dentro, intendono di fare una lunga dimora in campagna. Quanta allegrezza si manifesta in que’visi! come ne vanno lieti! Di qua a poche ore giungeranno cotanti giovani e quelle vezzose donne a quella cotanto desiderata libertà de’campi. Egli mi par già di vedere i castaldi, avvisati per lettera dell’andata de’padroni, affaccendati nell’aprire usci, finestre, rifar letta e spazzare stanze, acciocchè apparisca la diligenza loro; e mostrarsi desti e attenti, e dar ad intendere d’avere usata per tutto il tempo passato buona custodia all’abitazione. Spiegano all’aria le loro verdi fronde i cedri, gli aranci, e spargono soavissimo odore di fiori, e allettano gli occhi con la quantità delle frutte. Ed ecco che le barche approdano co’padroni, s’abbaruffano i servi a portare e a far portare le masserizie, si va a’giardini, si passeggia; si ritorna alle stanze, si giuoca, si scherza, si ride; si mangia, si dorme; e tutt’i pensieri sembrano fuggiti da’cervelli, nè altro si aggira intorno fuorchè contentezza e diletto.” Tutte queste cose parecchi giorni mi stettero fisse e salde nel capo, nè di là si poteano mai partire, dolendomi io grandemente che le mie faccende mi togliessero cotanto diletto, e quasi mi legassero quale schiavo alla catena. Per più farmi disperare, ebbi a tutti questi giorni da’cortesissimi spiriti i più grati inviti del mondo. “Vieni. Che vuoi far tu sempre penzoloni sopra que’tuoi mortiferi libri? Poi quando anch’egli ti toccasse il capriccio di leggere o scrivere, non credi tu che si possa? Molto maggiore e più largo campo ti darà di farlo quella solitudine, quel silenzio. E poi non sai tu che più utile si trova il cervello chi di tempo in tempo qualche sollazzo gli dà, che colui il quale lo tien teso sempre nelle applicazioni e tra le fatiche?” Io mi scusava, adduceva le mie ragioni, ringraziava, faceva inchini, e mi partiva di là dolendomi fra me amaramente di non poter accettare così belle cortesie; ed ingrognato e solo, rivolgeva per mente quel buon tempo ch’io perdeva. Ma il sonno mi compensò in parte de’passati rammarichi, e m’apparecchiò innanzi quello che scriverò qui sotto. Sogno Egli mi parea che, stillandomi il cervello continuamente in sui fogli, mi sentissi un grandissimo bollore nel capo, gli orecchi mi zufolavano dentro, avea, contra la usanza mia, le guance accese come di bragia; e quello che più mi diede dolore si fu che dinanzi agli occhi mi si calò a poco a poco una tela, la quale sempre più ingrossando, tanto si oppose alle cose di fuori, ch’io non vedea più punto, e andava brancolando, già divenuto cieco. Se mi dispiacesse questo fatto, ognuno lo può immaginare da sè senza ch’io lo dica. Nè mi valse punto a mia consolazione ch’io mi ricordassi che vi furono filosofi i quali per non essere sviati dalla vista, si accecarono da sè medesimi, nè che Omero fosse privo degli occhi. Rammentavami ancora che fra le genti del mondo le più liete appariscono quelle che non veggono, e diceva: “Chi è che più canti e suoni de’ciechi? Costoro quasi avendo tutt’i fatti del mondo per nulla, non hanno altro in mente che strumenti da suono e canzonette, e se ne vanno a coro per le vie, facendo con le loro accordate voci cerchio di persone intorno a sè; e se non facessero certi visacci e torcimenti di bocche, atteggiamenti loro particolari, appena ci sarebbe chi s’avvedesse che ciechi fossero. Nè è da dirsi che questa magagna impedisca loro l’andar dovunque vogliono. Si vanno diritti per tutte le vie, salgono i ponti con tanta baldanza, che il fatto loro è una sicurezza. E hanno in ciò questo vantaggio sopra i veggenti, che laddove questi camminano con saldi passi il giorno, e la notte poi vanno con sospetto, i ciechi all’incontro vanno con quella stessa sicurezza il dì che la notte, come quelli a’quali tanto è luce che ombra. E poi? Se non veggono molte belle cose che sono nel mondo, all’incontro non sono offesi dalla veduta di cotante sozze che sono forse il maggior numero.” Tutte queste cose mi s’aggiravano per l’animo; ma con tutto ciò non potea rimovere da me l’acerbità del dolore, nè la malinconia della mia cecità. Ma mentre che io stava fra cotanti e così dolorosi pensieri, udii una voce che disse: “Sta’su, infingardo, che fai tu? di che ti duoli? La tua cecità ti viene per tua cagione. Tu non sei cieco qual pensi; ma solamente sei tale, perchè ti sei a questi giorni dimenticato di me, e rivolgendo gli occhi altrove dalla mia faccia, hai perduto il lume che ti facea vedere. Innamorato de’giardini e delle delizie altrui, ti lasciasti uscire di mente ch’io ti avea fatto posseditore d’una bellissima campagna, e non curando punto quante volte fosti meco a vederla e a coltivarla, essa t’era già uscita di mente affatto. E che no, che tu non mi conosci? Parlami. Sai tu ch’io sia?” Mezzo fra lo spaurito e il consolato, levando su il viso come i ciechi fanno, le risposi: “Chiunque tu ti sia, io confesso che non ti conosco. Soave è la voce tua, e le tue parole dimostrano ch’io debba aver di te una gran conoscenza. Ma io ti prego bene che tu mi scusi, imperciocchè potrebb’essere che questo mio gravissimo dolore mi togliesse agli orecchi la famigliarità della tua voce, sicchè io più non la comprendessi bene. E però se tu fosti mai quella liberale verso di me che tu affermi, fa’che tu mi usi anche questa nuova grazia, e dimmi la tua condizione.” – “Io sono,” ripigliò ella, “poichè tu nol sai ancora, quella fedelissima compagna che tu avesti teco da tanti anni in qua, e colei principalmente che dimora teco sempre assidua pel corso di due anni. In breve, sono l’Osservazione. Sai tu ora chi io mi sia, o hai tu di bisogno che ti spieghi più a lungo le mie fattezze?” – “Oh! buona e diligente femmina, da me cotante volte veduta in faccia e udita a parlare, come si può egli dare ch’io mi sia cotanto dimenticato del fatto tuo, che non ti riconoscessi di subito? Ti prego, abbi compassione di me e perdonami; e se il puoi, aiutami e restituiscimi quella vista ch’io ho poco fa repentinamente perduta.” – “Ben sai che sì ch’io lo farò,” diss’ella, “e perchè tu non abbia da qui in poi a dolerti che mentre ognuno passa il tempo alla campagna, tu solo sei costretto a starti fra molte faccende, attendi.” Così detto, mi toccò gli occhi con la cima del dito mignolo, le cateratte svanirono, e vidi ch’io era in una bella e fiorita campagna, solitaria, piena di piante, d’arboscelli, d’alberi d’ogni qualità; scorrevano rivoli di acque finissime, si udivano canti di rosignuoli, e infine niuna cosa mancava di quelle che agli occhi e agli orecchi possano dar diletto. Pensi chi legge, s’io mi rallegrai a vedere tanta novità e così diverse bellezze, e sopra tutto mi piacque di rivedere la compagna mia, la quale con un ridente aspetto mi disse: “Che ti pare? Ora non è questo un bel luogo? Non è quello che tu vedesti tante volte meco? Questo è pur tuo. Io te ne feci pure il padrone, e tu noi vedevi più? che vuol dire?” Io mezzo impazzato giurava che non l’avea veduto mai più, e che quella era la prima volta. Ma poichè durò buona pezza fra noi la disputa del sì e del no, io le dissi finalmente: “Sia comunque tu voglia, io l’avrò veduto; ma ad ogni modo noi staremo qui in una troppo gran solitudine, poichè non veggo intorno anima che viva. Che farem noi qui così soli?” Rise allora la mia compagna, e disse: “Vedi tu? che tu non sei guarito bene ancora della tua cecità, e tu non sai la condizione del luogo da te posseduto. Sai tu che questi alberi, che tu vedi qui intorno, ad un mio cenno tutti si muovono, e, non altrimenti che si facesse ne’boschi della Tracia quell’antico e memorabile Orfeo, spiccate le loro barbe dal terreno, quando io il voglia, verranno innanzi a te, e tu gli potrai interrogare ed essi rispondere? Vuoi tu che ne veggiamo la prova?” – “Sì, ch’egli mi è tardi il vederla . . .” – “Or bene, adocchia alcuno fra questi alberi, e dimmi a cui tu vorresti favellare.” Mentre che in tal guisa si ragionava da noi, io udii un gran cinguettare, e standomi con l’orecchio attento m’accorsi ch’era nata quistione tra un garofano e un grappolo d’uva che non era maturo ancora. Diceva il primo: “Oh bella e gran cosa, che tu se’costà penzoloni e impiccato a quella tua vite! Vedi colore ch’è il tuo e quali strane fattezze! Vuoi tu dunque disputar meco di bellezza e di grazia? O tu se’cieco affatto, o tu non vuoi vedere queste mie garbate e così ben dipinte foglie, che, uscendo a foggia di corona, inghirlandano questo mio gentil gambo. Ma io non voglio però che ogni nostra speranza sia fondata nelle parole. Attendi che qualche galante giovine, o maschio o femmina, giunga in questo luogo, e vedrai a cui rivolgerà gli occhi. Io son certo che fra poco sarò spiccato di qua, e diverrò gratissimo ornamento del seno di una signora, laddove se ad alcuno venisse il capriccio di spiccare un granello di te, o pessimo agresto, son certo che mettendoti in bocca ti sputerebbe come veleno.” – “Oh sciocco,” ripigliava il grappolo! “A che ti affidi tu in quella tua leggiera e picciola bellezza che passerà tosto? Quando tu sarai colto, con tutto che ti verrà fatta molta custodia, e sarai messo in un’ampolla, acciocchè l’acqua con la sua freschezza sostenga quella tua debole vita, fra pochi giorni tu appassirai, e verrai gittato sulla strada con la spazzatura. Lasciami maturare, e io diverrò letizia delle mense de’signori, premuto in soavissimo liquore, e di giorno in giorno acqui-stando maggior forza, riscalderò gli animi de’convitati riempiendogli d’allegrezza e di festa; quando non sarà più di te memoria al mondo.” Poichè fu tra loro terminata la disputazione con mia grandissima maraviglia, che non avea più udito a parlare garofani o grappoli, vidi poco da lontano una quercia, e dissi alla mia compagna: “Io avrei caro di parlare a quella robusta pianta ch’io veggo colà.” – “Bene,” diss’ella, “attendi: O altissima quercia, vieni dinanzi a noi, e di’chi fosti.” Cominciarono a crollare i rami di quella, non altrimenti che quando gli percuote un mezzano fiato di vento, poscia piegandosi or di qua, or di là il tronco, finalmente la cominciò a muoversi e a camminare alla volta nostra e disse: “Io fui un tempo filosofo, ma ebbi in ogni cosa la fortuna contraria nel mondo a tale, che qualunque altro uomo, da me in fuori, si sarebbe disperato: ma io levando gli occhi al cielo, riconosceva quanta fosse la mia picciolezza, che sofferendo io moltissime percosse della fortuna, il mondo non perciò comportava male veruno; a poco a poco mi sentiva ad ingrandire l’animo, il quale volando quasi fuori di sè, non curava più cosa che al mondo fosse: laonde finalmente, quando invecchiai, indurandosi le mie carni, divenni quella che ora vedete fra queste altre piante, sopra le quali ora sollevo il capo, e sto signoreggiandole tutte intorno con la mia cima. Di che non insuperbisco io però punto, ma ringrazio solamente colui a cui piacque di concedermi quest’altezza.” – “Io non avrei creduto mai,” diceva fra me, “d’aver a udire a filosofar là quercia. Io ti ringrazio, o filosofo, vanne oggimai a’fatti tuoi.” Avute seco queste poche parole, ebbi appresso ragionamento con un pesco, con un melo, con una ficaia, e vidi che traevano la qualità delle frutta loro o fragili o durevoli, o buone o triste, da’costumi che aveano avuti nel mondo. Finalmente uscirono fuori di certi boschetti non so quali bestie domestiche, come dir pecore, conigli, cani, buoi e altri così fatti, i quali anch’essi parlavano; e già mi parea che la campagna mia non fosse meno maravigliosa e fruttifera di tutte le altre: quando la mia compagna rivoltasi a me, mi disse: “Oggimai tu non avrai più cagione di lagnarti ch’io non ti dessi facoltà e passatempi quanto hanno tutti gli altri e più, sicchè da qui in poi sta’lieto e ricordati del fatto mio.” Così detto, disparve, e io scosso dal sonno, mi trovai, secondo l’usanza mia, con la penna in mano, e mi diedi a scrivere quello che avea veduto.