Numero V Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Angelika Hallegger Mitarbeiter Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 15.04.2019

o:mws.5439

Gozzi, Gasparo: Gli Osservatori veneti. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1762], 454-458 Gli Osservatori veneti 1 05 1761-02-17 Italien
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No V.

A dì 17 febbraio 1762.

E segni esterni ch’ei ne sarebbe venuto a capo con facilissima prova. Ed ecco fra tanto che si spiccano dalla parte dell’Oriuolo due maschere femmine, con indicibili ornamenti abbigliate, con un’acconciatura di capo che non parea umana, con li vestiti d’un drappo di vario colore, i quali con le bene adattate pieghe dall’andatura aiutate, e con lo strascico tortuosamente aggirato, traevano a sè gli occhi di molti; e comecchè senza veruna guida fossero, aveano dietro infinito codazzo di genti. L’aria e il portamento loro inchinava al licenziosetto, e oltre al non essere ben chiuse fino al mento colle finissime tele che usavano intorno al collo le femmine, accennavano ora a Gianni, ora a Pagolo, e parea che di sè stesse pompa facessero e si glorificassero di cotanti corteggiatori. Rise incontanente Filantropo di tal veduta, e disse: “Queste due, comecchè io non sappia il nome loro, io indovino però che le non sono nemiche degli uomini, e tutti quegli attucci e quel vestire scollacciato mi fanno comprendere come la pensano”; e accostatosi all’amico, gli disse piano: “Vedi tu come si coprono la faccia, e non guardano dell’andare scoperte altrove? A me pare, comecchè le vadano coperte il viso, di conoscere benissimo quel ch’elle sieno.” L’amico, che forse anch’egli era tratto a tal ragia, gli diede ragione con un sorriso. Poi si volse Filantropo ad un’altra maschera che vestita era da villanella friulana, la quale sfolgorava tutta d’oro sopra quelle gonnelle vili per arte; e ammirava quel bel pannolino di bucato ch’ella avea in capo, e que’ciondolini d’oro e di perle che avea agli orecchi, con quelle preziose collane che vagamente cadevano e penzigliavano sul candido seno, e con quelle pietre, delle più rare, che le guernivano le dita. Comecchè la fosse così riccamente ornata, conobbela benissimo Filantropo che la rappresentava una femminetta di contado, e disse: “Io darei pure ragione a’poeti, quando lodano la vita villereccia, se la fosse a questo modo; ma la è bene al contrario: perocchè le villanelle non hanno quelle lucide carni, e appena conoscono quell’oro di cui ha co-stei tale abbondanza”. – “Bene,” disse l’amico, “tu vedi che costei rappresenta una contadina; ma facendo professione di conoscere l’interno delle persone, che conosci tu in essa?” – “Io veggo,” ripigliò Filantropo, “che costei ha una grandissima conoscenza di sè medesima, e va a questo modo mascherata, perchè quel vestito quadra egregiamente al suo corpo. Vedi tu quelle bracciotte tonde e piene, quelle due quadrate spalle, e quella sua vita che male starebbe rinchiusa in vestimenti più ristretti? Ella lo sa, e col vestito da villanella scambia una certa sua goffaggine in garbo e grazia. E comecchè non confesserebbe mai altrui il suo difetto, pure in sua coscienza lo comprende, e quasi per ischerzo elegge sopra tutti gli altri quel vestito che le si confà. Per cagione di quello si comportano que’piedi un po’troppo grandicelli, quelle mani piuttosto grosse, quei due omeri che spingono allo in fuori la gonnelletta ch’ella ha indosso.” Rimase attonito l’amico che uno straniero fosse cotanto penetrativo, e tutto il giorno ascoltò volentieri le sue riflessioni, che molte furono e diverse, e sì vere, che appariva lui conoscere benissimo anche agli atti e alle qualità de’vestiti l’umore degli uomini e delle femmine che andavano intorno. Ma perchè non paia ch’io voglia andare per tutti i particolari, basterà che ogni uomo vada alla Piazza con tale intenzione, e da sè medesimo potrà quivi nelle varie figure e tramutazioni comprendere che non si può mai l’uomo tanto mascherare, che l’umor suo non isfugga fuori da tutti i lati, e non discopra, almeno in parte, il carattere di chi più crede di nascondersi agli occhi degli altri.

pronostico del Velluto intorno a’teatri

Oh chiunque ha orecchi, gli rizzi al suono delle mie parole, e oda quello che dico, mosso dallo spirito di Talía, la quale con altissimo suono parlò prima agli orecchi miei, e disse:

Lèvati, o pigro, da questo letto, ed esci della tua stanza, lasciando per ora il calamaio e la carta; trascorri per le vie e per le piazze annunziando a’popoli quello che avverrà intorno a’teatri nell’autunno del 1762 e nel carnovale del 1763.

Furono prima ispirati ingegni da me e dalle sorelle mie, acciocchè con le teatrali imitazioni alleggerissero de’pensieri le genti. Piacque l’usanza, concorsero i popoli, e dolcissime risa uscivano dalla chiusa de’denti agli spettatori.

Erano gli Zanni ed i Magnifici in pregio, i quali caricando i caratteri delle genti, ogni costume vestivano di ridicolosità; e tempo fu che l’Italia si godeva universalmente questo sollazzo.

Generò sazietà il continuo vederne; ed essendo obbligazione dell’altissimo Parnaso il cercare la varietà, acciocchè gli uomini abbiano diversificati i loro passatempi, si risvegliò l’antichissima usanza delle tragedie, dalle quali ricevette la Grecia cotanto onore.

Ma poco tempo giovò, perchè i molti teatri accettando le tragiche tappezzerie ed i magnifici apparati, tutti si empierono di sonori versi e di lagrimevoli avvenimenti; di che succedette che in un anno furono gli spettatori annoiati.

Inspirarono allora le Muse le commedie di carattere; ed eccoti che nel corso di pochi anni tutti i teatri si empierono di questo genere di commedia, e fummo alla noia di prima.

Ci convenne allora essere insieme a consiglio sulle cime dell’Elicona; e lasciate stare le commedie e le tragedie, demmo principio alle tragicommedie a nostro dispetto, perchè hanno un certo che del bastardo; ma la necessità del variare ci trasse a forza in questa nuova invenzione.

Introducemmo in esse i vestimenti turcheschi, i chinesi, i tartari, che al primo vedere parvero belli; ma a poco a poco gli strioni gli usarono tanto, che nella guardaroba loro non v’avea più un vestito all’italiana; e sì andarono attorno continuamente, che non si potea più patire di vederne.

Non sapendo oggimai sul Parnaso qual altra cosa più inventare, destammo un capriccioso ingegno a ridurre in rappresentazione da scena quelle favole che si narrano a’fanciulli; ed egli seguì la nostra volontà per modo, che gli spettatori rimasero di tal novità grandemente appagati.

Ohimè! ohimè! grida a’popoli della terra incontanente, che voce è salita quassù, che da ogni lato si apparecchiano cervelli a voler favole comporre e rappresentare?

Guai agli spettatori ed a’recitanti se da ogni lato sulle scene compariranno tali rappresentazioni! In breve saranno dalla continuazione e dalla frequenza delle favole nauseati i popoli veditori, e noi saremo in capo ad un anno obbligate a dicervellarci di nuovo a ritrovare novità, per togliere la molestia dagli animi degli ascoltanti.

Guai a’recitanti, poichè per gareggiare teatro con teatro, saranno obbligati a fare gravissime spese di trasformazioni e apparenze; e la maggiore squisitezza e sottigliezza richiederà sempre dispendio più grande.

La mano di Giove scaglia-folgori entrerà nella cassetta dell’entrata, e tutti i danari disperderà in trovatori di ordigni per far volare uomini, spaccare montagne, far di uomini alberi e fiumi. Entrerà la mano di Giove nella cassetta, entrerà e sarà inutile per li recitanti la concorrenza de’popoli.

Verrà il legnaiuolo, e dirà: Ecco la polizza mia; assi e travicelli ho tagliati, chiodi comperati, lavorato dì e notte io e i compagni miei. E la mano di Giove caverà della cassetta, e salderà la polizza al legnaiuolo.

Verrà il pittore, e dirà: Ecco la polizza mia. Frondeggiano quegl’imitati alberi per mia cagione. E quel cartone sembra sasso altrui per averlo io colorito. Per opera mia vestito è quel monte di alberi ed erbe. E la mano di Giove caverà della cassetta, e salderà la polizza al pittore.

Uomini traportati da diavoli in aria; giganti, dragoni, centauri e chimere metteranno innanzi agli occhi le polizze, e saranno saldati.

Grida, grida, o Velluto, guai agli spettatori e guai ai recitanti. I primi per la continuazione s’annoieranno, i secondi spenderanno gli occhi della testa, empiendo di loro lagrime la cassetta.

Se vogliono l’aiuto nostro, ascoltino i consigli delle Muse.

Imitino le varietà di natura, la quale agli occhi de’riguardanti, per li suoi diversificati oggetti, è sì cara.

S’alzano di qua le altissime montagne con la sommità loro fino alle stelle, di là le profonde valli s’aprono; e presentano canne ed erbe grosse. Dall’un lato vedi l’ampio mare che sembra non avere confini, e dall’altro la terra, sopra il cui dorso un’indicibile diversità d’oggetti si vede.

Tali sieno i teatri, a’quali la sola varietà chiama gli spettatori. Ogni altro pensiero è vano a chi quella non usa.

Destatevi, o nobili ingegni, e rifrustando tutti que’generi di rappresentazioni teatrali che noi da lungo tempo in qua vi abbiamo insegnate, ricreate gli animi ora con l’uno ed ora con l’altro, imbandendo la mensa vostra con cibi diversi, che talora anche grossolani piacciono, purchè non sieno sempre quelli.

Escano una sera gli Zanni e i Magnifici con novelle invenzioni. Un’altra i sublimi fatti e i tragici sieno rappresentati; che se gran moltitudine di gente non vi concorre, acquisteranno i recitanti concetto, o con quel breve cambiamento aguzzeranno vie più la voglia del ridere nelle persone.

Mescolinsi le commedie di carattere, e dietro a quelle le tragicommedie si mostrino sulla scena: nè sieno perciò sbandite le favole, che con la loro maraviglia intrattengono molto bene i circostanti.

Ricordinsi gli strioni che quattro teatri sono in Venezia da commedia, e che facendosi in essi una rappresentazione ogni sera pel corso di cinque mesi, se quella sarà di un genere solo, quattro volte in una sera sarà raddoppiata, e quattrocento e più favole o tragedie, o tragicommedie si vedranno tutte di un genere fra l’autunno ed il carnovale.

Usciranno dalle profonde cavità de’polmoni i tediosi sbadigli, e l’orlo delle palpebre degli spettatori, divenuto pesante, si calerà allo ingiù, e diranno gli spettatori: Qual sonno è questo? Cerchiamo in ogni luogo il passatempo fuorchè ne’teatri. Sbandito è di là il passatempo, e più non vi si ritrova.

Allora l’uscio del teatro sarà pieno di ragnateli. Inutili saranno le mani de’portinai quivi mascherati per ricevere i danari. Poche file di scanni attenderanno i radi spettatori, e la voce de’recitanti risonerà ne’vôti palchetti, a guisa d’eco che dalle caverne de’monti risponde.

Solitudine e diserto saranno i teatri, e sulla scena gli attori pronunzieranno senza vigore, le mani caderanno loro sull’anche; mancherà loro la memoria, se diranno parole imparate, e la parola, se favelleranno all’improvviso.

Avranno sempre davanti agli occhi l’orrore della solitudine; e faranno loro fastidio fino i lumicini che avranno innanzi, i quali daranno anch’essi poco splendore.

Va’, o Velluto, va’; e ricorda con altissima voce quanto ti dice Talía, a’poeti e a coloro che reciteranno nell’autunno dell’anno 1762 e nel carnovale del 1763, e fa’quanto puoi acciocchè sia prestata fede alle tue parole.

E io allora mi levai dal letto, e con quella voce che potei, profferii quanto da Talía mi fu detto.

Osservazione sopra quanto è fino a qui stato scritto.

Invasato dallo spirito di Talía, e quasi contra mia voglia, feci il ragionamento dettato qui sopra. Feci poi intorno ad esso alcune considerazioni, e ritrovai che Talía non diceva menzogna. Appena un ingegno ritrova cosa ch’è grata al pubblico, tutti gli altri lo seguono: e non dirò se il primo venga superato, ma dico solo, che assalendo sempre gli occhi e gli orecchi della gente con un genere solo di rappresentazioni, si consumano in cinque mesi tutti quegli argomenti che servirebbero per venti anni, chi mescolasse con discreta misura i vari generi delle cose teatrali. Questi non sono così scarsi, che non possano essere sufficienti a produrre quella varietà che si desidera. Ed oltre a ciò se n’avrebbe un altro vantaggio, ch’ogni trovatore di poesie si eserciterebbe in quello che fosse meglio adattato al suo ingegno; laddove è costretto a balzare, secondo la moda, in cose che non sono convenienti alla capacità sua. Ma che dico io più oltre? Abbastanza si è fatta intendere Talía, senza ch’io prolunghi altro le mie ciance.

No V. A dì 17 febbraio 1762. E segni esterni ch’ei ne sarebbe venuto a capo con facilissima prova. Ed ecco fra tanto che si spiccano dalla parte dell’Oriuolo due maschere femmine, con indicibili ornamenti abbigliate, con un’acconciatura di capo che non parea umana, con li vestiti d’un drappo di vario colore, i quali con le bene adattate pieghe dall’andatura aiutate, e con lo strascico tortuosamente aggirato, traevano a sè gli occhi di molti; e comecchè senza veruna guida fossero, aveano dietro infinito codazzo di genti. L’aria e il portamento loro inchinava al licenziosetto, e oltre al non essere ben chiuse fino al mento colle finissime tele che usavano intorno al collo le femmine, accennavano ora a Gianni, ora a Pagolo, e parea che di sè stesse pompa facessero e si glorificassero di cotanti corteggiatori. Rise incontanente Filantropo di tal veduta, e disse: “Queste due, comecchè io non sappia il nome loro, io indovino però che le non sono nemiche degli uomini, e tutti quegli attucci e quel vestire scollacciato mi fanno comprendere come la pensano”; e accostatosi all’amico, gli disse piano: “Vedi tu come si coprono la faccia, e non guardano dell’andare scoperte altrove? A me pare, comecchè le vadano coperte il viso, di conoscere benissimo quel ch’elle sieno.” L’amico, che forse anch’egli era tratto a tal ragia, gli diede ragione con un sorriso. Poi si volse Filantropo ad un’altra maschera che vestita era da villanella friulana, la quale sfolgorava tutta d’oro sopra quelle gonnelle vili per arte; e ammirava quel bel pannolino di bucato ch’ella avea in capo, e que’ciondolini d’oro e di perle che avea agli orecchi, con quelle preziose collane che vagamente cadevano e penzigliavano sul candido seno, e con quelle pietre, delle più rare, che le guernivano le dita. Comecchè la fosse così riccamente ornata, conobbela benissimo Filantropo che la rappresentava una femminetta di contado, e disse: “Io darei pure ragione a’poeti, quando lodano la vita villereccia, se la fosse a questo modo; ma la è bene al contrario: perocchè le villanelle non hanno quelle lucide carni, e appena conoscono quell’oro di cui ha co-stei tale abbondanza”. – “Bene,” disse l’amico, “tu vedi che costei rappresenta una contadina; ma facendo professione di conoscere l’interno delle persone, che conosci tu in essa?” – “Io veggo,” ripigliò Filantropo, “che costei ha una grandissima conoscenza di sè medesima, e va a questo modo mascherata, perchè quel vestito quadra egregiamente al suo corpo. Vedi tu quelle bracciotte tonde e piene, quelle due quadrate spalle, e quella sua vita che male starebbe rinchiusa in vestimenti più ristretti? Ella lo sa, e col vestito da villanella scambia una certa sua goffaggine in garbo e grazia. E comecchè non confesserebbe mai altrui il suo difetto, pure in sua coscienza lo comprende, e quasi per ischerzo elegge sopra tutti gli altri quel vestito che le si confà. Per cagione di quello si comportano que’piedi un po’troppo grandicelli, quelle mani piuttosto grosse, quei due omeri che spingono allo in fuori la gonnelletta ch’ella ha indosso.” Rimase attonito l’amico che uno straniero fosse cotanto penetrativo, e tutto il giorno ascoltò volentieri le sue riflessioni, che molte furono e diverse, e sì vere, che appariva lui conoscere benissimo anche agli atti e alle qualità de’vestiti l’umore degli uomini e delle femmine che andavano intorno. Ma perchè non paia ch’io voglia andare per tutti i particolari, basterà che ogni uomo vada alla Piazza con tale intenzione, e da sè medesimo potrà quivi nelle varie figure e tramutazioni comprendere che non si può mai l’uomo tanto mascherare, che l’umor suo non isfugga fuori da tutti i lati, e non discopra, almeno in parte, il carattere di chi più crede di nascondersi agli occhi degli altri. pronostico del Velluto intorno a’teatri Oh chiunque ha orecchi, gli rizzi al suono delle mie parole, e oda quello che dico, mosso dallo spirito di Talía, la quale con altissimo suono parlò prima agli orecchi miei, e disse: Lèvati, o pigro, da questo letto, ed esci della tua stanza, lasciando per ora il calamaio e la carta; trascorri per le vie e per le piazze annunziando a’popoli quello che avverrà intorno a’teatri nell’autunno del 1762 e nel carnovale del 1763. Furono prima ispirati ingegni da me e dalle sorelle mie, acciocchè con le teatrali imitazioni alleggerissero de’pensieri le genti. Piacque l’usanza, concorsero i popoli, e dolcissime risa uscivano dalla chiusa de’denti agli spettatori. Erano gli Zanni ed i Magnifici in pregio, i quali caricando i caratteri delle genti, ogni costume vestivano di ridicolosità; e tempo fu che l’Italia si godeva universalmente questo sollazzo. Generò sazietà il continuo vederne; ed essendo obbligazione dell’altissimo Parnaso il cercare la varietà, acciocchè gli uomini abbiano diversificati i loro passatempi, si risvegliò l’antichissima usanza delle tragedie, dalle quali ricevette la Grecia cotanto onore. Ma poco tempo giovò, perchè i molti teatri accettando le tragiche tappezzerie ed i magnifici apparati, tutti si empierono di sonori versi e di lagrimevoli avvenimenti; di che succedette che in un anno furono gli spettatori annoiati. Inspirarono allora le Muse le commedie di carattere; ed eccoti che nel corso di pochi anni tutti i teatri si empierono di questo genere di commedia, e fummo alla noia di prima. Ci convenne allora essere insieme a consiglio sulle cime dell’Elicona; e lasciate stare le commedie e le tragedie, demmo principio alle tragicommedie a nostro dispetto, perchè hanno un certo che del bastardo; ma la necessità del variare ci trasse a forza in questa nuova invenzione. Introducemmo in esse i vestimenti turcheschi, i chinesi, i tartari, che al primo vedere parvero belli; ma a poco a poco gli strioni gli usarono tanto, che nella guardaroba loro non v’avea più un vestito all’italiana; e sì andarono attorno continuamente, che non si potea più patire di vederne. Non sapendo oggimai sul Parnaso qual altra cosa più inventare, destammo un capriccioso ingegno a ridurre in rappresentazione da scena quelle favole che si narrano a’fanciulli; ed egli seguì la nostra volontà per modo, che gli spettatori rimasero di tal novità grandemente appagati. Ohimè! ohimè! grida a’popoli della terra incontanente, che voce è salita quassù, che da ogni lato si apparecchiano cervelli a voler favole comporre e rappresentare? Guai agli spettatori ed a’recitanti se da ogni lato sulle scene compariranno tali rappresentazioni! In breve saranno dalla continuazione e dalla frequenza delle favole nauseati i popoli veditori, e noi saremo in capo ad un anno obbligate a dicervellarci di nuovo a ritrovare novità, per togliere la molestia dagli animi degli ascoltanti. Guai a’recitanti, poichè per gareggiare teatro con teatro, saranno obbligati a fare gravissime spese di trasformazioni e apparenze; e la maggiore squisitezza e sottigliezza richiederà sempre dispendio più grande. La mano di Giove scaglia-folgori entrerà nella cassetta dell’entrata, e tutti i danari disperderà in trovatori di ordigni per far volare uomini, spaccare montagne, far di uomini alberi e fiumi. Entrerà la mano di Giove nella cassetta, entrerà e sarà inutile per li recitanti la concorrenza de’popoli. Verrà il legnaiuolo, e dirà: Ecco la polizza mia; assi e travicelli ho tagliati, chiodi comperati, lavorato dì e notte io e i compagni miei. E la mano di Giove caverà della cassetta, e salderà la polizza al legnaiuolo. Verrà il pittore, e dirà: Ecco la polizza mia. Frondeggiano quegl’imitati alberi per mia cagione. E quel cartone sembra sasso altrui per averlo io colorito. Per opera mia vestito è quel monte di alberi ed erbe. E la mano di Giove caverà della cassetta, e salderà la polizza al pittore. Uomini traportati da diavoli in aria; giganti, dragoni, centauri e chimere metteranno innanzi agli occhi le polizze, e saranno saldati. Grida, grida, o Velluto, guai agli spettatori e guai ai recitanti. I primi per la continuazione s’annoieranno, i secondi spenderanno gli occhi della testa, empiendo di loro lagrime la cassetta. Se vogliono l’aiuto nostro, ascoltino i consigli delle Muse. Imitino le varietà di natura, la quale agli occhi de’riguardanti, per li suoi diversificati oggetti, è sì cara. S’alzano di qua le altissime montagne con la sommità loro fino alle stelle, di là le profonde valli s’aprono; e presentano canne ed erbe grosse. Dall’un lato vedi l’ampio mare che sembra non avere confini, e dall’altro la terra, sopra il cui dorso un’indicibile diversità d’oggetti si vede. Tali sieno i teatri, a’quali la sola varietà chiama gli spettatori. Ogni altro pensiero è vano a chi quella non usa. Destatevi, o nobili ingegni, e rifrustando tutti que’generi di rappresentazioni teatrali che noi da lungo tempo in qua vi abbiamo insegnate, ricreate gli animi ora con l’uno ed ora con l’altro, imbandendo la mensa vostra con cibi diversi, che talora anche grossolani piacciono, purchè non sieno sempre quelli. Escano una sera gli Zanni e i Magnifici con novelle invenzioni. Un’altra i sublimi fatti e i tragici sieno rappresentati; che se gran moltitudine di gente non vi concorre, acquisteranno i recitanti concetto, o con quel breve cambiamento aguzzeranno vie più la voglia del ridere nelle persone. Mescolinsi le commedie di carattere, e dietro a quelle le tragicommedie si mostrino sulla scena: nè sieno perciò sbandite le favole, che con la loro maraviglia intrattengono molto bene i circostanti. Ricordinsi gli strioni che quattro teatri sono in Venezia da commedia, e che facendosi in essi una rappresentazione ogni sera pel corso di cinque mesi, se quella sarà di un genere solo, quattro volte in una sera sarà raddoppiata, e quattrocento e più favole o tragedie, o tragicommedie si vedranno tutte di un genere fra l’autunno ed il carnovale. Usciranno dalle profonde cavità de’polmoni i tediosi sbadigli, e l’orlo delle palpebre degli spettatori, divenuto pesante, si calerà allo ingiù, e diranno gli spettatori: Qual sonno è questo? Cerchiamo in ogni luogo il passatempo fuorchè ne’teatri. Sbandito è di là il passatempo, e più non vi si ritrova. Allora l’uscio del teatro sarà pieno di ragnateli. Inutili saranno le mani de’portinai quivi mascherati per ricevere i danari. Poche file di scanni attenderanno i radi spettatori, e la voce de’recitanti risonerà ne’vôti palchetti, a guisa d’eco che dalle caverne de’monti risponde. Solitudine e diserto saranno i teatri, e sulla scena gli attori pronunzieranno senza vigore, le mani caderanno loro sull’anche; mancherà loro la memoria, se diranno parole imparate, e la parola, se favelleranno all’improvviso. Avranno sempre davanti agli occhi l’orrore della solitudine; e faranno loro fastidio fino i lumicini che avranno innanzi, i quali daranno anch’essi poco splendore. Va’, o Velluto, va’; e ricorda con altissima voce quanto ti dice Talía, a’poeti e a coloro che reciteranno nell’autunno dell’anno 1762 e nel carnovale del 1763, e fa’quanto puoi acciocchè sia prestata fede alle tue parole. E io allora mi levai dal letto, e con quella voce che potei, profferii quanto da Talía mi fu detto. Osservazione sopra quanto è fino a qui stato scritto. Invasato dallo spirito di Talía, e quasi contra mia voglia, feci il ragionamento dettato qui sopra. Feci poi intorno ad esso alcune considerazioni, e ritrovai che Talía non diceva menzogna. Appena un ingegno ritrova cosa ch’è grata al pubblico, tutti gli altri lo seguono: e non dirò se il primo venga superato, ma dico solo, che assalendo sempre gli occhi e gli orecchi della gente con un genere solo di rappresentazioni, si consumano in cinque mesi tutti quegli argomenti che servirebbero per venti anni, chi mescolasse con discreta misura i vari generi delle cose teatrali. Questi non sono così scarsi, che non possano essere sufficienti a produrre quella varietà che si desidera. Ed oltre a ciò se n’avrebbe un altro vantaggio, ch’ogni trovatore di poesie si eserciterebbe in quello che fosse meglio adattato al suo ingegno; laddove è costretto a balzare, secondo la moda, in cose che non sono convenienti alla capacità sua. Ma che dico io più oltre? Abbastanza si è fatta intendere Talía, senza ch’io prolunghi altro le mie ciance.