Saggio XIX. Luca Magnanima Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Lena Druml Editor Magdalena Albert Editor Andrea Kaser Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 15.12.2016 o:mws.5424 Magnanima, Luca: Osservatore toscano. Livorno: Carlo Giorgio 1779-1783, 175-182 Osservatore Toscano 1 19 1779 Italien Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Recht Diritto Law Derecho Droit Greece 22.0,39.0 Italy 12.83333,42.83333 Italy Rome Rome 12.51133,41.89193

Saggio XIX.

Se la pena di morte sia sufficiente per frenare i delitti.

Se le pene fossero ordinate a far patire un uomo col fine di farlo patir solamente o per lo spettacolo doloroso, che alcuni avrebbero di vederlo soffrire, sarebbero più una vendetta particolare, che un vero frutto per gli altri. Ma come il fine delle pene è stato sempre ordinato a far pensar gli altri uomini diversamente dal reo afflitto, o trucidato; così pare che le pene in se stesse non agiscano per altra via, che per quella del timore. Il timore dunque è stato il fulmine, che anno preteso di scagliare contra gli altri uomini innocenti le leggi, che si dicon criminali. Dunque anche gli uomini, che non anno fatto alcun male agli altri uomini an dovuto soffrire questa crudel sensazione, come un rimedio anticipato contro la reità. Tale è forse il destino della natura umana di dover soffrire anche quando adora le leggi, o di dovere in certo modo essere a parte delle pene decretate, che altri soffre o vivendo, o morendo.

E che veramente sia il timore, che contenga gli uomini generalmente, basta pensare ad una società, ove in un tratto fossero annullate tutte le leggi puramente umane. Questa società sarebbe to-sto una confusione di tutti gl’individui, e dalla confusione si passerebbe alle legge suprema di uno stato confuso, che è l’esercizio della sola forza. L’uomo dunque il più robusto, l’uomo il più energico nel dire, l’uomo che avesse ammassate in un tratto più sostanze, sarebbe il vincitore. Bisognerebbe che tutto contenesse colla forza, ed ecco di nuovo in campo il timore. Le pene adunque non son fatte per altro che per far temere un terribil fine a colui, che facesse un gran delitto, un fine men funesto a chi minor delitto avesse commesso. Posto ciò, e veggendo le presenti società assai tranquille, bisogna confessare che se son tali, lo debbono senza fallo al timor delle pene. È dunque un timor salutare, è un timor necessario. Egli è un ferro infuocato, che richiama a nuova vita una parte infetta del corpo, o che è vicina ad infettarsi. In pensare poi che tutti gli uomini sono in pace fra loro per l’amore dell’ordine, e della virtù, sarebbe il medesimo che cambiar questa terra in un paradiso contra lo sperimento de’secoli. Adunque è sempre più giusta la conclusione, che il timore è l’unico freno, che gli tiene dimessi. Il timore pertanto tiene gli uomini uniti. Nè possiam dubitarne, e qualora si pensi un momento a’governi, ove il capriccio di un uomo è la suprema legge. Se il timore non fosse, cioè se le frequenti stragi, ed improvvise non fossero, quell’uomo dispotico più non sarebbe. I tormenti dunque, e le morti immediate fan sì che tutto sia in calma, o che gli uomini si avvicinano al bruto col tenere oppresse le proprie facoltà dell’animo. Ma quì potrebbe dire alcuno: Il timore delle pene impedisce veramente che gli uomini sian rei, o quel che è lo stesso, si avventino contra gli altri uomini per usurpare i loro vantaggi, o per saziare una vendetta? Rispondo, che il timore opera assai su gli uomini tranquilli; su quelli, che sono agitati da qualche forte passione, non già. Ma i delitti che son mai, se non l’effetto delle forti passioni? Dunque è egli da stupire che il timor delle pene non operi nulla sull’animo di quelli, che sono agitati, e spinti da qualche rea passione? Egli è in fatti così. Osserviamo, per esempio, i governi della presente Italia. Son essi per lo più governi di un solo, moderati cioè, ove gli uomini vivono egualmente sotto le leggi, come se fossero in un libero stato. Questi governi non anno per oggetto la guerra, e la conquista, e per questo non an bisogno di armare anche gli uomini di forti passioni. Non potendo dunque nè aspirare ad essere i primi del popolo, a farsi grandi, nè ad ammassare molto ricchezze per via di conquista, restano tranquilli a far fruttare la terra, e a far trasporto delle loro ricolte, vale a dire a fare i coltivatori, o i commercianti. Nè il commercio può esser punto funesto, perchè gl’Italiani an quasi serrato i passi da altre potenti nazioni per farlo in proprio, ed in grande. È dunque un popolo tranquillo, ove non essendo in generale grandi passioni, non si sentono gran delitti. Non così avvenne ne’governi liberi dell’antichità. Gli Spartani, gli Ateniesi, i Tebani, furon piccole repubbliche della Grecia. Si sa quali passioni le tenevano sempre in moto. Si sa in conseguenza, che si dimenticavano le stesse leggi più rigide dello stato. Dove lasciamo l’antica Roma? Vi furon forse passioni più terribili, accese dal governo stesso? Vi fu per questo nazione più feroce, più possente de’romani? Diciamo di più. Le leggi stesse fatte da’più severi Catoni furon mai tanto deluse, quanto da’magistrati stessi? E non è questo un commettere i più gran delitti? In conseguenza di ciò, furon mai più frequenti le stragi di quel che furono in Roma sotto il governo de’consoli, e poi degl’imperatori? Se è così, io non veggo qual forza abbian le leggi, o sia il timor delle pene su gli animi forte appassionati. Perchè operino assai bisogna dunque che un popolo sia il più tranquillo, cioè mansueto.

Se quì insiste taluno a cercare, come l’uomo agitato da qualche fiera passione che lo strascina ad un gran delitto, non è punto frenato dal timor delle pene, si risponde che ciò addiviene per natura appunto della passione stessa. Lo scellerato si propone nel suo intelletto un gran fine. Ad esso rivolge tutta la forza de’suoi desideri. Questi lo tengono sempre in un moto, che parte è pena, parte è diletto. È pena perchè non perviene anche al grande oggetto; è diletto, perchè sente di corrervi anelante, e di avvicinarsi, e per questa confusione di pena, e di piacere egli rinforza sempre più i suoi desideri, e le sue azioni. Non ha però anche un istante di vera pace. Ella è un sogno, è un’ombra, un vento amico che verrà. Ma l’uomo seguita intanto l’energia della sua passione, che al suo gran fine lo scorge. Tutto ad esso rapporta, sensi, pensieri, azioni, speranze, diletti, felicità. Non pensa se è giusto, non vede se alle leggi è contrario. Sente che egli sarà il più avventurato degli uomini. E se mai non è d’accordo colle leggi severe, o non si ferma con esse, si lusinga o di essere a loro superiore, o di vederle deluse dall’accorgimento, che egli ha sempre desto. Dunque è vana per lui la memoria delle uccisioni già fatte di coloro, che a un reo fine rivolsero i lor pensieri, e i lor giorni. Egli sente che scamperà dalle pene; si va rincorando che il più gran coraggio ha vinto tutti gli ostacoli anche a’maggiori delitti; che il timore va lasciato agli animi servili, a’grandi non già; che la fortuna va sempre dietro a coloro, che ardiscono sempre, e tremano non mai.

Tale è a un dipresso il raziocinio del malvagio, che è appassionato. Si pensi per conseguente se egli teme la morte. Ei non può temerla, perchè non teme un istante le leggi punitrici. Potrebbe certo rappresentarsela al pensiero; ma è egli suo interesse di farlo? Dunque se è impotente il timore, l’idea della morte stessa non sarà sufficiente per frenarlo. Ma egli ha già commesso il suo delitto. Già è pubblico, egli è già nelle catene e tra’coppi. Le leggi dello stato lo condannano a morte. Egli però o se ne ride, come tanti altri, o se piange, questo pianto non ristora, non paga l’infame delitto. Che far dunque? Condannarlo alla catena? Questa pena lunga e tormentosa sarà ella più efficace per far gli uomini buoni, e farli men rei della morte medesima? Non pare. Sarebbe una catena di ferro pesante più efficace del tetro apparato di una forca, o di una mannaia, se gli uomini non si abituassero a tutto. Noi veggiamo delle centinaia di uomini che strascicano una catena, ne sentiamo il rumore, gli veggiamo affaticati, e sparuti. Con tutto questo noi non ci rappresentiamo tutte le idee relative a quello stato, che ci dovrebbero riscuotere, e si passa, e si pensa a tutt’altro. Veggiamolo meglio. Non ci è cosa che più rattristi l’uomo tranquillo della morte. L’idea di essa è un’idea affatto desolante. L’uomo felice sarà in breve distrutto. Il suo corpo soffrirà fra poco alcuni cambiamenti, dopo de’quali si ridurrà in pura terra. In conseguenza sarà un nulla per lui quel che egli ha di più grato al mondo. Addio speranze dolcissime, addio sostanze, addio agi, e piaceri. La vostra luce tramonta in pochi minuti ad una sera eterna. La Natura tutta, che facea il suo studio, le sue delizie, la sua semplicità, la sua pace, tira un velo sulla varietà immensa delle sue produzioni. L’uomo si estinguerà, in breve calerà nel sepolcro, a cui si arresta la superba ineguaglianza della sorte, e della opinione. Con tutto questo si mira ogni giorno alcuno degli uomini, che più non è. Anche quì si vede, e si passa; oppure si vede, e nulla si pensa, che noi fra poco correremo la stessa sorte. Adunque l’uomo a forza di vedere, più non vede quel che sarebbe tanto importante a vedersi, e considerarsi. È dunque verissimo, che le scene orribili, che si son date dalle leggi, di uccisone de’nostri fratelli, sono state, e saranno sempre inefficaci per impedire che si commettano altri sì fatti delitti. Lo stesso dicasi della condanna a tirarsi dietro una catena pesante. L’uomo in poco tempo si è già assuefatto alla sua catena. Nulla dirò di alcuna quistione, che potrebbe farsi, vale a dire, se l’uomo che ha rinunziato alla sua libera forza naturale, ha detto a’suoi fratelli, in caso che io la ripigli, e la renda funesta, ammazzatemi. Di più, se egli sta bene, che un certo numero di cittadini decreti la morte ad alcuno di essi, ed un’altra parte, e la più numerosa, si avvezzi a vederne tranquillamente la strage, o con breve dolore.

Concludiamo in una quistione che tocca sì da vicino l’umanità. Essendo insufficiente la pena di morte per frenare i delitti, che si farà de’rei? Si condannino ad alcuna pena se non per far gli altri migliori, almeno per impedire che sian rei di più. Non ci è dunque alcun rimedio per far sì che gli uomini sieno buoni, giacchè non giova il timore? Il rimedio ci è, ed è in mano de’sovrani, è in mano delle repubbliche; e questo consiste in prevenire i delitti. Come si prevengano efficacemente, è una quistione diversa dalla presente, e può esser materia di un altro scritto. A noi giovi intanto l’aver dimostrato contra un novello Scrittore, che ha preteso di dimostrare essere efficace, e perciò necessaria la pena di morte, che non è punto così. Giovi a noi di aver consacrato questo scritto in difesa dell’Umanità; il quale scritto se non trionferà della crudeltà di alcuno, vincerà i più saggi almeno coll’amore, che respira di essa.

Saggio XIX. 1779 Saggio XIX. Se la pena di morte sia sufficiente per frenare i delitti. Se le pene fossero ordinate a far patire un uomo col fine di farlo patir solamente o per lo spettacolo doloroso, che alcuni avrebbero di vederlo soffrire, sarebbero più una vendetta particolare, che un vero frutto per gli altri. Ma come il fine delle pene è stato sempre ordinato a far pensar gli altri uomini diversamente dal reo afflitto, o trucidato; così pare che le pene in se stesse non agiscano per altra via, che per quella del timore. Il timore dunque è stato il fulmine, che anno preteso di scagliare contra gli altri uomini innocenti le leggi, che si dicon criminali. Dunque anche gli uomini, che non anno fatto alcun male agli altri uomini an dovuto soffrire questa crudel sensazione, come un rimedio anticipato contro la reità. Tale è forse il destino della natura umana di dover soffrire anche quando adora le leggi, o di dovere in certo modo essere a parte delle pene decretate, che altri soffre o vivendo, o morendo. E che veramente sia il timore, che contenga gli uomini generalmente, basta pensare ad una società, ove in un tratto fossero annullate tutte le leggi puramente umane. Questa società sarebbe to-sto una confusione di tutti gl’individui, e dalla confusione si passerebbe alle legge suprema di uno stato confuso, che è l’esercizio della sola forza. L’uomo dunque il più robusto, l’uomo il più energico nel dire, l’uomo che avesse ammassate in un tratto più sostanze, sarebbe il vincitore. Bisognerebbe che tutto contenesse colla forza, ed ecco di nuovo in campo il timore. Le pene adunque non son fatte per altro che per far temere un terribil fine a colui, che facesse un gran delitto, un fine men funesto a chi minor delitto avesse commesso. Posto ciò, e veggendo le presenti società assai tranquille, bisogna confessare che se son tali, lo debbono senza fallo al timor delle pene. È dunque un timor salutare, è un timor necessario. Egli è un ferro infuocato, che richiama a nuova vita una parte infetta del corpo, o che è vicina ad infettarsi. In pensare poi che tutti gli uomini sono in pace fra loro per l’amore dell’ordine, e della virtù, sarebbe il medesimo che cambiar questa terra in un paradiso contra lo sperimento de’secoli. Adunque è sempre più giusta la conclusione, che il timore è l’unico freno, che gli tiene dimessi. Il timore pertanto tiene gli uomini uniti. Nè possiam dubitarne, e qualora si pensi un momento a’governi, ove il capriccio di un uomo è la suprema legge. Se il timore non fosse, cioè se le frequenti stragi, ed improvvise non fossero, quell’uomo dispotico più non sarebbe. I tormenti dunque, e le morti immediate fan sì che tutto sia in calma, o che gli uomini si avvicinano al bruto col tenere oppresse le proprie facoltà dell’animo. Ma quì potrebbe dire alcuno: Il timore delle pene impedisce veramente che gli uomini sian rei, o quel che è lo stesso, si avventino contra gli altri uomini per usurpare i loro vantaggi, o per saziare una vendetta? Rispondo, che il timore opera assai su gli uomini tranquilli; su quelli, che sono agitati da qualche forte passione, non già. Ma i delitti che son mai, se non l’effetto delle forti passioni? Dunque è egli da stupire che il timor delle pene non operi nulla sull’animo di quelli, che sono agitati, e spinti da qualche rea passione? Egli è in fatti così. Osserviamo, per esempio, i governi della presente Italia. Son essi per lo più governi di un solo, moderati cioè, ove gli uomini vivono egualmente sotto le leggi, come se fossero in un libero stato. Questi governi non anno per oggetto la guerra, e la conquista, e per questo non an bisogno di armare anche gli uomini di forti passioni. Non potendo dunque nè aspirare ad essere i primi del popolo, a farsi grandi, nè ad ammassare molto ricchezze per via di conquista, restano tranquilli a far fruttare la terra, e a far trasporto delle loro ricolte, vale a dire a fare i coltivatori, o i commercianti. Nè il commercio può esser punto funesto, perchè gl’Italiani an quasi serrato i passi da altre potenti nazioni per farlo in proprio, ed in grande. È dunque un popolo tranquillo, ove non essendo in generale grandi passioni, non si sentono gran delitti. Non così avvenne ne’governi liberi dell’antichità. Gli Spartani, gli Ateniesi, i Tebani, furon piccole repubbliche della Grecia. Si sa quali passioni le tenevano sempre in moto. Si sa in conseguenza, che si dimenticavano le stesse leggi più rigide dello stato. Dove lasciamo l’antica Roma? Vi furon forse passioni più terribili, accese dal governo stesso? Vi fu per questo nazione più feroce, più possente de’romani? Diciamo di più. Le leggi stesse fatte da’più severi Catoni furon mai tanto deluse, quanto da’magistrati stessi? E non è questo un commettere i più gran delitti? In conseguenza di ciò, furon mai più frequenti le stragi di quel che furono in Roma sotto il governo de’consoli, e poi degl’imperatori? Se è così, io non veggo qual forza abbian le leggi, o sia il timor delle pene su gli animi forte appassionati. Perchè operino assai bisogna dunque che un popolo sia il più tranquillo, cioè mansueto. Se quì insiste taluno a cercare, come l’uomo agitato da qualche fiera passione che lo strascina ad un gran delitto, non è punto frenato dal timor delle pene, si risponde che ciò addiviene per natura appunto della passione stessa. Lo scellerato si propone nel suo intelletto un gran fine. Ad esso rivolge tutta la forza de’suoi desideri. Questi lo tengono sempre in un moto, che parte è pena, parte è diletto. È pena perchè non perviene anche al grande oggetto; è diletto, perchè sente di corrervi anelante, e di avvicinarsi, e per questa confusione di pena, e di piacere egli rinforza sempre più i suoi desideri, e le sue azioni. Non ha però anche un istante di vera pace. Ella è un sogno, è un’ombra, un vento amico che verrà. Ma l’uomo seguita intanto l’energia della sua passione, che al suo gran fine lo scorge. Tutto ad esso rapporta, sensi, pensieri, azioni, speranze, diletti, felicità. Non pensa se è giusto, non vede se alle leggi è contrario. Sente che egli sarà il più avventurato degli uomini. E se mai non è d’accordo colle leggi severe, o non si ferma con esse, si lusinga o di essere a loro superiore, o di vederle deluse dall’accorgimento, che egli ha sempre desto. Dunque è vana per lui la memoria delle uccisioni già fatte di coloro, che a un reo fine rivolsero i lor pensieri, e i lor giorni. Egli sente che scamperà dalle pene; si va rincorando che il più gran coraggio ha vinto tutti gli ostacoli anche a’maggiori delitti; che il timore va lasciato agli animi servili, a’grandi non già; che la fortuna va sempre dietro a coloro, che ardiscono sempre, e tremano non mai. Tale è a un dipresso il raziocinio del malvagio, che è appassionato. Si pensi per conseguente se egli teme la morte. Ei non può temerla, perchè non teme un istante le leggi punitrici. Potrebbe certo rappresentarsela al pensiero; ma è egli suo interesse di farlo? Dunque se è impotente il timore, l’idea della morte stessa non sarà sufficiente per frenarlo. Ma egli ha già commesso il suo delitto. Già è pubblico, egli è già nelle catene e tra’coppi. Le leggi dello stato lo condannano a morte. Egli però o se ne ride, come tanti altri, o se piange, questo pianto non ristora, non paga l’infame delitto. Che far dunque? Condannarlo alla catena? Questa pena lunga e tormentosa sarà ella più efficace per far gli uomini buoni, e farli men rei della morte medesima? Non pare. Sarebbe una catena di ferro pesante più efficace del tetro apparato di una forca, o di una mannaia, se gli uomini non si abituassero a tutto. Noi veggiamo delle centinaia di uomini che strascicano una catena, ne sentiamo il rumore, gli veggiamo affaticati, e sparuti. Con tutto questo noi non ci rappresentiamo tutte le idee relative a quello stato, che ci dovrebbero riscuotere, e si passa, e si pensa a tutt’altro. Veggiamolo meglio. Non ci è cosa che più rattristi l’uomo tranquillo della morte. L’idea di essa è un’idea affatto desolante. L’uomo felice sarà in breve distrutto. Il suo corpo soffrirà fra poco alcuni cambiamenti, dopo de’quali si ridurrà in pura terra. In conseguenza sarà un nulla per lui quel che egli ha di più grato al mondo. Addio speranze dolcissime, addio sostanze, addio agi, e piaceri. La vostra luce tramonta in pochi minuti ad una sera eterna. La Natura tutta, che facea il suo studio, le sue delizie, la sua semplicità, la sua pace, tira un velo sulla varietà immensa delle sue produzioni. L’uomo si estinguerà, in breve calerà nel sepolcro, a cui si arresta la superba ineguaglianza della sorte, e della opinione. Con tutto questo si mira ogni giorno alcuno degli uomini, che più non è. Anche quì si vede, e si passa; oppure si vede, e nulla si pensa, che noi fra poco correremo la stessa sorte. Adunque l’uomo a forza di vedere, più non vede quel che sarebbe tanto importante a vedersi, e considerarsi. È dunque verissimo, che le scene orribili, che si son date dalle leggi, di uccisone de’nostri fratelli, sono state, e saranno sempre inefficaci per impedire che si commettano altri sì fatti delitti. Lo stesso dicasi della condanna a tirarsi dietro una catena pesante. L’uomo in poco tempo si è già assuefatto alla sua catena. Nulla dirò di alcuna quistione, che potrebbe farsi, vale a dire, se l’uomo che ha rinunziato alla sua libera forza naturale, ha detto a’suoi fratelli, in caso che io la ripigli, e la renda funesta, ammazzatemi. Di più, se egli sta bene, che un certo numero di cittadini decreti la morte ad alcuno di essi, ed un’altra parte, e la più numerosa, si avvezzi a vederne tranquillamente la strage, o con breve dolore. Concludiamo in una quistione che tocca sì da vicino l’umanità. Essendo insufficiente la pena di morte per frenare i delitti, che si farà de’rei? Si condannino ad alcuna pena se non per far gli altri migliori, almeno per impedire che sian rei di più. Non ci è dunque alcun rimedio per far sì che gli uomini sieno buoni, giacchè non giova il timore? Il rimedio ci è, ed è in mano de’sovrani, è in mano delle repubbliche; e questo consiste in prevenire i delitti. Come si prevengano efficacemente, è una quistione diversa dalla presente, e può esser materia di un altro scritto. A noi giovi intanto l’aver dimostrato contra un novello Scrittore, che ha preteso di dimostrare essere efficace, e perciò necessaria la pena di morte, che non è punto così. Giovi a noi di aver consacrato questo scritto in difesa dell’Umanità; il quale scritto se non trionferà della crudeltà di alcuno, vincerà i più saggi almeno coll’amore, che respira di essa.