Libro Quarto Anonym [Eliza Haywood] Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Irene Maria Kuwal Mitarbeiter Julia List Mitarbeiter Alexandra Fuchs\Herausgeber Mitarbeiter Andrea Kaser Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 11.07.2019 o:mws.3840 Anonym [Eliza Haywood] La Spettatrice opera scritta in inglese, e tradotta dal francese. Venezia: Giovanni Tevernin 1752 La Spettatrice 1 04 1752 Italien Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Autopoetische Reflexion Riflessione Autopoetica Autopoetical Reflection Reflexión Autopoética Réflexion autopoétique Reflexão Autopoética England Inghilterra England Inglaterra Angleterre Onglaterra Erziehung und Bildung Educazione e Formazione Education and Formation Educación y Formación Éducation et formation Educação e Instrução Familie Famiglia Family Familia Famille Família Frankreich Francia France Francia France França Frauenbild Immagine di Donne Image of Women Imagen de Mujeres Image de la femme Imagem feminina Liebe Amore Love Amor Amour Amor Menschenbild Immagine dell'Umanità Idea of Man Imagen de los Hombres Image de l’humanité Imagem humana Mode Moda Fashion Moda Mode Moda Moral Morale Morale Moral Morale Moral Theater Literatur Kunst Teatro Letteratura Arte Theatre Literature Arts Teatro Literatura Arte Théâtre Littérature Art Teatro Literatura Arte Vernunft Ragione Reason Razón Raison Razão United States Richmond Richmond -77.46026,37.55376 France 2.0,46.0 France Montauban-de-Picardie Montauban-de-Picardie 2.7769,50.00625 France Bourgogne-Franche-Comté Bourgogne-Franche-Comté 5.04822,47.06981 United Kingdom Marylebone Marylebone -0.16806,51.52541 United States Saint James Township Saint James Township -94.68191,43.97853 Italy 12.83333,42.83333 Europe 9.14062,48.69096 United States Westminster Westminster -105.0372,39.83665 France Paris Paris 2.3488,48.85341 United Kingdom Chelsea Chelsea -0.16936,51.48755 Convent Garden -73.94278,40.82833 Italy Rome Rome 12.51133,41.89193

Libro Quarto.

Qual privilegio illustre non ha l'uomo sovra gli altri abitatori di quello mondo sublunare? Suppongasi in miseria, abbandonato da tutti, incatenato dentro una torre, col soccorso della contemplazione in mezzo a tutti questi mali può godere di tutti i comodi, della stima degli altri, e della libertà, portarsi col pensiero dovunque vuole, e per fino conquistare imperj nella sua immaginazione.

Per lo che non so intendere, per qual cagione tante persone si trovino, che nè pure un momento san tollerare di essere sole. Egli è vero, che un delitto commesso, agitando gravemente lo spirito, può rendere insopportabile la solitudine, e obbligare l’infelice, che si tormenta da sè medesimo, a cercare una compagnia, tra cui respiri da’suoi rimorsi; io non parlo per tanto di coloro, che temono la riflessione, ma di quelli, che sembrano incapaci di riflettere.

Conosco molti dell’uno e dell’altro sesso, che mostrano un fondo di vivacità capace di animare la conversazione, dovunque si trovino, ma se poi per una mezz’ora si trovano soli, compariscono le persone più inerti, e le più stupide, che sieno sopra la terra. Domandate loro, se hanno qualche indisposizione, vi risponderanno languidamente di no, e che stanno benissimo. Interrogatele, se han qualche disgrazia, con lo stesso tuono di voce vi diranno di no, e pare che non abbiano più spirito, fin che si dica o si faccia qualche cosa capace di ravvivarli. E pure pajono ancora mezzo addormentati, e può dirsi, che in tempo di questo letargo il loro spirito è restato in una inazione maggiore, di quello che sia in tempo del sonno, perchè non hanno nè pure sognato. Si può dunque a mio parere paragonarle ad una campana, che non suona se non si percuote.

Qualunque opinione possa avere il mondo delle persone di questo carattere, io per me giudico, che molto vuoto siavi nella loro anima, che da sè medesime non san concepire alcuna idea, e che solamente l’uso del mondo, e qualche educazione le metta in istato di parlare graziosamente. Ad un vero talento non manca mai materia da trattenersi, e quando anche fosse solo, in cima d’una montagna, senza libri, e senza occupazione, troverà sempre di che passar l’ozio: la sua memoria gli presenterà gli avvenimenti passati: le sue osservazioni gli faranno distinguere gli oggetti presenti dalle loro cagioni: e la sua immaginazione diretta dal giudizio predirà l’avvenire. Questa facoltà di contemplare di riflettere è ciò, che principalmente distingue gli uomini dalle bestie, e prova essere le nostre anime veramente scintille dell’Intelligenza Divina.

I piaceri di una amabile società son fuor di dubbio i più delicati, che possiamo gustare, ma quella medesima compagnia, che ci è più cara, ci diverrebbe insipida e nojosa, se dovessimo averla di continuo, e sarebbe una grande mortificazione per una persona, che pensi aggiustatamente, tanto ritrovarsi perpetuamente in compagnia, quanto sempre esser sola. In fatti la conversazione non fa altro, che somministrare motivi da far riflessioni, ella rallegra lo spirito, e lo rende atto a meditare, e a riflettere. Ogni cosa da nuovo, che sentiamo in compagnia, risveglia in noi delle nuove idee quando siamo soli, e siccome pochi vi sono, da cui non si possa ricavare o qualche piacere, o qualche istruzione, uno spirito abile, a guisa d’ape industriosa, anderà a spremere i fughi differenti per digerirli poscia nel suo ritiro. Ma quelli, che corrono di continuo da una compagnia in un’altra, e non vogliono sofferire la solitduine, se non quando la natura stanca esige riposo, baderebbero appena alle massime di Seneca ancorchè fossero esposte dalla persuasiva eloquenza di Cicerone.

Altre conseguenze ancora più perniciose nascono da questo eccessivo abborrimento alla solitudine. Persone di tal genio piuttosto che starsene sole, vanno senza discernimento a gettarsi in ogni genere di compagnie, che spesso vengono a trovarsi in certi luoghi, dove per tutta la vita loro si pentiranno d’esservi state, e ancorchè dalla buona compagnia non possano ritrarre alcun frutto, dalla cattiva certamente resterà pregiudicata la loro fama, e forse il loro costume, e le sostanze ancora: questo scegliere a precipizio, e senza esame, è cagione, che di rado s’incontri in una buona compagnia, che non è cosa tanto comune, ed alla quale si ammettono difficilmente le persone, che non si conoscono.

Questo furore per la compagnia è stato la perdizione di varie persone dell’uno e dell’altro sesso, e diventa maggiore il pericolo, poichè in vece di pensare ad abbandonarla si va decantando per una lodevole inclinazione, e si dispregano per ipocondriaci gli amanti di una vita ritirata. Io forse passerò per tale appresso di alcuni de’miei leggitori, che non vor-ranno distinguere, ch’io già non raccomando un intero abbandonamento della società, ma l’amor della solitudine in certe ore, acciò che possiamo vie più sentire il piacere della compagnia, riuscir più gradevoli nella conversazione, ed aver tempo da fare una buona scelta di amici.

La nostra attenzione non ha da riguardar solamente la compagnia di persone di sesso diverso: in questo caso il pericolo è tanto noto a tutti, che non è necessario metterlo in vista, ma forse non è maggiore degli altri, che si possono incontrare, stando insieme con persone del sesso medesimo. Le stravaganze, che sovente i genitori hanno a riprendere ne’figliuoli, non provengono quasi tutte da una cattiva compagnia? L’esempio ha de’gran privilegi, e sono in gran numero le persone deboli, che credono dover diportarsi alla maniera degli altri. Quanti giovani, per timore delle beffe de’loro amici, si sono lasciati strascinare in que’vizj, che da principio abborrivano, e vi si sono poscia immersi per abito? quanti dopo essere stati sedotti han fatto la figura di tentatore, ed han messa tutta la loro gloria in sedurre altrui? Sono più mosse dall’amore della compagnia, di quello che dalla speranza de’piaceri le nostre Dama a correre in folla ogni sera alle mascherate, a i balli, a i ridotti l’Inverno, e la State a Wauschall, Ranelay, Cupers-garden, Maryle bon, Gadlort-Wels vecchio e nuovo, Goodmansfields Bettole diverse, ovvero luoghi di piacere: le due prime, e Maryle-bon sono più frequentate dalla buona compagnia Sadlers-Wells Grondmanns fields son due teatri, dove si rappresentano Farse, e specie di Pancomini con danze ec. , e vent’altri luoghi di tal fatta, i quali, in questo secolo, in cui altro non spira che lusso, sono tanti zimbelli per tirare lo stordito, e l’imprudente, per farli indi passare ad altri più biasimevoli eccessi. Imperciocchè si trovano delle persone di qualità (come ne sono stata informata dal Gnomo presidente de’piaceri notturni) le quali, venute in questi luoghi col solo oggetto d’una ricreazione innocente, si sono poscia lasciate portare dall’amore della compagnia o a fermarsi in questa casa, o a passare in altri luoghi di piacere, e non è esagerazione il dire, che vi sieno restati fino che l’Aurora, affacciandosi all’Orizzonte, si è vergognata di vedere a questo segno pervertito l’ordine di natura, nè di là sarebber partiti, se la stanchezza del loro corpo, il peso degli occhi, e ’l disordine della gente di loro seguito, non li avesse costretti a ritirarsi alle proprie case, dove preso appena un brieve riposo sono le-vati, vestiti, e usciti di nuovo in cerca d’altra compagnia, e d’altri divertimenti.

Il Ciel ci preservi, e non faccia cadere in simili eccessi tutti quegli, che abborriscono il ritiro. Qualche volta la fortuna ci assiste più che non meritiamo, togliendoci dinanzi ogni tentazione. In questo caso la nostra negligenza non produce altro danno, se non la perdita di que’solidi piaceri, che gusta una persona, quando conosce d’essersi diportata conforme alle massime dell’onore, e della ragione.

Ma supposto ancora che da questo numero vogliamo eccettuare alcune giovani, e quelle particolarmente, che dalla natura furon dotate di rara bellezza, e dalla fortuna hanno avuto il privilegio d’una nascita illustre, e che dal primo momento, in cui han cominciato a far uso della loro capacità, per una cieca condiscendenza de’loro genitori non han sentito altre voci che di lode e di adulazione, e si figurano d’esser messe al mondo per essere idolatrate, e si credono tutto permesso: se vogliamo, dissi, eccettuare queste poche persone allevate in questa maniera, che possiamo dire in difesa di quell’altre, che hanno avuta una educazione migliore, e sono di una età più matura? Come si può scusare una vecchia matrona, che altro non faccia, che correre da un luogo all’altro, o una moglie che dovrebbe pensare all’economia della sua casa, ed al governo della sua famiglia? Che figura ridicola non fa una madre di cinque o sei figliuoli in una corsa notturna? Non è una stravaganza, che una persona che ha le sue occupazioni, abbandoni qualunque pensiero di economia, o almeno mostri di non curarsene, e si esibisca di essere a parte di tutti i divertimenti, ed entrare in tutte le compagnie di piacere? E pure non sono rare le persone di tal fatta: siccome l’ordine, e l’economia esigono riflesso, e ritiro, vogliono piuttosto andare in rovina, che esporsi a due cose riputate, moleste e nojose.

Una vedova di mia conoscenza, giovane, ricca, bella, e spiritosa, appena vide i suoi abiti di lutto perdere un poco del suo lustro, che non ha avuto riguardo di prendere un nuovo marito. Se ella avesse voluto pensare un poco a ciò che faceva, non avrebbe trovato in questo secondo marito qualità alcuna da promettersi uno stato felice: non era ancora passato un mese dalle lor nozze, che questo nuovo sposo, l’ha trattata aspramente, scacciò di casa i di liei piccoli figliuoli, ed ha vilipesi i di lei parenti, che venivano a rappresentare a questo furioso l’ingiustizia, e la crudeltà del suo procedere. Pare che non meriti tutto il compatimento per essersi così incautamente condotta: ma considerando il suo dolce temperamento, non si può a meno di non compassionare la sua fortuna. Una delle sue più confidenti amiche si prese un giorno la libertà di domandarle, come mai avesse potuto mettersi in balia d’un uomo sì indegno? ella diede questa corta, ma sincera risposta. Ah! è una gran noja vivere sola. Sarebbe stato facile soggiungerle, che non è essere sola, quando si ha una madre con cui consigliarsi, e tre amabili figliuoli con cui divertirsi nelle ore più melanconiche: ma questo rimprovero non poteva se non accrescere la di lei afflizione, e poichè il suo male era senza riparo, bisognava piuttosto consolarla. Non vorrei, che questo breve cenno del di lei infortunio le rinovasse il dolore, ma s’ella è un esempio funesto de’pericoli, che s’incontrano, conducendosi senza riflesso, non ho potuto a meno di fermarmivi sopra un momento.

Ancorchè in una persona di età avanzata non sia tanto pericolosa questa smoderata passione per la compagnia, ella è però molto ridicola. Io conosco una Dama, per sua propria confessione di sessanta cinque anni, la quale in uno spazio sì lungo di vita non ha saputo acquistarsi di che trattenersi due soli minuti. Ella è vedova da molti anni, ella ha un sufficiente assegnamento per un decente mantenimento, non ha figliuoli, nè alcun altro imbarazzo, e potrebbe viver nel mondo tanto onorata, quanto è dispregiata, se volesse riflettere alla condotta, che deve tenere una donna della sua età, del suo stato. Ma in vece di vivere con la regolarità che conviene, corre da un luogo all’altro, prende nello stesso tempo diversi appartamenti in tre o quattro differenti contrade, passa una notte a San James, un'altra a Convent-Garden, un’altra forse a Westminster, e non è paga ancora di questa varietà. Ella attualmente ha stanza aVillaggi differenti ne’ contorni di Londra: Richmond e Kensington sono palazzi Regj. Richmond, Hammersmich, Kensigton, e Chelsea: ella le visita in giro due o tre volte al mese: così la sua vita è un vortice continuo, che passa da un’abitazione all’altra, se pure alcuno di questi luoghi merita questo titolo. Anzi pare che ne abborisca per sino il nome, poichè non è quasi mai alla sua casa, rarissime volte vi mangia, e s’introduce quasi per forza nelle case altrui, alle quali manda preventivamente delle provigioni sufficienti a tutta la famiglia, per esservi accolta volentieri. Ma siccome le persone, che fanno figura nel mondo, non vorrebbero accettare favori di tal natura, e chi ha buon senso vuole conservarsi la libertà di parlare familiarmente co’suoi di ca-sa, e di trattare con quegli amici, che gli sono più cari, non si trovano se non persone in bisogno, o tanto sciocche quanto è la nostra vedova, che vogliano permettere ad altri di venire in tal guisa nella usa casa. Povera Dama! Ella getta scioccamente una rendita onorevole, ella rinunzia alla buona opinione di avere uno spirito aggiustato e prudente, e niente per altro, che per essere in libertà di parlare quanto le piace senza essere contradetta, e possa non esser mai sola, se non quando dorme. Lo so da persone degne di fede, che appena ella esce del letto, che in busto, ed in gonella, corre da una sua vicina, per non poter patire la solitudine neppur quando si veste.

Non mancano maliziosi, che interpretano questo abborrimento alla solitudine per un rimorso di coscienza, che riduce a memoria qualche delitto passato: io non sono di questo parere, ma non sono ben persuasa, che nè questa vecchia stordita, di cui ho parlato, nè molte altre, che vivono alla stessa guisa, abbiano mai fatto male ad alcuno. Chi è incapace di pensare, è incapace ancora di fare una cattiva azione premeditata: e siccome queste persone non riflettono mai, e non operan da se medesime, altro non fanno che ricevere le impressioni altrui. Prima di fare una così crudele censura, bisognerebbe esaminare, non dirò la vita, e ‘l carattere delle persone, perchè in ciò possiamo ingannarci, ma il tempo, in cui è cominciata questa avversione alla solitudine. S’ella ha principiato dalla infanzia, non può procedere se non da una debolezza di spirito, e ben merita la nostra compassione: ma se una persona, che per l’avanti amava la contemplazione, e’l ritiro, cangia poscia gusto, che al solo sentire di abbandonare la compagnia si contorce, e schiva la solitudine, come fugirebbe da una casa, cui si fosse appiccato il fuoco, si può sospettare con qualche ragione, che un tal cambiamento proceda da un qualche delitto secreto, e che la più insipida conversazione abbia da questi tali a preferirsi a i rimorsi, che provano nel ritiro.

So benissimo, che oltre l’incapacità di riflettere, e la rimembranza di aver commesso ciò, che fa diventar una pena la riflessione, evvi ancora un altro motivo di così fare, cioè quando proviamo qualche afflizione. Esser capace di meditare su le proprie disgrazie, egli è un avere quella forza di spirito, che conviene alla dignità dell’umana natura; ma tutti non hanno tanto coraggio, e chi lo avesse ancora, facilmente soccomberebbe al peso della propria afflizione, in pensando a ciò che li attrista. Questo è il caso di molti, che sono in credito d’essere giudiziosi: e perciò passa comunemente per ragionevole questa scusa: mi perdonino però se dico, che su questo punto s’ingannano, benchè in altro possano avere molto discernimento. Se il tumulto, e la confusione possono dare qualche sollievo, egli è di corta durata, e in vece di liberarsi dal peso, sotto i cui gemono, non fanno che accrescerlo, e raddoppiarlo. A tale eccesso di stravaganza e di stupidezza giungono alcuni, che cercano di perdere la memoria di una disgrazia, precipitandosi in altri mali, forse più perniciosi. Voglio dire il di quelli, che si mettono a bere, e ad altri disordini del pari nocivi alla sanità, e alle fortune. Ma che mezzo improprio a recarci sollievo! Lo dicano que’medesimi, che ne fanno la sperienza. Se questi potessero superar le medesimi, e riflettere, prima che la cosa si avanzasse, potrebbero ritrovare qualche più sodo conforto. La lettura de’nostri più accreditati Poeti non servirebbe ella a distrarci ne’momenti della nostra malinconia molto meglio che una vana, e sterile conversazione? Gli eccellenti trattati di Filosofia, che si hanno alle mani non darebbero maggior coraggio, di quello che possa ispirar la bottiglia? E più di tutto una perfetta sommessione, una rispettosa rassegnazione alle distribuzioni della Provvidenza, che tanto ci viene raccomandata, non sarebbe infinitamente più propria a calmare le turbolenze del nostro spirito, che tutti i vani divertimenti, di qualsivoglia genere sieno?

Io non pretendo, che debba starsi continuamente a impallidire su i libri; una troppa lettura, ancorchè de’migliori autori è capace di rintuzzare la vivacità dello spirito, e stancare quell’attenzione ch’è necessaria per trar profitto dalla lezione. Alcune buone massime, e ben digerite colla riflessione, restano nella memoria, e non solamente servono di rimedio contro de’mali presenti, ma di preservativo contro di quelli, che il tempo ci prepara. Diranno alcuni, che un tale suggerimento non può servire se non alle persone di condizione, e ch’è impossibile il figurarsi, che quelle di rango inferiore abbiano nè tempo, nè capacità per così regolarsi. Non posso negarlo, ma è però vero, che coloro, i quali mancan de’mezzi, non possono come i primi consumare il loro tempo in tentativi inutili per iscordarsi de’loro travagli; e se parliamo di capacità, dobbiamo supporre, che ogni uno intenda il commerzio, ovvero il mestiere in cui è stato allevato; e se a questo si applicassero con tutta la loro industria, troverebbero il miglior sollievo contro de’mali, che sentono attualmente, e il mezzo più sicuro a preservarsi da quelli, che possono accadere.

Dinota sempre una certa piccolezza di spirito, imperdonabile ancora alle per-sone della condizione più vile, il procurar di soffocare la memoria d’un’afflizione forse leggera, precipitandosi in eccessi di conseguenze più dannose degli stessi mali, che opprimono, il che, in vece di recar sollievo, aggrava certamente lo stato presente. Ma reca maggiore stupore, che persone, le quali non hanno in questo mondo cosa alcuna, onde patiscano incomodo, non possano trovar piacere a contemplare la tranquillità del loro stato. Pur troppo egli è vero, tanti sono nel mondo, e nel gran mondo ancora, che hanno tutto ciò, che possono desiderare, e sovente ancora più di quello che meritano, e che mai possono sperare, e con tutto questo pajono insensibili a i favori ricevuti dal Cielo, o alle obbligazioni contratte co’loro benefattori. Questo a mio giudizio è un’indolenza di temperamento, dalla quale non si può preservar quanto basta, poichè costoro diventano senza saperlo ingiusti ed ingrati, sono soggetti a i rimproveri di quanti li conoscono per omissioni d’ignoranza, il che forse non avverrebbe, se attendessero dove arriva il loro dovere.

La bella e degna vedova, che mai non manca di intervenire alla vostra piccola società, inclinava a credere, che questa mancanza di riflessione nascesse dalla poca attenzione d’instillare per tempo la necessità che abbiamo di rientrare qual-che volta in noi medesimi, ma fummo tutte di opinione differente, e non ci fu difficile persuaderla, che quando la gioventù non sia naturalmente portata a riflettere, non lo sarà nè pure con tutte le lezioni, e con tutti gli avvertimenti, e che se trovisi un temperamento debole, un ritiro anche di poche ore verrebbe a rendere stupida una persona, senza ottenere di farla seriamente riflettere.

Ma con tutto quel che si è detto, e dir si potrebbe in tal proposito, questo è un difetto, che facilmente trova scusa presso di tutti. Una persona, che ami di sempre essere in compagnia; e purchè non sia sola, dovunque si trovi è contenta, si considera come una creatura di ottimo naturale, ed incapace di far male ad alcuno; e quantunque non si lodi per alcuna straordinaria virtù, se perde qualche cosa dalla parte del rispetto, la riacquista da quella dell’amore. Le persone di questo carattere hanno di rado nemici, e la ragione è chiara: sono elleno generalmente graziose, e gioconde, non si oppongono mai a quanto si dice, o si fa, e accordano quanto loro si domanda: le persone d’intendimento mediocre amano la loro conversazione; le più deboli non si fanno suggezione, e le più savie qualche volta si divertiscono; in somma ogni uno con esse vi trova il suo conto, ed esse dal canto loro son contentissime di tutto quello, che dico-no, e fanno, come da infiniti esempj apperisce.

Nasce Belinda da una famiglia nobile, ella non è una bellezza, ma piace, ha non so che di grazioso nel suo tratto, che molti battezzano spirito: opinione che si è acquistata con qualche vivezza, che per non riflettere, e per dire tutto quello, che le viene in testa, tal volta l’esce di bocca, e viene riferito poscia in altre compagnie. Ella è comparsa di buon’ora nel gran mondo, a Rinaldo non dispiacque il di lei volto, e la di lei gioventù, ma poichè questo gran personaggio crederebbe di offendere la sua dignità, attaccandosi ad una sola amante, non durò gran tempo la loro pratica. Altre sarebbero state afflittissime vegendosi abbandonate sì presto; se non per amore, almeno per ambizione si sarebbero dolute di perdere un adoratore sì illustre, ma Belinda scherzava, motteggiava, e stava lieta come per l’avanti, e non si dimostrava più sensibile a questo cangiamento di quello che si fosse dimostrata a i rimproveri delle sue amiche alla prima notizia della di lei pratica con Rinaldo. A lui successe nel cuore di questa bella Lavallio tanto portato all’amore, e tanto incostante quanto Rinaldo, se pure si può chiamare passione quel, che serve solamente a divertire in qualche ora di ozio.

Siccome Belinda era sempre la stessa, sempre allegra, e sempre stordita, e non fa ceva contro alcuno delle censure del mondo, usò in questa sua corrispondenza così poca circospezione, che ne giunse la notizia a Manella moglie di Lavallio, la quale amava appassionatamente il marito, e n’era gelosa a segno, che un’occhiata data ad un’altra Dama la considerava per una irremissibile ingiuria fatta a se.

Un’altra meno trasportata nelle sue passioni si sarebbe avvezzata a tollerare pazientemente questi motivi di rammarico, poichè spesso nascevano, e guadagnava sì poco a pubblicare quanto sapeva degli amori di suo marito, che avrebbe dovuto per prudenza tacere, ma la sua vivacità non le permetteva di sofferire tranquillamente la menoma ingiuria fatta o al suo spirito, o alla sua bellezza. Acremente lo rimproverò a cagion di Belinda, e forse fu questo il motivo, che per vendetta egli durò nella pratica con questa Dama, più di quello che avrebbe fatto per genio. Dall’altra parte Belinda, sapendo la gelosia, e la rabbia di Manella andava trionfante della possanza de’suoi vezzi, e lungi da sentirne alcun rimorso; o la menoma vergogna, altro non faceva questa imprudente che ridere, e motteggiare su tal proposito.

Veggendo Manella, che quanto ella poteva dire a suo marito faceva piuttosto un effetto contrario al suo desiderio, prese la risoluzione di venire agli estremi per rompere quella tresca; sapeva che Rinaldo aveva avuto in passato qualche genio per questa Dama, e quantunque dimostrasse, d’aver deposta ogni passione per la medesima, immaginavasi non ostante, ch’egli potesse piccarsi, che una Signora, onorata dal suo amore, si abbassasse alla pratica di un Cavaliere di rango molto inferiore a quello del suo primo amante, sicchè sperava, ch’egli avrebbe ordinato a Lavallio di abbandonare questo rigiro, e molto più avendo un pretesto plausibile delle querele della moglie. Gittatasi per tanto a’piedi di questo Signore lo informò di tutto, e lo scongiurò, versando dagli occhi un torrente di lagrime, di usare la sua autorità su questo marito infedele, per obbligarlo a rimettersi ne’suoi primi impegni, e lasciare di tormentare il cuore d’una moglie da lui presa più per amore, di quello che per interesse, e che non aveva mancato mai a i doveri del suo stato.

Intese facilmente Rinaldo la natura di questo affare, ma finse altrimenti. Cercò di persuadere Manella essere i suo sospetti senza fondamento, ma non era alla donna da lasciarsi dar ad intendere così facilmente ogni cosa, replicò le sue istanze, gli rappresentò di nuovo le ragioni, che aveva, di non poter dubitare di questo rigiro, e tanto lo importunò, che gli promise di raccomandare a Lavallio d’essere più guardingo nel suo procedere.

Non è certo, se questo gran personaggio v’abbia mai pensato, ma il caso, o l’imprudenza di questi amanti diede alla gelosa Manella un’occasione bastevole per dimostrare tutta la collera, che nudriva contro di queste persone, da cui tenevasi offesa. Entrata un giorno in una bottega, dove ella era solita di provvedersi di alcune galanterie, e non trovavasi la padrona, salì senz’altro la scala e andò verso una camera, dove soleva quella donna tener molte di queste sue merci. Ella vi era stata altre volte, ed era ben pratica del luogo ricercato, ma arrivata per accidente alla porta d’un’altra camera solamente socchiusa, tal che fu cosa facile aprirla, vide un oggetto inaspettato, suo marito e Belinda, il che la confermò nella sua prima opinione. Manella sorpresa di colà trovarli, essi vergognandosi di essere colà trovati, stettero qualche momento sospesi: ma la mercatantessa accortasi, che la Dama saliva la scala, e temendone le conseguenze, entrò a precipizio nella medesima stanza, e cominciava a fare qualche frivola, scusa, come sarebbe, di gridare a Lavallio, ed a Belinda, o Cielo? Come siete venuti quì? E voi, Signora, volgendosi a Manella, voi avete certamente fallita la stanza; in questa camera non viene alcuno se non per … Per commettere qualche indegnità, donna infame! gridò Manella tanto trasportata dalla violenza della passione, che appena poteva parlare. Si avventò poscia contro di essa, contro di Belinda, contro del marito, gridando, maledicendo, graffiandoli, gettando a terra i nei, la polve, e quanto trovò su la tavoletta, così che Lavallio finalmente scossosi dal suo stupore, e dalla sua confusione, la afferò, e la minacciò di qualche vendetta, se non achetavasi: Crebbe in lei il furore a questa minaccia, e a proporzione la forza, si disciolse da lui, e veduta la sua spada, la sguainò furiosa, e si avventò con tal empito contra Belinda, che potè appena Levvallio salvar la vita della sua inamorata. Disarmò finalmente questa furiosa Amazone, e con tutta la superiorità di sua forza restò in questo dibattimento ferito le mani. In questa contesa, allo strepito che facevasi in quella stanza, misto di grida, d’imprecazioni, di urli, era facile che si movessero i vicini. Siccome questa mercatantessa guadagnava infinitamente più per gli avventori segreti, che per il suo commerzio, e teneva la sua casa principalmente per i congressi furtivi di persone di qualità, Rinaldo, che in quel tempo acceso di nuova fiamma si era ridotto nella casa medesima con la persona amata, sentì da una camera vicina tutto questo fracasso, nè sapendo il motivo corse cola spada alla mano per rilevare la verità.

Entrò nella stanza in quel momento appunto, in cui Lavallio strappava di mano alla moglie quel fatale stromento, e veduto quali erano già attori di questa scena, non si prese altro pensiero di saper cosa fosse. Al di lui arrivo però achetatisi un poco, Belinda colse questa occasione di fuggire, il che non aveva potuto far prima, occupata sempre la porta, e impedita l’uscita dalla furiosa Manella. Cominciò allora la mercantessa a spiegare questo accidente un poco meglio, di quello che aveva potuto far prima. Disse che Belinda, sorpresa all’improvviso da uno svenimento, le aveva chiesto di riposarsi sul suo letto fino a che si rimettesse, e che occupata poi ne’suoi affari non aveva veduto entrare Lavallio, ama figuravasi, ch’egli, mal pratico della casa, fosse in fallo entrato in quella stanza. Lavallio profittò di questo partito, e protestò ch’egli pure cercava quella stanza, in cui, come dissi, teneva questa donna porzione delle sue merci, e aperta la prima porta, che aveva incontrato, e veggendo una persona coricata sul letto se l’era accostato per curiosità di conoscerla, e motteggiarla che fosse esposta in una stanza non chiusa; nell’avvicinarmele continuò egli, riconobbi Belinda, e da’suoi gemiti accortomi de suo male, cercai del suo stato, come voleva la civiltà, e l’umanità: nel momento che a lei mi avvicinava per farmi intendere entrò Manella nella camera con una furia indecente al suo sesso, ed ha caricata questa povera Signora, e me delle maggiori ingiurie, e delle più atroci calunnie, che la più nera malizia potesse inventare.

Nel tempo ch’egli parlava, Manella crollava la testa, e si mordeva per dispetto le labbra, ma alla presenza di Rinaldo non osò di continuare gl’incominciati rimproveri, e si contentò di dire, che ben sapeva il Cielo quanto ella era offesa, e che un giorno o l’altro esso non avrebbe mancato di vendicarla. La mercantessa, non sapendo le ragioni, che aveva Rinaldo di prendere la sua difesa, cominciò allora a dimostrare risentimento della diffamazione, che Manella faceva della sua casa, e apertamente diceva, che nessuna donna onorata poteva essere sicura da i furiosi trasporti d’una gelosa; e Lavallio domandò perdono a costei della ingiustizia fattale da sua moglie, condannando se medesimo di aver dato, a cagione d’un errore fatale, occasione a questo disordine. Godeva infinitamente di questa scienza graziosa Ronaldo, ma non volle aumentare l’afflizione di Manella, dimostrando di non badarvi; ed ella aveva tanto spirito per comprender, che in quel luogo erano inutili le sue querete, e va-no il suo sdegno, onde piena di rabbia, di dispetto uscì della camera, dando una brusca, e significante occhiata a Lavallio, e alla padrona di casa, per far loro capire quanto ella fosse poco soddisfatta di quelle deboli scuse, ed era a segno tale fuori di sè, ch’era quasi uscita della porta, nè aveva badato di fare a Rinaldo i complimenti dovuti al suo rango. Alla di lei partenza respirarono dalle angustie, in cui li aveva tenuti; dovette Lavallio sofferire i motteggi di Rinaldo, e raddoppiare la mancia usata alla mercantessa per il disordine cagionato da sua moglie.

Non si è saputo, se questo accidente abbia messo fine alla sua pratica con Belinda; ma se durò ancora, lo fecero con tanta cautela, che non furono giammai discoperti. Manella per vendicarsi in qualche maniera divulgò questa avventura, quanto mai seppe, così che Belinda ebbe da’suoi parenti molti amari rimproveri per la sua sregolata condotta. Ma ella era così insensibile alla verecondia, ovvero al timore di perdere l’affetto, e la stima della sua famiglia, che non attese punto alle loro esortazioni, non pensò a fare il menomo cambiamento nella sua maniera di vivere, o impiegare un momento solo a riflettere a se medesima. Continuò per a tanto vivere come prima; sempre indolente, e stordita, altro non faceva che ridere, cantare, ballare, amo-reggiare per due anni interi, ne i quali non le avvenne cosa alcuna di molta importanza; e tanto poco stimò le altrui dicerie, che finalmente con la sua indifferenza stancò la maldicenza degli altri, non si parlò più di lei, come se non avesse mai dato materia a i comuni discorsi, nè fu un oggetto alle conversazioni di rammemorare ciò ch’era pubblico, e di cui non in passato non si faceva mistero.

Avrebbe forse continuata questa maniera di vivere stravagante fino che l’età, e le rughe del volto l’avessero persuasa a ritirarsi dal mondo, se’l Conte di Loyter non avesse per lei dimostrata una passione diversa da’suoi passati amanti. Pareva questo Signore innamorato di Belinda a segno, che non poteva per qualche ora da lei staccarsi senza un grave patimento, e la sua condizione, e la sua affiduità fecero ritirare tutti gli antichi adoratori di questa bella. I parenti, e gli amici di Belinda vedevano con sommo piacere il rispetto e la tenerezza insieme, con cui egli la corteggiava, ma non restarono egualmente contenti, quando interrogandola su questo punto, rilevarono, ch’egli non le aveva parlato mai di matrimonio, ed ancorchè le avesse mille volte giurato di non poter vivere senza di lei, non aveva però detto una volta sola di volere con essa vivere in maniera da far onore alla di lei fami-glia. Ma poichè dimostrava per essa una stima più sincera di tutti gli amanti passati, la consigliarono, anzi la pregarono di fare il possibile per accrescere in lui questa passione, e per suggerirgli degli onorevoli disegni. Belinda promise di eseguire questi consigli, ma non vi pensò mai più; ella era in tal proposito perfettamente tranquilla non meno del suo amante, ch’ella lasciava in una intiera libertà.

Dispiacque altamente questo procedere a coloro, che desideravano di vederla con un vantaggioso matrimonio riparare a i falli della vita passata, e uno d’essi più caldo degli altri imprese di fare ciò, ch’ella non si sapeva risolvere, e colse la prima occasione di parlare al Conte di questo affare. Questi, che non voleva dichiararsi, cercò da principio di cambiar discorso, ma preso alle strette finalmente rispose, cha siccome egli, e Belinda erano le principali persone interessate, e reciprocamente contente delle loro intenzioni, non avevano a comunicarle ad altri. Piccossi un poco di queste ultime parole il parente di Belinda, e fatte dell’espressioni assai vive dall’una e dall’altra parte, poco mancò, che non si domandassero soddisfazione reciprocamente, siccome vuole l’uso tra le persone d’onore. D’allora restò sospesa la loro pratica, il parente di Belinda le rimproverò questa sua trascuratezza, che aveva potuto per lui essere di qualche fatal conseguenza; ed il Conte per far vedere che non curavasi di digustare quella famiglia, persuase questa Signora a passare nella di lui casa, e colà vivere senza riguardo, che il pubblico lo risapesse.

Ognuno la considerava allora come di lui concubina, nè si poteva giudicare altrimente. Ella aveva un appartamento vicino a quello del Conte, per poter agiatamente passare da uno in l’altro senza essere veduti da i domestici, ella andava col Conte in tutti i luoghi pubblici; ella comandava indipendentemente a tutti di casa; ella era con lui a tavola, qualunque compagnia vi fosse; e in tanto non si faceva mai tra di loro parola di matrimonio, e a fronte di tutte queste circostanza può darsi che fossero innocenti. Vissero in questa guisa sino a che di loro non più si siccome avviene quando la cosa è già andata in uso, quando all’improvviso il Conte si dichiarò di volere sposare Belinda. Ordinò un nuovo equipaggio, ed abiti nuovi, invitò i parenti comuni, e in fatti si maritarono, quando meno si aspettava.

Non si può negare che in questa occasione operò il Conte con molto spirito, e con generosità: non volle essere per forza costretto a dare una definitiva risposta della sua intenzione intorno una donna del carattere di Belinda; ma quando poi vide se in sicuro dalle persecuzioni, e lei abbandonata, come se fosse perduta, diede allora a divedere la sincerità del suo affetto, e risarcì intieramente il torto fatto alla riputazione di questa Signora. Così potesse scusarsi Belinda; ma quanto è difficile! Ella si contentò di vivere in casa del Conte, senza alcuna sicurezza, anzi senza la menoma promessa d’essere un giorno la moglie di questo Signore, e forse forse ella restò più sorpresa degli altri, quando lo vide risoluto a queste nozze. Con tutta questa mutazione di sua fortuna ella non ha cangiato nè il genio, nè la maniera di vivere; pretende lode per non essersi insuperbita di sua grandezza, ma si merita molto maggior biasimo, se non pensa, che il suo onore al presente ha per oggetto il marito, e che ogni sua azione impropria, ed inconveniente viene a cadere su questo Signore.

Io per me credo difficilissimo il potersi provare, ch’ella mai l’avesse offeso, ma ogni donna maritata ha debito di portarsi in maniera, che non se ne possa sospettare. Belinda ha tanto discernimento che basta per intenderlo, ma è troppo stordita per ricordarselo. Adonio di temperamento amoroso, ed incostante del pari a suo fratello Rinaldo, e più adorno di quelle qualità, che piacciono alle donne, ha ritrovato in Belinda, dap-poi ch’è moglie d’un altro, quelle perfezioni, che da prima non vi aveva osservato. Ella tanto si compiace di conversare con esso, e di sentirsi da lui commendare, che non pensa più a’suoi doveri col marito; ed è tanto piena di questo amante novello, che non si ferma giammai in casa, se non è per ricevere qualche sua visita. Suo marito si trova spesso con essi loro a i divertimenti, ma ciò non basta a togliere ogni sospetto per gli altri tempi, in cui ella trovasi senza il marito. Siccome il Conte non sente ancora alcuna gelosia, battezza per tratti della di lui somma politezza l’espressioni tenere, che Adonio dice a sua moglie alla sua presenza; attribuisce alla vanità del sesso il piacer ch’ella prova in sentirle; qualche corsa, che fanno insieme, al loro genio vivace; e ride, quando le sente raccontare.

Non tollera con tanta tranquillità la bella, giovane, ed affettuosa Amadea l’infedeltà del suo caro Adonio, ch’ella adora; languisce in secreto senza aver coraggio di lamentarsene, e troppo tardi si pente d’essere stata cotanto credula per lusingarsi di fissare un cuore così incostante. Corre una voce, che sono due mesi appena da che Adonio sordo a qualunque riflesso, s’è esposto per soddisfare la propria passione a rovinarsi per sempre nell’ordine di quelli, da cui dipende, i quali l’avevano promesso ad un’- altra Dama; e che Amadea vedendosi in pericolo d’essere ripudiata vergognosamente da una autorità, che non soffre appellazione, l’uno e l’altra si sieno esposti a tutti gli accidenti, che indi potessero nascere, accoppiandosi con un matrimonio clandestino. Se questa voce è vera, qual cambiamento nel cuore di Adonio! La sacra cerimonia non ha tanta forza da fissarlo; egli pensa di non essere tenuto alla costanza, trattandosi d’una moglie a lui inferiore. Dove potrà ricorrere questa Signora per ottenere giustizia di un marito, che non può pubblicare per tale, senza disgustare quelli, la cui benevolenza vuol conservarsi?

A quali tristi conseguenze non si espongono le persone particolarmente del nostro sesso, quando si abbandonano alla più tenera di tutte le passioni? Amadea pensa di aver soddisfatto alla sua virtù, non accordando al suo amante favore alcuni, prima che il matrimonio lo faccia diventare un debito; ma che servirà a lei un matrimonio, ch’ella non ardisce pubblicare, allorchè il Sacerdote, che ha fatta la cerimonia, sarà costretto a negare, e che Adonio in vece di ratificare, e cercar di meritarsi il perdono con la sua perseveranza in amore, e con la sua pazienza in tollerare gli effetti del risentimento de’scoi congiunti, si dimostrerà contento di vedere annullato questo suo matrimonio? Qual sarà l’afflizio-ne, e la disperazione di una persona così abbandonata da chi sarebbe in debito di proteggerla, e di difenderla?

Da poichè Adonio si è attaccato a Belinda ella di già sente un presagio di ciò che le deve accadere: di già il suo cuore è occupato dalla gelosia, accompagnata da riflessi, e dalle più crudeli angoscie, in vista de’mali imminenti, ch’ella medesima si ha procacciati, non consultando se non una imprudente inclinazione, forse congiunta con una mal digerita ambizione. Ella non è certamente quale Belinda, vana, incostante, stordita; ma se avesse pensato ragionevolmente, non avrebbe acconsentito giammai di maritarsi, quando il carattere di moglie doveva produrre effetti così funesti per essa.

Siccome il disegno principale di queste speculazioni è di correggere gli errori dell’intelletto i men facili a rilevarsi, e in conseguenza i più pericolosi, così non si propongono questi esempj, se non per dimostrare a qual segno il difetto di pensare, come conviene nella nostra gioventù, ci possa rendere col tempo infelici, senza che allora le riflessioni possano recarci rimedio alcuno. Diranno gli Anatomici, che se nella struttura del cervello vi sia qualche difetto, questa incapacità di riflettere è meccanica, e per conseguenza senza riparo; ma da tale ragionamento si avrebbe a conchiudere, come pur troppo fanno alcuni, che tutti i nostri vizj dipendano dalla nostra costituzione: opinione, che non potrò mai addottare, poiche viene a far cadere tutti i nostri errori su l’autore dell’esser nostro, a roversciare la dottrina del libero arbitrio, in una parola a mettere del pari l’uomo e la bestia, la quale non opera se non per istinto. Non niego, che la struttura degli organi può darci più o meno d’inclinazione al bene o al male, e che un’anima più facilmente può dimostrare la sua ragionevolezza in un corpo che in un altro di costruzione diversa, con tutto ciò si può ajutare la nostra anima a vie più fortificarsi nella sua inclinazione al bene, purchè comincino l’opra quegli, cui è commessa la cura della nostra gioventù, e noi la proseguiamo col vigor necessario, e con l’applicazione dovuta.

Un esempio di questa verità è il Filosofo Socrate; si sa che in gioventù abbondonato ad ogni genere d’intemperanza, col suo coraggio, e con la sua ragionevolezza trionfò di tal vizio, e divenne un esempio di virtù, e di astinenza.

Tutto il mondo accorda, che la cognizione di noi medesimi è la più utile di tutte, e su questo punto dovrebbero versare le prime lezioni, che ci vengono fatte. I genitori, i direttori, non potranno mai giustificare la loro negligenz-za in tal proposito. Dovrebbesi esaminare a fondo il cuore de’giovani, e quando si arriva a scoprire la loro inclinazione favorita, sarà facile sradicarla, ovvero corroborarla, a misura che ella tende al vizio, ovvero alla virtù. Vi sono, egli è vero de i naturali tardi, e difficilissimi da animar; altri cotanto vivaci, che non si possono fissare; e poichè sono direttamente opposti, bisogna adoperare metodi totalmente contrarj. Ma non si può dispensare da un tal dover col pretesto della sua difficoltà, e non è forse tanto difficile l’ottenere il fine bramato, se consideriamo, che per dare spirito, e vivacità ad un temperamento tardo, non bisogna fargli vedere se non oggetti giocondi, e brillanti, ed all’opposto presentare oggetti i più serj, e più persuadenti ad uno spirito leggero, e inconsiderato.

Quando l’animo sia dominato da una eccessiva ilarità, e dall’amor del piacere, bisognerebbe avvezzarlo per tempo a riflettere alle traversie, a i disastri, e alle calamità, cui è soggetta buona parte del genero umano. La compassione delle disgrazie degli altri, e la certezza, che non si dia condizione, o qualità sicura da i colpi della fortuna, può dare alla nostra maniera di pensare una certa serietà, e molto contribuire a calmare l’impeto del nostro temperamento. Pochi hanno la felicità d’essere composti di ele-menti in giusta proporzione tra loro; quindi col giudizio si dovrebbe supplire a ciò, che manca nella costituzione. Lo stupido, in cui domina il terrestre, ed il flemmatico acqueo dovrebbero tenersi svegliati coll’esercizio, con la musica, con la danza, e co i più giocondi divertimenti, laddove co i contrarj bisognerebbe temperare il collerico, l’incostante, lo stordito. Ma questo metodo, come ho già detto, sarebbe inutile, quando i giovani lasciati in sua balia non facciano tutti gli sforzi per secondarlo. Basta un buon fondamento gittato da chi ha cura della nostra educazione; è tutta nostra colpa, se cadiamo poscia in errore, in irregolarità imperdonabili.

Perciò la riflessione, e la meditazione sono tanto necessarie allo spirito, quanto al corpo lo sono gli alimenti; un breve esame delle nostre inclinazioni non porterà verun pregiudizio al temperamento più malinconico, e recherà un vantaggio infinito ad un temperamento troppo sanguigno. Pensando gl’infelici alle proprie disgrazie, potranno ritrovare qualche utile stratagemma per sollevarsi dalle miserie: ed i felici diverran più beati in contemplare il loro stato.

Vi sono cert’uni, i quali provano tanto piacere a rientrare di quando in quando in sè medesimi, che non vorrebbero, per quanto v’è al mondo, perdere questa libertà. Ho conosciuto un Gentiluo-mo, che aveva una moglie da lui teneramente amata, la cui compagnia gli era d’ogni altra più cara, quando cercava di conversare; e pure si rattristava infinitamente, quando ella andava a disturbarlo in tempo delle sue meditazioni. Egli apprezzava tanto la libertà di pensare, che non poteva tollerare alcun interrompimento, nè pure da quella, che gli era più cara di se medesimo. Mi trovava un giorno in sua casa, quando parendo a sua moglie, ch’egli fosse stato troppo lungo tempo solo, andò con una dolce violenza a levarlo dal suo gabinetto. Io restai sorpresa in vederlo comparire con un’aria più grave del solito, e domandandogliene la cagione. Questa cara creatura, mi rispose, mi toglie la metà del piacere, che provo in amarla, perchè non mi permette di contemplare la felicità, che risento nel possederla.

Come dunque è possibile, che tanti si privino della soddisfazione più grande, di cui possa godere una ragionevole creatura, e in oltre cotanto importante in diverse circostanze della nostra vita, che senza la riflessione non possiamo ottenere un bene, nè preservarsi da un male?

E pure vi sono persone tanto ignoranti per credere, o tanto cattive per insegnare, che chi pensa molto, ed ama la solitudine, sta lontano dal mondo a solo fine di nuocere. A proporzione del posto, in cui son collocati, si credono capaci di formare progetti più o meno dannosi al genere umano. Si accuserà un Uomo di stato, amante della vita sedentaria, di formare qualche cospirazione contro del suo Principe, o della sua patria: per la stessa ragione s’imputerà ad un negoziante, che voglia ingannare i suoi corrispondenti; si dirà che quell’Agente studj nuove maniere di approfittarsi ne i conti, e così discorrendo dalla più sublime condizione al più infimo grado. Pur troppo è vero, che alcuni pochi esempj autorizzano una tale opinione. Abbiam veduto persone, che pensavano profondamente, non aver altra mira che il proprio ingrandimento su la rovina di quelli, che pretendevano di servire; altri che mostravano d’essere gran partigiani della libertà, non pensare, se non a ridurla in servitù; e persone, che predicano continuamente la giustizia, proteggere i più grandi malfattori. Fare un così manifesto abuso della facoltà di pensare egli è un rivolgere contro di noi medesimi quell’armi, che il Cielo ci ha dato, ed obbligare quella sacra ragione, che dev’esser la nostra guida nel sentiero della virtù, ad accompagnarci nel cammino del vizio. Sarebbe infinitamente meglio non pensar mai, di quello che pensare in tal guisa, perchè nel primo caso non si pregiudica se non a se stesso, e nel secondo si cerca di nuocere al genere umano, o di opprimerlo.

L’ipocrisia è detestabile a Dio, ed a gli uomini: lo ha detto una bocca, che non può errare: ed i rei di tal vizio avranno un castigo terribile, e meritano su la terra il dispregio universale degli uomini. Levata che sia a questo Angiolo falso la maschera di benevolenza, e di sincerità, con la quale coprivasi il volto, e nella sua naturale bruttezza comparisca una furia spirante tadimenti, e persidia, sarà tanto più detestato, quanto prima ammiravasi. Sarà odiata, sarà fuggita, quanto era stata amata, e ricercata; ogn’uno cercherà d’essere il primo ad avventargli contro il sasso, e ad insultarlo in ogni occasione. Il furbo non può ingannare alla lunga, e sono inutili tutti gli artifizj quando cerca di ricuperare la stima, che avevasi per esso prima di conoscerlo.

Le persone di qualche distinzione, che notoriamente abbian commesso una qualche azione o indiretta, o ridicola, s’aspettino pure le satire, e le derisioni; e ‘l vecchio Pompilio ha dovuto sofferire da suo figliuolo medesimo un piccante motteggiamento sul suo matrimonio con una anche troppo giovane per essere sua nipote. Pochi giorni dopo di questo inegual matrimonio s’incontrarono padre e figlio nella medesima adunanza. Alcuni, che non avevan dopo le nozze veduto Pompilio, se ne consolarono secondo il costume; si parlò della felicità dello stato conjugale, e uno della compagnia do-mandò al figlio, quando pensasse di maritarsi? Veramente, Signore, egli rispose, questa è una cosa, alla quale non ho ancora pensato, ma soggiunse con un’occhiata satirica, la sola Dama, ch’io bramerei per mia sposa, è la sorella di mia matrigna, e la sola ragione, che m’indurrebbe a farlo, sarebbe l’onore di ricevere da mio padre il titolo di fratello. A questa così pungente risposta, che non si aspettava dalla bocca d’un figlio non seppero contenersi dalle risa nè pure quelli, cui stava a cuore di conservarsi la buona grazia di Pompilio; e smascellarono dalle risa que’, che non si curavano molto nè della sua grazia, nè del suo risentimento. Il vecchio sposo, veggendosi così beffato dal proprio sangue, restò confuso, e senza saper che rispondere, siccome era stato in un altro incontro, quando obbligato a fare la descrizione d’una battaglia, nel tempo che il cannone rimbombava alle orecchie, ed agli occhi si presentavano tutti gli orrori della morte, egli non potè rimettersi dal suo spavento, se non dopo aver traccanata, giusta la dose ordinaria, mezza dozzina di bottiglie di vin di Borgogna.

Non si può mettere in dubbio, che da alcuni anni non sia molto cresciuto il numero delle teste sventate. Abbiamo veduto cose, che al solo raccontarle, altre volte sarebbero state credule favole, e tutti i personaggi de’Romanzj non pa-reggiano alcuni caratteri, che abbiamo sotto gli occhi. Abbiamo molti Cavalieri erranti, i quali simili a Don Chisciote, quando spronava Roffignante per combattere il mulino a vento, si precipitano in pericoli reali, per isfuggire quelli, che sono meramente immaginarj; abbiamo degli ipocriti, e delle persone, che non pensano se non a conservare la vita, de’ quali Hudibrat ci dà un modello imperfetto nel suo Gentiluomo di campagna; abbiamo i nostri Tersiti, i nostri Pandari, e i nostri Demagori, che sorpassono di gran lunga quegli altri, di cui gli Storici, o i Poeti ci han descritto il carattere. Non è facile il decidere, se maggiore sia tra di noi la follia, o la corruttela, e se maggiore sia il numero di coloro, che si acquistano qualche fortuna a spese della loro virtù, o quelli che a forza di stravaganze diventano infelici. In fatti è cosa ordinaria il vedere e alla Corte, e all’armata, e in Città, e in campagna, persone, che si affaticano tanto per perdere sè stessi, quanto gli altri sarebbero per rovinarla. Finalmente quando si dia un’occhiata al mondo, e si consideri il tempo, in cui viviamo, e i capricci del genere umano, bisogna dir col Poeta: non è da maravigliarsi di niente, o conviene maravigliarsi di tutto.

Ma a qual altra cagione attribuire si devono tutti gl’inganni, le colpe, le crudeltà, le oppressioni, le azioni contro natura, le calamità innumerabili, che ci tiriamo addosso, ovvero facciamo cadere su gli altri, se non ad una mancanza di riflessione, ovvero ad un uso cattivo delle nostre riflessioni? Non niego essere di peggior conseguenza l’ultimo abuso del primo, ma poichè siamo agenti liberi, da noi dipende scegliere, se vogliamo essere virtuosi o viziosi, e sarebbe una frivola scusa il dire di non aver avuto coraggio di pensare, per paura di pensare male. È stato formato l’uomo un poco inferiore agli Angioli, ed è sua colpa, se non è solamente un poco ad essi inferiore nella felicità. Questa terra abbondevolmente produce tutto ciò, che abbisogna alla sua natura, s’egli vuole sollevarsi su l’ali della contemplazione, può partecipare in parte delle beatitudini, che si godono in Cielo. Ma lasciamo a i Teologi questo argomento, ed ancorchè sia questa una verità evidente, molti vogliono riferirsi piuttosto al testimonio degli altri, di quello che farne da se medesimi lo sperimento.

Un mio amico, che in compagnia d’altri Gentiluomini Inglesi girava l’Europa, traversando un giorno una delle parti più montuose, e selvaggie della Francia, smarrì i suoi compagni. Allorchè se ne accorse, si figurò che fossero andati innanzi, in tanto ch’egli era astratto in una profonda meditazione, e che per questa ragione non li avesse osservati: spronò per tanto il suo cavallo per raggiun-gerli, e aveva di già fatte molte miglia senza poter discoprirli, nè incontrare persona, che gl’insegnasse la strada, che conduceva alla Città, dove avevano stabilito di fermarsi la notte. Giunse finalmente ad un sito, dove la strada si divideva in tre, e nello stesso tempo cominciò a cadere una dirotta pioggia, accompagnata da un vento impetuoso, così che si vide in necessità di volgersi verso un bosco, che vedeva poco distane, per mettere a coperte se, e’l suo cavallo dalla burrasca, che sempre più si faceva violenta. Si difese qualche tempo sotto quegli alberi folti, ma vedendosi vicino a restare esposto al furore della procella, cominciava a perdere la pazienza, quando intese una voce, che lo avvertiva di volgersi alla dritta d’una piccola altura, che vedeva in distanza di trenta o quaranta passi. Egli mi assicurò di non aver giammai provato tanto piacer della Musica, quanto aveva risentito al semplice suono di una creatura della sua specie, in un luogo selvaggio, e che pareva deserto. Seguì l’avviso, e vide un uomo vestito da eremita su l’uscio d’una grotta scavata sotto di quella eminenza. Il vento, e la pioggia non lo trattenne d’uscire, e andare incontro al nostro povero viaggiatore, lo ajutò a smontar da cavallo, quale legò sotto ad un albero de’più fronzuti, e lo introdusse nella sua oscura abitazione con tutta la politezza del Cortigiano più compito.

Restò sorpreso all’eccesso il mio amico, non solamente di tale accoglimento, ma ancora dell’ultima proprietà di tutto ciò che osservò in quella grotta: ella era divisa in due stanze, nella prima v’era una tavola, due sedie, una credenza guernita di bicchieri, e di alcuni pezzi di porcellana pieni di scuisite frutta; nell’altra v’era un letticiuolo con un materasso e una coperta, oltre una sedia, ed una scanzia di libri vicina ad un piccolo altare ornato d’un Crocifisso. Alla vista d’una così ingegnosa abitazione restò pieno di meraviglia, e siccome parlava benissimo Franzese, cominciò a interrogare il suo ospite, e domandargli in qual maniera poteva provvedersi del bisogno per vivere in quel sito, d’intorno al quale non vedeva nè Città, nè villagi. Risposegli sorridendo l’eremita, che avrebbe soddisfatto tra poco alla sua curiosità, ma che bisognava prima ristorarlo con ciò, che poteva dare quella povera grotta. In così dicendo coprì la tavola d’una finissima tovaglia, d’una insalata, di frutta di varie sorte e secche e fresche, di pane bianchissimo, di formaggio, e d’una bottiglia del più prezioso vino di Borgogna. In una parola, non si poteva nella più abbondante Città presentargli una più squisita collezio-ne di quella, che trovava in una grotta, e in mezzo ad un bosco, entro cui non appariva che vi fossero abitatori.

Cresceva ad ogni momento la meraviglia dello straniero, di che accortosi il creduto eremita, in tanto che mangiavano, gli fece il racconto dell’esser suo. Gli disse, che quel luogo non era il suo ordinario soggiorno, ma che vi andava di quando in quando, e appunto allora che aveva voglia di meditare; ch’egli portava un abito rispettato dai più gran scellerati per mettersi in sicuro da qualunque insulto, in caso che incontrasse alcuni di que’malfattori, che vivono di furto, e di ladroneccio, i quali spesso quando erano inseguiti, si ritiravano in quel bosco; ch’egli chiamavasi il Conte di Montaubin, e che dimorava in un castello quattro leghe in circa distante. Il mio amico, dopo avergli fatto quegli uffizj di complimento, ch’eran dovuti a un uomo di quella qualità, gli significò la sua meraviglia, ch’egli fosse obbligato a venire così lontano, ed esporsi a tanti incomodi unicamente per piacer del ritiro, quando probabilmente poteva con agio farlo in sua casa, solamente che avesse fatto intendere a’suoi conoscenti la sua inclinazione alla solitudine.

Il Conte gli replicò, ch’egli non era pratico del genio Franzese, che ciò era impossibile ad un uomo della sua condizione, che quantunque abitasse in una distanza considerabile da Parigi, o da altra popolata Città, il suo Castello era di continuo pieno di Gentiluomini suoi vicini, e di viandanti che di là passavano, e in oltre che aveva per moglie una Dama di genio sì allegro, e così amante della compagnia, ch’era impossibile restare mai solo. E per maggiore imbarazzo, egli continuò, ho molti figliuoli, e un gran numero di domestici, e quando ancora mi chiudessi nell’appartamento più ritirato che possa avere, non sarei sicuro da qualche interrompimento in una o in un’altra maniera. Lo spirito ha bisogno di riposo, siccome lo ha il corpo: quando io sono stanco di que’piaceri, che devo procuare a’miei amici, io mi ritiro qui per attender alla contemplazione; e quando io ho ripigliato i miei spiriti, ritorno nel mondo, e ne gusto i piaceri con maggior senso, di quello che semai non li avessi lasciati.

Al Gentiluomo Inglese, ancorchè conoscesse l’aggiustatezza di questo ragionamento, pareva una stravaganza, che il Conte si fosse scelto un luogo così selvaggio, e dove era esposto a tanti pericoli, ma il Conte che mostrava d’essere un uomo de’ più compiacenti del mondo, non volle lasciarlo così sospeso, e gli narrò diverse circostanze della sua vita, le quali tolsero ogni difficoltà, che il nostro viaggiatore trovava, per conciliare con la ragione una condotta, che a pri-ma vista sembra tanto bizzarra.

Il Conte, ebbe in sua gioventù una contesa con un uomo di qualità, si batterono, ed egli ferì in più luoghi il suo avversario. Non sapeva se le ferite fossero mortali, ed oltrecchè severissime in quel paese sono le leggi contro il duello, il ferito godeva la grazia del Re, così che non restava molta speranza di ottenere il perdono, in caso che il suo nemico morisse. Si ritirò da Parigi per mettersi in sicuro, e sapendo che verrebbe esattamente ricercato in tutte le case, dove si potesse sperar di trovarlo, venne a nascondersi in questo bosco, accompagnato da un solo fedel suo domestico, il quale era stato allevato con esso lui, e non volle abbandonarlo in questo caso estremo. Tre settimane avevano vivuto colle sole provvisioni, che loro somministrava quel luogo deserto; molti giorni passarono prima di poter rinvenire un ruscello dove dissetarsi; le frutta di qualche arboscello servivano insieme a satollare la fame, e ad estinguer la sete, e dovettero ricoverarsi su gli alberi più alti la notte, per preservarsi da i lupi, che cogli urli si facevano d’ogn’intorno sentire. La sola protezione del Cielo, egli diceva, li aveva conservati in mezzo a tanti stenti, e pericoli. Finalmente si vide alla disperazione; pareva meno torribile la morte d’una vita così penosa, e tentò di mandare il suo domestico ad in-formarsi dello stato del ferito, ed a cercare un altro ritiro, dove potesse almeno più facilmente provvedersi del bisogno per vivere.

Ritornato il domestico recò la nuova gradita, che non solamente era dalle ferite guarito il suo nemico, ma che sapendo egli d’essere stato l’aggressore, impiegava tutti gli amici per ottenere a se il perdono, e insieme al Conte, che pubblicamente si aspettava a momenti di vederli rimessi in grazia, ed ancorchè non convenisse lasciarsi così presto vedere, si poteva però abbandonare quell’orrido ritiro, non più facendosi ricerche della sua persona, e mettersi in casa d’un suo parente, che verrebbe ad aspettarlo all’uscire del bosco, e a condurlo con tutta la cautela in sua casa. Avvenne in fatti quanto prometteva questa relazione: passò appena una settimana nel nuovo soggiorno, che i rei ottennero dalla clemenza Reale la grazia, e divenuti amici tra di loro andarono insieme a gittarsi a’pie`del trono per esprimervi i loro ringraziamenti.

Terminò il Conte la sua narrazione dicendo, che i pericoli, e i travagli sofferti avevano prodotto un considerabile cambiamento nel suo temperamento, e fattolo sommamente serio, ancorchè il passato accidente fosse con felicità terminato; che in temo del suo soggiorno in quella solitudine aveva trovata tanta ma-teria da riflettere, che glie ne restava ancora nell’animo, e indelebile la memoria; che le idee, onde attualmente godeva di trattenersi restando solo, niente avevan per lui di malinconico, e triste, ma gli davano la maggiore soddisfazione, ed una perfetta tranquillità. Ora voi vedete, soggiunse, i motivi, ch’io ho di ritirarmi di quando in quando da i tumulti e dagl’imbarazzi del mondo; non posso a meno di non sentire una forte inclinazione per questo luogo, che mi ha servito di asilo nella mia avversità, e penso di doverne fare per una spezie di gratitudine, il teatro delle mie più gradevoli meditazioni: ho perciò fatto in tal guisa tagliar questa grotta, l’ho fornita come vedete, ho provveduto due sedie in caso che bisognasse ad alcuni quì ritirarsi, come a voi è accaduto; vorrei pure aver pensato ad un secondo letto, poichè vien tardi, e preveggo, che non sia per cessare la burrasca, e permettervi di partire. Ma passeremo la notte alla meglio; ho quì una sufficiente provvigione di vino di Borgogna; con questo e col ragionare aspetteremo il giorno vegnente; verrà allora il mio domestico, e vi pregherò di onorarmi della vostra compagnia in un luogo, dove potrò ricevervi in maniera più convenevole al mio desiderio, ed al vostro merito.

Gli rispose il mio amico, che non poteva far uso del suo invito grazioso, poichè aveva perduti i suoi compagni, e do-veva affrettarsi per raggiungerli alla Città, dove avevano stabilito di fermarsi la notte, e che pensava di arrivarsi sol tanto che avesse potuto rinvenire la strada fuori del bosco. Il Conte di Montaubin gli disse, essere impossibile ciò che pensava; la città disegnata essere alla parte opposta del bosco; non potersi traversarlo senza una guida, anche in pieno giorno per i diversi andirivienti; la strada reale essere e la più corta, e la più sicura, dalla quale siccome erasi allontanato rivolgendosi verso il bosco, così l’avrebbe ritrovata facilmente con l’ajuto del suo domestico; Ma, soggiunse, siccome costui sarà quì di buon mattino al solito, sarà meglio spedirlo a i vostri amici, informarli del luogo ove siete, e persuaderli o venire ad unirsi con voi nel mio castello, che appunto è situato vicino alla strada comune, ovvero aspettarvi, sin che possiate raggiungerli.

Quanto grazioso ed obbligante parse questo progetto per chi lo faceva, parve altrettanto ragionevole e conveniente al Gentiluomo Inglese, il quale, siccome Cavaliere sciolto da quelle moleste formalità, che non s’usano se non tra persone di un’educazione volgare, accettò senza esitanza l’invito, e senza fare l’apologia di questa sua indiscrezione. Passarono con tal piacer quella notte, che appena se n’accorsero, e il Sole non era ancora su l’orizzonte, che arrivò il do-mestico del Conte di Montaubin con un cavallo a mano, poichè quello era il giorno destinato dal suo padrone a ritornarsene a casa, e in altra maniera non era possibile passare il bosco.

Era cessata affatto la passata burrasca, e pareva ogni cosa aver acquistato nuova bellezza; d’ogni intorno compariva un non so che di selvaggio, ma dilettevole insieme, che incantava il mio amico, e il Conte gli andava additando in cammino tutti i piaceri di quel luogo campestre. Quì, diceva egli, si vede nella sua purità la natura, quale appunto uscì dalle mani del Creatore. L’arte, e l’agricoltura possono mai arrivare a questa graziosa confusione, con cui da se medesime crescono queste piante? La vista di questi vecchi ed alti alberi non concilia una certa venerazione? Con qual piacere si respira quest’aria così pura, che passa per questi rami, purgata da quelle grosse particelle, ond’è pregna continuamente ne’luoghi vicino alle popolate città? Quì si gode l’etere in tutta la sua purità, e l’anima si veste di nuove ali, e quel ch’è in noi di stupido e di mortale in certa maniera si spiritualizza. E pure, quante persone vivono, e quanti anni ho vivuto io medesimo, senza cogliere qualche tempo per imparare, che Iddio ha dato agli uomini con larga mano tante benedizioni? Disse in oltre, che in queste sue meditazioni in tempo del suo ritiro egli sperimentava tale interna soddisfazione, che non potevasi esprimere con parole, che in questo luogo fermavasi d’ordinario quattro o cinque giorni di seguito, che a nessuno era noto questo sito, fuorchè al fedele domestico, il quale veniva ogni mattina a ricevere i suoi ordini, ed a portargli tutto il bisognevole.

Con questi ragionamenti giunsero su la strada comune, e‘l Conte spedì il suo domestico all’albergo, dove il mio amico gli aveva detto, che potevansi ritrovare i suoi compagni di viaggio, con ordine di complimentarli a suo nome, e far loro le più efficaci istanze, perchè venissero nel suo castello ad unirsi all’amico perduto, dell’assenza del quale dovevano essere vivamente afflitti. A questo comando spronato il cavallo, si tolse in momenti alla loro vista il domestico. Essi lentamente marciavano, e per trattenersi in sieme con maggior comodo, e per non aggravare il povero animale, che tutta la notte era stato esposto alla inclemenza del tempo, non avendo il Conte luogo da ricovrarlo. Arrivarono in tanto ad un Castello di nobile apparenza; v’entrò il Conte per una porta segreta al di dietro, di cui aveva la chiave, e introdotto il suo ospite in una magnifica anticamera, gli chiese licenza di lasciarlo per pochi minuti, e tornò immantinente vestito come alla sua qualità conve-niva, e così diverso da quello, che compariva in abito d’Eremita, che appena si conosceva per quello da prima. Lo condusse di poi nelle stanze di sua moglie, graziosissima Dama, e madre di cinque figliuoli, il maggiore de’quali non passava i quindici anni, ma tutti belli, e ben fatti. L’osservava attentamente, e con ammirazione il mio amico, e fatti a tutti i complimenti dovuti, disse al Conte, che nessuna cosa più lo convinceva de’piacerei della contemplazione da lui così elegantemente descritti, quanto il vedere il confronto di quelli che aveva in sua casa. La Contessa prevenne la risposta del marito, rispose con tale grazia, e politezza a questo uffizio, che il mio amico giudicò ragionevolmente non essere inferiore il di lei spirito alle perfezioni della di lei figura.

Fecero tutti insieme colezione nell’appartamento della Dama, e mentre si trattenevano dolcemente, sopravvenero i Gentiluomini Inglesi. La gioja di vedere sano e salvo l’amico, e in sì buona compagnia, dopo l’apprensione di qualche funesto accidente, non impedì loro di corrispondere all’accoglienza degli ospiti illustri con la politezza convenevole alla figura che facevano, così che a vederli non potevasi dubitare, che in fatti non fossero persone ricche, e di nascita nobili.

Dopo i primi uffizj di civiltà li condusse il Conte ne’suoi giardini, disposti, e coltivati con tutto il buon gusto, e con tutta la diligenza, e proprietà immaginabile. Da una parte godevano i sensi agli odori soavi, ch’escalavano i fiori, ond’erano pienamente adorni i parter, dall’altra le fontane con grottesche formate delle più ricche spoglie del mare invitavano a prendere un dolce riposo. Le più curiose statue d’Eroi, e di Filosofi antichi, collocate all’estremità d’ogni viale, ricordavano agli spettatori la felicità de’secoli passati; e certi spaziosi passeggi piantati d’allorchè venivano colle cime ad incrocicchiarsi, rendevano un’ombra deliziosa. Li condusse poscia il Conte ne’principali appartamenti del Castello, dove tutto spirava ricchezza, e splendidezza; in una parola, secondo la descrizione che me ne fece, pareva, che la magnificenza, e‘l buon gusto gareggiassero insieme per avere la preminenza.

All’ora del pranso fu imbandita la mensa del più prezioso, che producesse la stagione; spiritosi ragionamenti aggiungevano nuove grazie al convito, e per lo spazio di dieci giorni, che ad istanza del Conte si trattennero in questo Castello, furono trattati in una maniera, che ben dinotava l’ospitalità, e la politezza della Nazione Franzese. Mi disse in oltre l’amico, che in tut-to quel tempo non passava un’ora, che non sopraggiungesse qualche ospite novello, e che ogni notte v’era il divertimento o di ballo, o di musica. Pareva in somma, che colà non si vivesse se non per il piacere, ad ancorchè il Conte stasse in compagnia, quanto ogn’altro, lieto, e giocondo, sovente in mezzo al tumulto, ed alla confusione lo tirava in disparte, e gli diceva: Voi vedete, Signore, quanto è difficile in questo luogo di gustare il diletto della meditazione, e potete da voi giudicare, se non è necessario ad un uomo, il quale non voglia scordarsi di se medesimo, nè del fine, per cui è stato creato, di abbandonar qualche tempo questa profusione di tumultuosi piaceri.

Non posso negare di essere restata molto sorpresa a un tale racconto, della di cui verità non poteva dubitare, attesa la nota integrità di chi me lo ha fatto; sicchè piuttosto sospettava di qualche alterazione di cervello nel Conte di Montaubin, che gli facesse patire tratto tratto qualche deliramento, e domandai all’amico in quale quarto di Luna quel Gentiluomo condannava se stesso ad un esilio volontario. Da questa interrogazione deducendo l’amico qual fosse la mia opinione, mi assicurò essere falsissime le mie conghietture; non aver egli conosciuto uomo più giusto nel suo pensare, il di lui conversare, anzi ogni sua azione essere stata esente da ogni censura, il che doveva in buona parte attribuirsi alle riflessioni, ch’egli faceva nel suo ritiro.

In quel tempo io era troppo amante dell’allegria, e troppo abborriva la solitudine, onde potessi adottare la di lui opinione; ma coll’andare degli anni ho cambiato gusto, e trovo presentemente, ch’egli merita più la nostra ammirazione, che la nostra censura, poichè non separavasi di tratto in tratto dal mondo, se non per imparare di diportarsi meglio, quando ritornava a praticarlo. Parmi però, che avrebbe potuto soddisfare al suo gusto per il ritiro in un luogo più comodo, e meno pericoloso di quello, ch s’aveva scielto. Egli è vero, che vi sono al mondo tante persone importune, le quali verrebbero con un’aria affettatamente uffiziosa, quando sapessero il luogo del vostro ritiro, a cercarvi, e strascinarvi quasi per forza in mezzo alla compagnia; ma non era in questo caso il Conte Franzese, il quale aveva molte abitazioni manco in vista, nelle quali avrebbe potuto ritirarsi, e starsene tanto nascosto quanto nella sua caverna.

Aveva pure un’altra curiosità, e voleva sapere, se alla Contessa sua moglie aveva comunicato il segreto di questo ritiro, e le ragioni che aveva di sovente allontanarsi da lei, ma non lo sapeva neppure l’amico, e non aveva sen-tito farne parola. Con tutto ciò credeva, ed io pure ero della sua opinione, ch’ella fosse di tutto informata, poichè mostrava di vivere in una perfetta armonia col marito, il che non poteva darsi certamente, ancorchè fosse una Dama di merito straordinario, se non avesse saputo per qual cagione la privava della sua compagnia. Poche sarebbero certamente le mogli, che approvassero una tale condotta, e particolarmente se amassero i loro mariti, quando ancora fossero persuase, ch’eglino si movessero dalle stesse ragioni, che determinavano il Conte a ritirarsi; esse riputerebbero come un’Ingiuria, se le lasciassero sole, senza loro comunicare tutte le particolarità di un così straordinario procedere. Bisogna credere per tanto, o che Madama di Montaubin non fosse gelosa, o che fosse informata a pieno di questa faccenda.

Sia come si voglia la cosa, non fa al mio proposito: io vorrei solamente, che alcuni de’nostri sventati volessero di quando in quando condannarsi alla solitudine, e crederei, che coloro, i quali al presente tengono la riflessione per la cosa più nojosa del mondo, si trovassero in progresso risarciti abbondevolmente di tutta la pena sofferta da principio, avanti di poter superare la loro ripugnanza. Alle persone d’un genio troppo incostante riesce difficile assuggettarsi a questo abito, che raccomando; non è da aspettarsi un cambiamento improvviso, nè occorre sperare, che si possa ottenere con la violenza. Teneteli tutto un giorno chiusi in una stanza, e interrogateli a che abbian pensato; vi risponderanno di non aver ad altro pensato che alla lor prigionia. Questo dunque sarebbe il metodo peggiore da praticarsi. Bisogna con dolcezza avvezzarli alla riflessione, e non colle minaccie. Non saprei suggerire un mezzo migliore, quanto metter loro dinanzi a gli occhi die i libri, che probabilmente fossero di suo gusto, ancorchè questa lettura non fosse per essere molto utile; purchè non contenessero cose indecenti, o contrarie a i buoni costumi, potrebbero sempre avvezzarli al piacere di leggere, e guadagnato che s’abbia una volta questo punto, si può successivamente farli passare alla lettura d’altri libri più serj.

La pittura, e quella particolarmente che rappresenta storie, e vedute diverse di terra e di mare, molto contribuisce a ispirare del gusto per la riflessione: ciò che può allettare gli occhi, facilmente passa nell’anima, e mette in curiosità il più indolente. Non è possibile riguardar la natura rappresentata in tal guisa, senza che lo spirito ne riceva una durevole impressione. Gli avvenimenti considerabili de’tempi andati, le prospettive diverse presentateci da questa Terra con le sue montagne, le valli, i prati, i fiumi; tutto il dilettevole e l’orribile insieme, che ci offre questo abisso profondo, da cui siam circondati, vascelli, che a vele gonfie da un vento favorevole folcano il mare, altri che vanno a frangersi in uno scoglio, o restan sepolti nell’onde, tutti questi oggetti espressi su le tele resteran nello spirito, quando ancora il quadro non resti più sotto gli occhi, e ci suggeriranno delle idee istruttive, e dilettevoli insieme. Potremo in tal guisa trattenerci con piacere da noi medesimi, senza essere obbligati di cercare altrove con che divertirci.

La maggior parte della nostra Nobilità si pregia di tenere in alta stima la pittura, e vedesi un numeroso concorso, quando son messi in vendita quadri di prezzo; ma tre quarti di queste numerose adunanze sono portati piuttosto dal desiderio di trovarsi insieme, che da altro più lodevole motivo; e queste vendite all’incanto si considerano come un passatempo, un’occasione di trovarsi la mattina a scherzare, e ridere insieme, e tal volta chiamansi pure galanterie. Le opere d’un Tiziano o d’un Raffaello non faranno molta impressione in una persona di tale carattere. Vi sono de i Generali d’armate, in cui non fanno veruna impressione i trionfi dell’antica Roma, degli Oratori, che non hanno alcun senso alla vista d’un Demostene, o d’un Cicerone parlanti al popolo, e delle Dame incapaci di sentire la menoma compassione per una Lucrezia spirante, o di ammirare la famosa Principessa Inglese, che succhiò il veleno dalla ferita del marito.

Si può dire lo stesso di molti di quelli, che frequentano i teatri; essi badano più agli attori, che ai caratteri, che rappresentano, e mostrano di più interessarsi nelle frivole risse, che si accendono tra questi Eroi del teatro, di quello che nel destino degli Eroi, e delle Eroine reali. L’abito, la voce, i gesti di Quin, Garrick, Cibber, Horton, Clive, Wonssington ed altre saranno i più lunghi argomenti della conversazione; e non si parlerà mai delle crudeltà del Re Ricardo, della ingiusta gelosia di Othello, della filial tenerezza di Hamlet, della virtù di Andromaca, del cangiamento di Mylady TovvleyI tre primi caratteri sono i principali delle tre più belle Tragedie di Shakespear; L’Andromaca Inglese è una libera traduzione di quella del Sig. Racine, e molto stimata: Myaldy Tovvnley è il personaggio principale del Provvoked d’huschand, o del Marito Irritato, e ridotto all’estremo, una delle migliro Commedie del teatro Inglese. e di tutti que’toccanti caratteri, che i Poeti si studiano di mantenere, o d’inventare, acciocchè servano di lezione ad alcuni, e ad altri di eccitamento per imprendere grandi azioni.

Che può darsi più dilettevole ad una persona, che pensa quanto il vedere i più famosi avvenimenti dell’antichità, i costumi differenti delle più rimote nazioni, rappresentati sul teatro con tutta quella forza, e quella energia, di cui la Tragedia è capace? Che di più atto a correggere le nostre follie, quanto vederle esposte con arte, e senza amarezza dall’amabil Commedia? Riformare i nostri costumi, correggere i nostri errori, servirsi del piacere come del mezzo più adattato a fare impressione su l’anima nostra, servirsene perchè c’inspirino le più sublimi idee dell’onore, e della virtù, questo è fuor di dubbio il gran fine, che si è proposto nella sua istituzione la Commedia: vi sono riusciti a perfezione molti degli antichi Poeti, e alcuni de’ moderni. Ho inteso più volte dire, che alcuni sono restati tanto colpiti, veggendo rappresentar sul teatro qualche delitto, ch’essi pure avevano commesso in segreto, che tornati a casa hanno confessato il suo fallo, e passato il restante di sua vita in una spezie di penitenza delle loro colpe passate.

Ma nè questo, nè qualsivoglia altro metodo potrebbe servire a nostra correzione, quando non siamo attenti agli oggetti, che ci si presentano, mi duole assaissimo, che questo sia un caso raro per color, che frequentano gli spettacoli; essi non applicano se non a ciò che li fa ridere, e molti che per compiacere ad altri mostravano disgusto, che siensi introdotti i Pantomimi su i nostri teatri, vi trovano in essi più che in ogni altra cosa piacere. Difenderanno alcuni queste mute rappresentazioni; diranno, che gl’Italiani, nazione in molta riputazione di saviezza, li pregiano, e gli incoraggiscono, che in questa invenzione vi comparisce molto spirito, e molta desterità, e che gli spettatori hanno occasione di mostrare la loro sagacità e penetrazione, indovinando il senso da i gesti, e da i movimenti degli attori, come se parlassero. Ciò avverebbe senza dubbio, se volessero starvi con attenzione, ma io vedo, che quelli, che si compiacciono d’uno stato d’indolenza, non si divertono se non con le metamorfosi d’Arlichino, senza pensare ad altre ragioni per cui dovrebbero portarsi allo spettacolo, nè riportano più vantaggio, che se fossero stati a vedere uno de’più ordinarj ballerini da corda. In somma, una persona che pensa, può cavar qualche frutto da ogni cosa, e per quanto è merito intrinseco abbia una cosa, non potrà ella mai rendere migliore una persona che non pensa: sarà lo stesso, che la musica a un sordo, e un bel passeggio ad un cieco.

È una comune espressione, ancorchè non bene intesa da molti, quando si vuol fare un elogio di qualcheduno, dire, ch’egli è di buon gusto. Ogni uno affetta di aver questo buon credito, poichè si suppone, che in tutte le azioni si usi scelta, e buona grazia. Molti celebri autori hanno impiegata la penna a descrivere la differenza, che passa tra il buon gusto, ed il gusto falso, ma nessuno a mio parere l’ha fatto con quella precisione, che sarebbe necessaria per darne a’leggitori un’idea distinta. Il buon gusto non è altro, che una seconda immaginazione diretta da un sodo, ed aggiustato giudizio, e in fondo non è altro, che quella giusta maniera di pensare, che ho fin ora raccomandata. Dico in oltre, che il gusto falso consiste in imitare imprudentemente le idee degli altri, e voler fare come fanno alcuni, che si sono di già acquistato il credito di bel talento, senza considerare, che, che ciò, che in uno comparisce bene, sovente in un altro fa un effetto tutto al contrario. Mille circostanze possono fare, che questa imitazione si sconcia, e fuor di proposito, e quindi farla passare con ragione per gusto falso. Quindi è, che molto importa a chi desidera di fare una bella figura nel mondo, di toglierne tutto quello, che v’è di buono, e lasciare tutto il cattivo; di procacciarsi una durevole felicità, e farne parte agli altri, importa, dissi, moltissimo di mettere in opera tutta l’applicazione per conoscere al possibile e ciò che fanno, ed il fine, a cui devono aspirare.

Fine del Libro Quarto.

Libro Quarto. Qual privilegio illustre non ha l'uomo sovra gli altri abitatori di quello mondo sublunare? Suppongasi in miseria, abbandonato da tutti, incatenato dentro una torre, col soccorso della contemplazione in mezzo a tutti questi mali può godere di tutti i comodi, della stima degli altri, e della libertà, portarsi col pensiero dovunque vuole, e per fino conquistare imperj nella sua immaginazione. Per lo che non so intendere, per qual cagione tante persone si trovino, che nè pure un momento san tollerare di essere sole. Egli è vero, che un delitto commesso, agitando gravemente lo spirito, può rendere insopportabile la solitudine, e obbligare l’infelice, che si tormenta da sè medesimo, a cercare una compagnia, tra cui respiri da’suoi rimorsi; io non parlo per tanto di coloro, che temono la riflessione, ma di quelli, che sembrano incapaci di riflettere. Conosco molti dell’uno e dell’altro sesso, che mostrano un fondo di vivacità capace di animare la conversazione, dovunque si trovino, ma se poi per una mezz’ora si trovano soli, compariscono le persone più inerti, e le più stupide, che sieno sopra la terra. Domandate loro, se hanno qualche indisposizione, vi risponderanno languidamente di no, e che stanno benissimo. Interrogatele, se han qualche disgrazia, con lo stesso tuono di voce vi diranno di no, e pare che non abbiano più spirito, fin che si dica o si faccia qualche cosa capace di ravvivarli. E pure pajono ancora mezzo addormentati, e può dirsi, che in tempo di questo letargo il loro spirito è restato in una inazione maggiore, di quello che sia in tempo del sonno, perchè non hanno nè pure sognato. Si può dunque a mio parere paragonarle ad una campana, che non suona se non si percuote. Qualunque opinione possa avere il mondo delle persone di questo carattere, io per me giudico, che molto vuoto siavi nella loro anima, che da sè medesime non san concepire alcuna idea, e che solamente l’uso del mondo, e qualche educazione le metta in istato di parlare graziosamente. Ad un vero talento non manca mai materia da trattenersi, e quando anche fosse solo, in cima d’una montagna, senza libri, e senza occupazione, troverà sempre di che passar l’ozio: la sua memoria gli presenterà gli avvenimenti passati: le sue osservazioni gli faranno distinguere gli oggetti presenti dalle loro cagioni: e la sua immaginazione diretta dal giudizio predirà l’avvenire. Questa facoltà di contemplare di riflettere è ciò, che principalmente distingue gli uomini dalle bestie, e prova essere le nostre anime veramente scintille dell’Intelligenza Divina. I piaceri di una amabile società son fuor di dubbio i più delicati, che possiamo gustare, ma quella medesima compagnia, che ci è più cara, ci diverrebbe insipida e nojosa, se dovessimo averla di continuo, e sarebbe una grande mortificazione per una persona, che pensi aggiustatamente, tanto ritrovarsi perpetuamente in compagnia, quanto sempre esser sola. In fatti la conversazione non fa altro, che somministrare motivi da far riflessioni, ella rallegra lo spirito, e lo rende atto a meditare, e a riflettere. Ogni cosa da nuovo, che sentiamo in compagnia, risveglia in noi delle nuove idee quando siamo soli, e siccome pochi vi sono, da cui non si possa ricavare o qualche piacere, o qualche istruzione, uno spirito abile, a guisa d’ape industriosa, anderà a spremere i fughi differenti per digerirli poscia nel suo ritiro. Ma quelli, che corrono di continuo da una compagnia in un’altra, e non vogliono sofferire la solitduine, se non quando la natura stanca esige riposo, baderebbero appena alle massime di Seneca ancorchè fossero esposte dalla persuasiva eloquenza di Cicerone. Altre conseguenze ancora più perniciose nascono da questo eccessivo abborrimento alla solitudine. Persone di tal genio piuttosto che starsene sole, vanno senza discernimento a gettarsi in ogni genere di compagnie, che spesso vengono a trovarsi in certi luoghi, dove per tutta la vita loro si pentiranno d’esservi state, e ancorchè dalla buona compagnia non possano ritrarre alcun frutto, dalla cattiva certamente resterà pregiudicata la loro fama, e forse il loro costume, e le sostanze ancora: questo scegliere a precipizio, e senza esame, è cagione, che di rado s’incontri in una buona compagnia, che non è cosa tanto comune, ed alla quale si ammettono difficilmente le persone, che non si conoscono. Questo furore per la compagnia è stato la perdizione di varie persone dell’uno e dell’altro sesso, e diventa maggiore il pericolo, poichè in vece di pensare ad abbandonarla si va decantando per una lodevole inclinazione, e si dispregano per ipocondriaci gli amanti di una vita ritirata. Io forse passerò per tale appresso di alcuni de’miei leggitori, che non vor-ranno distinguere, ch’io già non raccomando un intero abbandonamento della società, ma l’amor della solitudine in certe ore, acciò che possiamo vie più sentire il piacere della compagnia, riuscir più gradevoli nella conversazione, ed aver tempo da fare una buona scelta di amici. La nostra attenzione non ha da riguardar solamente la compagnia di persone di sesso diverso: in questo caso il pericolo è tanto noto a tutti, che non è necessario metterlo in vista, ma forse non è maggiore degli altri, che si possono incontrare, stando insieme con persone del sesso medesimo. Le stravaganze, che sovente i genitori hanno a riprendere ne’figliuoli, non provengono quasi tutte da una cattiva compagnia? L’esempio ha de’gran privilegi, e sono in gran numero le persone deboli, che credono dover diportarsi alla maniera degli altri. Quanti giovani, per timore delle beffe de’loro amici, si sono lasciati strascinare in que’vizj, che da principio abborrivano, e vi si sono poscia immersi per abito? quanti dopo essere stati sedotti han fatto la figura di tentatore, ed han messa tutta la loro gloria in sedurre altrui? Sono più mosse dall’amore della compagnia, di quello che dalla speranza de’piaceri le nostre Dama a correre in folla ogni sera alle mascherate, a i balli, a i ridotti l’Inverno, e la State a Wauschall, Ranelay, Cupers-garden, Maryle bon, Gadlort-Wels vecchio e nuovo, GoodmansfieldsBettole diverse, ovvero luoghi di piacere: le due prime, e Maryle-bon sono più frequentate dalla buona compagnia Sadlers-Wells Grondmanns fields son due teatri, dove si rappresentano Farse, e specie di Pancomini con danze ec. , e vent’altri luoghi di tal fatta, i quali, in questo secolo, in cui altro non spira che lusso, sono tanti zimbelli per tirare lo stordito, e l’imprudente, per farli indi passare ad altri più biasimevoli eccessi. Imperciocchè si trovano delle persone di qualità (come ne sono stata informata dal Gnomo presidente de’piaceri notturni) le quali, venute in questi luoghi col solo oggetto d’una ricreazione innocente, si sono poscia lasciate portare dall’amore della compagnia o a fermarsi in questa casa, o a passare in altri luoghi di piacere, e non è esagerazione il dire, che vi sieno restati fino che l’Aurora, affacciandosi all’Orizzonte, si è vergognata di vedere a questo segno pervertito l’ordine di natura, nè di là sarebber partiti, se la stanchezza del loro corpo, il peso degli occhi, e ’l disordine della gente di loro seguito, non li avesse costretti a ritirarsi alle proprie case, dove preso appena un brieve riposo sono le-vati, vestiti, e usciti di nuovo in cerca d’altra compagnia, e d’altri divertimenti. Il Ciel ci preservi, e non faccia cadere in simili eccessi tutti quegli, che abborriscono il ritiro. Qualche volta la fortuna ci assiste più che non meritiamo, togliendoci dinanzi ogni tentazione. In questo caso la nostra negligenza non produce altro danno, se non la perdita di que’solidi piaceri, che gusta una persona, quando conosce d’essersi diportata conforme alle massime dell’onore, e della ragione. Ma supposto ancora che da questo numero vogliamo eccettuare alcune giovani, e quelle particolarmente, che dalla natura furon dotate di rara bellezza, e dalla fortuna hanno avuto il privilegio d’una nascita illustre, e che dal primo momento, in cui han cominciato a far uso della loro capacità, per una cieca condiscendenza de’loro genitori non han sentito altre voci che di lode e di adulazione, e si figurano d’esser messe al mondo per essere idolatrate, e si credono tutto permesso: se vogliamo, dissi, eccettuare queste poche persone allevate in questa maniera, che possiamo dire in difesa di quell’altre, che hanno avuta una educazione migliore, e sono di una età più matura? Come si può scusare una vecchia matrona, che altro non faccia, che correre da un luogo all’altro, o una moglie che dovrebbe pensare all’economia della sua casa, ed al governo della sua famiglia? Che figura ridicola non fa una madre di cinque o sei figliuoli in una corsa notturna? Non è una stravaganza, che una persona che ha le sue occupazioni, abbandoni qualunque pensiero di economia, o almeno mostri di non curarsene, e si esibisca di essere a parte di tutti i divertimenti, ed entrare in tutte le compagnie di piacere? E pure non sono rare le persone di tal fatta: siccome l’ordine, e l’economia esigono riflesso, e ritiro, vogliono piuttosto andare in rovina, che esporsi a due cose riputate, moleste e nojose. Una vedova di mia conoscenza, giovane, ricca, bella, e spiritosa, appena vide i suoi abiti di lutto perdere un poco del suo lustro, che non ha avuto riguardo di prendere un nuovo marito. Se ella avesse voluto pensare un poco a ciò che faceva, non avrebbe trovato in questo secondo marito qualità alcuna da promettersi uno stato felice: non era ancora passato un mese dalle lor nozze, che questo nuovo sposo, l’ha trattata aspramente, scacciò di casa i di liei piccoli figliuoli, ed ha vilipesi i di lei parenti, che venivano a rappresentare a questo furioso l’ingiustizia, e la crudeltà del suo procedere. Pare che non meriti tutto il compatimento per essersi così incautamente condotta: ma considerando il suo dolce temperamento, non si può a meno di non compassionare la sua fortuna. Una delle sue più confidenti amiche si prese un giorno la libertà di domandarle, come mai avesse potuto mettersi in balia d’un uomo sì indegno? ella diede questa corta, ma sincera risposta. Ah! è una gran noja vivere sola. Sarebbe stato facile soggiungerle, che non è essere sola, quando si ha una madre con cui consigliarsi, e tre amabili figliuoli con cui divertirsi nelle ore più melanconiche: ma questo rimprovero non poteva se non accrescere la di lei afflizione, e poichè il suo male era senza riparo, bisognava piuttosto consolarla. Non vorrei, che questo breve cenno del di lei infortunio le rinovasse il dolore, ma s’ella è un esempio funesto de’pericoli, che s’incontrano, conducendosi senza riflesso, non ho potuto a meno di fermarmivi sopra un momento. Ancorchè in una persona di età avanzata non sia tanto pericolosa questa smoderata passione per la compagnia, ella è però molto ridicola. Io conosco una Dama, per sua propria confessione di sessanta cinque anni, la quale in uno spazio sì lungo di vita non ha saputo acquistarsi di che trattenersi due soli minuti. Ella è vedova da molti anni, ella ha un sufficiente assegnamento per un decente mantenimento, non ha figliuoli, nè alcun altro imbarazzo, e potrebbe viver nel mondo tanto onorata, quanto è dispregiata, se volesse riflettere alla condotta, che deve tenere una donna della sua età, del suo stato. Ma in vece di vivere con la regolarità che conviene, corre da un luogo all’altro, prende nello stesso tempo diversi appartamenti in tre o quattro differenti contrade, passa una notte a San James, un'altra a Convent-Garden, un’altra forse a Westminster, e non è paga ancora di questa varietà. Ella attualmente ha stanza aVillaggi differenti ne’ contorni di Londra: Richmond e Kensington sono palazzi Regj. Richmond, Hammersmich, Kensigton, e Chelsea: ella le visita in giro due o tre volte al mese: così la sua vita è un vortice continuo, che passa da un’abitazione all’altra, se pure alcuno di questi luoghi merita questo titolo. Anzi pare che ne abborisca per sino il nome, poichè non è quasi mai alla sua casa, rarissime volte vi mangia, e s’introduce quasi per forza nelle case altrui, alle quali manda preventivamente delle provigioni sufficienti a tutta la famiglia, per esservi accolta volentieri. Ma siccome le persone, che fanno figura nel mondo, non vorrebbero accettare favori di tal natura, e chi ha buon senso vuole conservarsi la libertà di parlare familiarmente co’suoi di ca-sa, e di trattare con quegli amici, che gli sono più cari, non si trovano se non persone in bisogno, o tanto sciocche quanto è la nostra vedova, che vogliano permettere ad altri di venire in tal guisa nella usa casa. Povera Dama! Ella getta scioccamente una rendita onorevole, ella rinunzia alla buona opinione di avere uno spirito aggiustato e prudente, e niente per altro, che per essere in libertà di parlare quanto le piace senza essere contradetta, e possa non esser mai sola, se non quando dorme. Lo so da persone degne di fede, che appena ella esce del letto, che in busto, ed in gonella, corre da una sua vicina, per non poter patire la solitudine neppur quando si veste. Non mancano maliziosi, che interpretano questo abborrimento alla solitudine per un rimorso di coscienza, che riduce a memoria qualche delitto passato: io non sono di questo parere, ma non sono ben persuasa, che nè questa vecchia stordita, di cui ho parlato, nè molte altre, che vivono alla stessa guisa, abbiano mai fatto male ad alcuno. Chi è incapace di pensare, è incapace ancora di fare una cattiva azione premeditata: e siccome queste persone non riflettono mai, e non operan da se medesime, altro non fanno che ricevere le impressioni altrui. Prima di fare una così crudele censura, bisognerebbe esaminare, non dirò la vita, e ‘l carattere delle persone, perchè in ciò possiamo ingannarci, ma il tempo, in cui è cominciata questa avversione alla solitudine. S’ella ha principiato dalla infanzia, non può procedere se non da una debolezza di spirito, e ben merita la nostra compassione: ma se una persona, che per l’avanti amava la contemplazione, e’l ritiro, cangia poscia gusto, che al solo sentire di abbandonare la compagnia si contorce, e schiva la solitudine, come fugirebbe da una casa, cui si fosse appiccato il fuoco, si può sospettare con qualche ragione, che un tal cambiamento proceda da un qualche delitto secreto, e che la più insipida conversazione abbia da questi tali a preferirsi a i rimorsi, che provano nel ritiro. So benissimo, che oltre l’incapacità di riflettere, e la rimembranza di aver commesso ciò, che fa diventar una pena la riflessione, evvi ancora un altro motivo di così fare, cioè quando proviamo qualche afflizione. Esser capace di meditare su le proprie disgrazie, egli è un avere quella forza di spirito, che conviene alla dignità dell’umana natura; ma tutti non hanno tanto coraggio, e chi lo avesse ancora, facilmente soccomberebbe al peso della propria afflizione, in pensando a ciò che li attrista. Questo è il caso di molti, che sono in credito d’essere giudiziosi: e perciò passa comunemente per ragionevole questa scusa: mi perdonino però se dico, che su questo punto s’ingannano, benchè in altro possano avere molto discernimento. Se il tumulto, e la confusione possono dare qualche sollievo, egli è di corta durata, e in vece di liberarsi dal peso, sotto i cui gemono, non fanno che accrescerlo, e raddoppiarlo. A tale eccesso di stravaganza e di stupidezza giungono alcuni, che cercano di perdere la memoria di una disgrazia, precipitandosi in altri mali, forse più perniciosi. Voglio dire il di quelli, che si mettono a bere, e ad altri disordini del pari nocivi alla sanità, e alle fortune. Ma che mezzo improprio a recarci sollievo! Lo dicano que’medesimi, che ne fanno la sperienza. Se questi potessero superar le medesimi, e riflettere, prima che la cosa si avanzasse, potrebbero ritrovare qualche più sodo conforto. La lettura de’nostri più accreditati Poeti non servirebbe ella a distrarci ne’momenti della nostra malinconia molto meglio che una vana, e sterile conversazione? Gli eccellenti trattati di Filosofia, che si hanno alle mani non darebbero maggior coraggio, di quello che possa ispirar la bottiglia? E più di tutto una perfetta sommessione, una rispettosa rassegnazione alle distribuzioni della Provvidenza, che tanto ci viene raccomandata, non sarebbe infinitamente più propria a calmare le turbolenze del nostro spirito, che tutti i vani divertimenti, di qualsivoglia genere sieno? Io non pretendo, che debba starsi continuamente a impallidire su i libri; una troppa lettura, ancorchè de’migliori autori è capace di rintuzzare la vivacità dello spirito, e stancare quell’attenzione ch’è necessaria per trar profitto dalla lezione. Alcune buone massime, e ben digerite colla riflessione, restano nella memoria, e non solamente servono di rimedio contro de’mali presenti, ma di preservativo contro di quelli, che il tempo ci prepara. Diranno alcuni, che un tale suggerimento non può servire se non alle persone di condizione, e ch’è impossibile il figurarsi, che quelle di rango inferiore abbiano nè tempo, nè capacità per così regolarsi. Non posso negarlo, ma è però vero, che coloro, i quali mancan de’mezzi, non possono come i primi consumare il loro tempo in tentativi inutili per iscordarsi de’loro travagli; e se parliamo di capacità, dobbiamo supporre, che ogni uno intenda il commerzio, ovvero il mestiere in cui è stato allevato; e se a questo si applicassero con tutta la loro industria, troverebbero il miglior sollievo contro de’mali, che sentono attualmente, e il mezzo più sicuro a preservarsi da quelli, che possono accadere. Dinota sempre una certa piccolezza di spirito, imperdonabile ancora alle per-sone della condizione più vile, il procurar di soffocare la memoria d’un’afflizione forse leggera, precipitandosi in eccessi di conseguenze più dannose degli stessi mali, che opprimono, il che, in vece di recar sollievo, aggrava certamente lo stato presente. Ma reca maggiore stupore, che persone, le quali non hanno in questo mondo cosa alcuna, onde patiscano incomodo, non possano trovar piacere a contemplare la tranquillità del loro stato. Pur troppo egli è vero, tanti sono nel mondo, e nel gran mondo ancora, che hanno tutto ciò, che possono desiderare, e sovente ancora più di quello che meritano, e che mai possono sperare, e con tutto questo pajono insensibili a i favori ricevuti dal Cielo, o alle obbligazioni contratte co’loro benefattori. Questo a mio giudizio è un’indolenza di temperamento, dalla quale non si può preservar quanto basta, poichè costoro diventano senza saperlo ingiusti ed ingrati, sono soggetti a i rimproveri di quanti li conoscono per omissioni d’ignoranza, il che forse non avverrebbe, se attendessero dove arriva il loro dovere. La bella e degna vedova, che mai non manca di intervenire alla vostra piccola società, inclinava a credere, che questa mancanza di riflessione nascesse dalla poca attenzione d’instillare per tempo la necessità che abbiamo di rientrare qual-che volta in noi medesimi, ma fummo tutte di opinione differente, e non ci fu difficile persuaderla, che quando la gioventù non sia naturalmente portata a riflettere, non lo sarà nè pure con tutte le lezioni, e con tutti gli avvertimenti, e che se trovisi un temperamento debole, un ritiro anche di poche ore verrebbe a rendere stupida una persona, senza ottenere di farla seriamente riflettere. Ma con tutto quel che si è detto, e dir si potrebbe in tal proposito, questo è un difetto, che facilmente trova scusa presso di tutti. Una persona, che ami di sempre essere in compagnia; e purchè non sia sola, dovunque si trovi è contenta, si considera come una creatura di ottimo naturale, ed incapace di far male ad alcuno; e quantunque non si lodi per alcuna straordinaria virtù, se perde qualche cosa dalla parte del rispetto, la riacquista da quella dell’amore. Le persone di questo carattere hanno di rado nemici, e la ragione è chiara: sono elleno generalmente graziose, e gioconde, non si oppongono mai a quanto si dice, o si fa, e accordano quanto loro si domanda: le persone d’intendimento mediocre amano la loro conversazione; le più deboli non si fanno suggezione, e le più savie qualche volta si divertiscono; in somma ogni uno con esse vi trova il suo conto, ed esse dal canto loro son contentissime di tutto quello, che dico-no, e fanno, come da infiniti esempj apperisce. Nasce Belinda da una famiglia nobile, ella non è una bellezza, ma piace, ha non so che di grazioso nel suo tratto, che molti battezzano spirito: opinione che si è acquistata con qualche vivezza, che per non riflettere, e per dire tutto quello, che le viene in testa, tal volta l’esce di bocca, e viene riferito poscia in altre compagnie. Ella è comparsa di buon’ora nel gran mondo, a Rinaldo non dispiacque il di lei volto, e la di lei gioventù, ma poichè questo gran personaggio crederebbe di offendere la sua dignità, attaccandosi ad una sola amante, non durò gran tempo la loro pratica. Altre sarebbero state afflittissime vegendosi abbandonate sì presto; se non per amore, almeno per ambizione si sarebbero dolute di perdere un adoratore sì illustre, ma Belinda scherzava, motteggiava, e stava lieta come per l’avanti, e non si dimostrava più sensibile a questo cangiamento di quello che si fosse dimostrata a i rimproveri delle sue amiche alla prima notizia della di lei pratica con Rinaldo. A lui successe nel cuore di questa bella Lavallio tanto portato all’amore, e tanto incostante quanto Rinaldo, se pure si può chiamare passione quel, che serve solamente a divertire in qualche ora di ozio. Siccome Belinda era sempre la stessa, sempre allegra, e sempre stordita, e non fa ceva contro alcuno delle censure del mondo, usò in questa sua corrispondenza così poca circospezione, che ne giunse la notizia a Manella moglie di Lavallio, la quale amava appassionatamente il marito, e n’era gelosa a segno, che un’occhiata data ad un’altra Dama la considerava per una irremissibile ingiuria fatta a se. Un’altra meno trasportata nelle sue passioni si sarebbe avvezzata a tollerare pazientemente questi motivi di rammarico, poichè spesso nascevano, e guadagnava sì poco a pubblicare quanto sapeva degli amori di suo marito, che avrebbe dovuto per prudenza tacere, ma la sua vivacità non le permetteva di sofferire tranquillamente la menoma ingiuria fatta o al suo spirito, o alla sua bellezza. Acremente lo rimproverò a cagion di Belinda, e forse fu questo il motivo, che per vendetta egli durò nella pratica con questa Dama, più di quello che avrebbe fatto per genio. Dall’altra parte Belinda, sapendo la gelosia, e la rabbia di Manella andava trionfante della possanza de’suoi vezzi, e lungi da sentirne alcun rimorso; o la menoma vergogna, altro non faceva questa imprudente che ridere, e motteggiare su tal proposito. Veggendo Manella, che quanto ella poteva dire a suo marito faceva piuttosto un effetto contrario al suo desiderio, prese la risoluzione di venire agli estremi per rompere quella tresca; sapeva che Rinaldo aveva avuto in passato qualche genio per questa Dama, e quantunque dimostrasse, d’aver deposta ogni passione per la medesima, immaginavasi non ostante, ch’egli potesse piccarsi, che una Signora, onorata dal suo amore, si abbassasse alla pratica di un Cavaliere di rango molto inferiore a quello del suo primo amante, sicchè sperava, ch’egli avrebbe ordinato a Lavallio di abbandonare questo rigiro, e molto più avendo un pretesto plausibile delle querele della moglie. Gittatasi per tanto a’piedi di questo Signore lo informò di tutto, e lo scongiurò, versando dagli occhi un torrente di lagrime, di usare la sua autorità su questo marito infedele, per obbligarlo a rimettersi ne’suoi primi impegni, e lasciare di tormentare il cuore d’una moglie da lui presa più per amore, di quello che per interesse, e che non aveva mancato mai a i doveri del suo stato. Intese facilmente Rinaldo la natura di questo affare, ma finse altrimenti. Cercò di persuadere Manella essere i suo sospetti senza fondamento, ma non era alla donna da lasciarsi dar ad intendere così facilmente ogni cosa, replicò le sue istanze, gli rappresentò di nuovo le ragioni, che aveva, di non poter dubitare di questo rigiro, e tanto lo importunò, che gli promise di raccomandare a Lavallio d’essere più guardingo nel suo procedere. Non è certo, se questo gran personaggio v’abbia mai pensato, ma il caso, o l’imprudenza di questi amanti diede alla gelosa Manella un’occasione bastevole per dimostrare tutta la collera, che nudriva contro di queste persone, da cui tenevasi offesa. Entrata un giorno in una bottega, dove ella era solita di provvedersi di alcune galanterie, e non trovavasi la padrona, salì senz’altro la scala e andò verso una camera, dove soleva quella donna tener molte di queste sue merci. Ella vi era stata altre volte, ed era ben pratica del luogo ricercato, ma arrivata per accidente alla porta d’un’altra camera solamente socchiusa, tal che fu cosa facile aprirla, vide un oggetto inaspettato, suo marito e Belinda, il che la confermò nella sua prima opinione. Manella sorpresa di colà trovarli, essi vergognandosi di essere colà trovati, stettero qualche momento sospesi: ma la mercatantessa accortasi, che la Dama saliva la scala, e temendone le conseguenze, entrò a precipizio nella medesima stanza, e cominciava a fare qualche frivola, scusa, come sarebbe, di gridare a Lavallio, ed a Belinda, o Cielo? Come siete venuti quì? E voi, Signora, volgendosi a Manella, voi avete certamente fallita la stanza; in questa camera non viene alcuno se non per … Per commettere qualche indegnità, donna infame! gridò Manella tanto trasportata dalla violenza della passione, che appena poteva parlare. Si avventò poscia contro di essa, contro di Belinda, contro del marito, gridando, maledicendo, graffiandoli, gettando a terra i nei, la polve, e quanto trovò su la tavoletta, così che Lavallio finalmente scossosi dal suo stupore, e dalla sua confusione, la afferò, e la minacciò di qualche vendetta, se non achetavasi: Crebbe in lei il furore a questa minaccia, e a proporzione la forza, si disciolse da lui, e veduta la sua spada, la sguainò furiosa, e si avventò con tal empito contra Belinda, che potè appena Levvallio salvar la vita della sua inamorata. Disarmò finalmente questa furiosa Amazone, e con tutta la superiorità di sua forza restò in questo dibattimento ferito le mani. In questa contesa, allo strepito che facevasi in quella stanza, misto di grida, d’imprecazioni, di urli, era facile che si movessero i vicini. Siccome questa mercatantessa guadagnava infinitamente più per gli avventori segreti, che per il suo commerzio, e teneva la sua casa principalmente per i congressi furtivi di persone di qualità, Rinaldo, che in quel tempo acceso di nuova fiamma si era ridotto nella casa medesima con la persona amata, sentì da una camera vicina tutto questo fracasso, nè sapendo il motivo corse cola spada alla mano per rilevare la verità. Entrò nella stanza in quel momento appunto, in cui Lavallio strappava di mano alla moglie quel fatale stromento, e veduto quali erano già attori di questa scena, non si prese altro pensiero di saper cosa fosse. Al di lui arrivo però achetatisi un poco, Belinda colse questa occasione di fuggire, il che non aveva potuto far prima, occupata sempre la porta, e impedita l’uscita dalla furiosa Manella. Cominciò allora la mercantessa a spiegare questo accidente un poco meglio, di quello che aveva potuto far prima. Disse che Belinda, sorpresa all’improvviso da uno svenimento, le aveva chiesto di riposarsi sul suo letto fino a che si rimettesse, e che occupata poi ne’suoi affari non aveva veduto entrare Lavallio, ama figuravasi, ch’egli, mal pratico della casa, fosse in fallo entrato in quella stanza. Lavallio profittò di questo partito, e protestò ch’egli pure cercava quella stanza, in cui, come dissi, teneva questa donna porzione delle sue merci, e aperta la prima porta, che aveva incontrato, e veggendo una persona coricata sul letto se l’era accostato per curiosità di conoscerla, e motteggiarla che fosse esposta in una stanza non chiusa; nell’avvicinarmele continuò egli, riconobbi Belinda, e da’suoi gemiti accortomi de suo male, cercai del suo stato, come voleva la civiltà, e l’umanità: nel momento che a lei mi avvicinava per farmi intendere entrò Manella nella camera con una furia indecente al suo sesso, ed ha caricata questa povera Signora, e me delle maggiori ingiurie, e delle più atroci calunnie, che la più nera malizia potesse inventare. Nel tempo ch’egli parlava, Manella crollava la testa, e si mordeva per dispetto le labbra, ma alla presenza di Rinaldo non osò di continuare gl’incominciati rimproveri, e si contentò di dire, che ben sapeva il Cielo quanto ella era offesa, e che un giorno o l’altro esso non avrebbe mancato di vendicarla. La mercantessa, non sapendo le ragioni, che aveva Rinaldo di prendere la sua difesa, cominciò allora a dimostrare risentimento della diffamazione, che Manella faceva della sua casa, e apertamente diceva, che nessuna donna onorata poteva essere sicura da i furiosi trasporti d’una gelosa; e Lavallio domandò perdono a costei della ingiustizia fattale da sua moglie, condannando se medesimo di aver dato, a cagione d’un errore fatale, occasione a questo disordine. Godeva infinitamente di questa scienza graziosa Ronaldo, ma non volle aumentare l’afflizione di Manella, dimostrando di non badarvi; ed ella aveva tanto spirito per comprender, che in quel luogo erano inutili le sue querete, e va-no il suo sdegno, onde piena di rabbia, di dispetto uscì della camera, dando una brusca, e significante occhiata a Lavallio, e alla padrona di casa, per far loro capire quanto ella fosse poco soddisfatta di quelle deboli scuse, ed era a segno tale fuori di sè, ch’era quasi uscita della porta, nè aveva badato di fare a Rinaldo i complimenti dovuti al suo rango. Alla di lei partenza respirarono dalle angustie, in cui li aveva tenuti; dovette Lavallio sofferire i motteggi di Rinaldo, e raddoppiare la mancia usata alla mercantessa per il disordine cagionato da sua moglie. Non si è saputo, se questo accidente abbia messo fine alla sua pratica con Belinda; ma se durò ancora, lo fecero con tanta cautela, che non furono giammai discoperti. Manella per vendicarsi in qualche maniera divulgò questa avventura, quanto mai seppe, così che Belinda ebbe da’suoi parenti molti amari rimproveri per la sua sregolata condotta. Ma ella era così insensibile alla verecondia, ovvero al timore di perdere l’affetto, e la stima della sua famiglia, che non attese punto alle loro esortazioni, non pensò a fare il menomo cambiamento nella sua maniera di vivere, o impiegare un momento solo a riflettere a se medesima. Continuò per a tanto vivere come prima; sempre indolente, e stordita, altro non faceva che ridere, cantare, ballare, amo-reggiare per due anni interi, ne i quali non le avvenne cosa alcuna di molta importanza; e tanto poco stimò le altrui dicerie, che finalmente con la sua indifferenza stancò la maldicenza degli altri, non si parlò più di lei, come se non avesse mai dato materia a i comuni discorsi, nè fu un oggetto alle conversazioni di rammemorare ciò ch’era pubblico, e di cui non in passato non si faceva mistero. Avrebbe forse continuata questa maniera di vivere stravagante fino che l’età, e le rughe del volto l’avessero persuasa a ritirarsi dal mondo, se’l Conte di Loyter non avesse per lei dimostrata una passione diversa da’suoi passati amanti. Pareva questo Signore innamorato di Belinda a segno, che non poteva per qualche ora da lei staccarsi senza un grave patimento, e la sua condizione, e la sua affiduità fecero ritirare tutti gli antichi adoratori di questa bella. I parenti, e gli amici di Belinda vedevano con sommo piacere il rispetto e la tenerezza insieme, con cui egli la corteggiava, ma non restarono egualmente contenti, quando interrogandola su questo punto, rilevarono, ch’egli non le aveva parlato mai di matrimonio, ed ancorchè le avesse mille volte giurato di non poter vivere senza di lei, non aveva però detto una volta sola di volere con essa vivere in maniera da far onore alla di lei fami-glia. Ma poichè dimostrava per essa una stima più sincera di tutti gli amanti passati, la consigliarono, anzi la pregarono di fare il possibile per accrescere in lui questa passione, e per suggerirgli degli onorevoli disegni. Belinda promise di eseguire questi consigli, ma non vi pensò mai più; ella era in tal proposito perfettamente tranquilla non meno del suo amante, ch’ella lasciava in una intiera libertà. Dispiacque altamente questo procedere a coloro, che desideravano di vederla con un vantaggioso matrimonio riparare a i falli della vita passata, e uno d’essi più caldo degli altri imprese di fare ciò, ch’ella non si sapeva risolvere, e colse la prima occasione di parlare al Conte di questo affare. Questi, che non voleva dichiararsi, cercò da principio di cambiar discorso, ma preso alle strette finalmente rispose, cha siccome egli, e Belinda erano le principali persone interessate, e reciprocamente contente delle loro intenzioni, non avevano a comunicarle ad altri. Piccossi un poco di queste ultime parole il parente di Belinda, e fatte dell’espressioni assai vive dall’una e dall’altra parte, poco mancò, che non si domandassero soddisfazione reciprocamente, siccome vuole l’uso tra le persone d’onore. D’allora restò sospesa la loro pratica, il parente di Belinda le rimproverò questa sua trascuratezza, che aveva potuto per lui essere di qualche fatal conseguenza; ed il Conte per far vedere che non curavasi di digustare quella famiglia, persuase questa Signora a passare nella di lui casa, e colà vivere senza riguardo, che il pubblico lo risapesse. Ognuno la considerava allora come di lui concubina, nè si poteva giudicare altrimente. Ella aveva un appartamento vicino a quello del Conte, per poter agiatamente passare da uno in l’altro senza essere veduti da i domestici, ella andava col Conte in tutti i luoghi pubblici; ella comandava indipendentemente a tutti di casa; ella era con lui a tavola, qualunque compagnia vi fosse; e in tanto non si faceva mai tra di loro parola di matrimonio, e a fronte di tutte queste circostanza può darsi che fossero innocenti. Vissero in questa guisa sino a che di loro non più si siccome avviene quando la cosa è già andata in uso, quando all’improvviso il Conte si dichiarò di volere sposare Belinda. Ordinò un nuovo equipaggio, ed abiti nuovi, invitò i parenti comuni, e in fatti si maritarono, quando meno si aspettava. Non si può negare che in questa occasione operò il Conte con molto spirito, e con generosità: non volle essere per forza costretto a dare una definitiva risposta della sua intenzione intorno una donna del carattere di Belinda; ma quando poi vide se in sicuro dalle persecuzioni, e lei abbandonata, come se fosse perduta, diede allora a divedere la sincerità del suo affetto, e risarcì intieramente il torto fatto alla riputazione di questa Signora. Così potesse scusarsi Belinda; ma quanto è difficile! Ella si contentò di vivere in casa del Conte, senza alcuna sicurezza, anzi senza la menoma promessa d’essere un giorno la moglie di questo Signore, e forse forse ella restò più sorpresa degli altri, quando lo vide risoluto a queste nozze. Con tutta questa mutazione di sua fortuna ella non ha cangiato nè il genio, nè la maniera di vivere; pretende lode per non essersi insuperbita di sua grandezza, ma si merita molto maggior biasimo, se non pensa, che il suo onore al presente ha per oggetto il marito, e che ogni sua azione impropria, ed inconveniente viene a cadere su questo Signore. Io per me credo difficilissimo il potersi provare, ch’ella mai l’avesse offeso, ma ogni donna maritata ha debito di portarsi in maniera, che non se ne possa sospettare. Belinda ha tanto discernimento che basta per intenderlo, ma è troppo stordita per ricordarselo. Adonio di temperamento amoroso, ed incostante del pari a suo fratello Rinaldo, e più adorno di quelle qualità, che piacciono alle donne, ha ritrovato in Belinda, dap-poi ch’è moglie d’un altro, quelle perfezioni, che da prima non vi aveva osservato. Ella tanto si compiace di conversare con esso, e di sentirsi da lui commendare, che non pensa più a’suoi doveri col marito; ed è tanto piena di questo amante novello, che non si ferma giammai in casa, se non è per ricevere qualche sua visita. Suo marito si trova spesso con essi loro a i divertimenti, ma ciò non basta a togliere ogni sospetto per gli altri tempi, in cui ella trovasi senza il marito. Siccome il Conte non sente ancora alcuna gelosia, battezza per tratti della di lui somma politezza l’espressioni tenere, che Adonio dice a sua moglie alla sua presenza; attribuisce alla vanità del sesso il piacer ch’ella prova in sentirle; qualche corsa, che fanno insieme, al loro genio vivace; e ride, quando le sente raccontare. Non tollera con tanta tranquillità la bella, giovane, ed affettuosa Amadea l’infedeltà del suo caro Adonio, ch’ella adora; languisce in secreto senza aver coraggio di lamentarsene, e troppo tardi si pente d’essere stata cotanto credula per lusingarsi di fissare un cuore così incostante. Corre una voce, che sono due mesi appena da che Adonio sordo a qualunque riflesso, s’è esposto per soddisfare la propria passione a rovinarsi per sempre nell’ordine di quelli, da cui dipende, i quali l’avevano promesso ad un’- altra Dama; e che Amadea vedendosi in pericolo d’essere ripudiata vergognosamente da una autorità, che non soffre appellazione, l’uno e l’altra si sieno esposti a tutti gli accidenti, che indi potessero nascere, accoppiandosi con un matrimonio clandestino. Se questa voce è vera, qual cambiamento nel cuore di Adonio! La sacra cerimonia non ha tanta forza da fissarlo; egli pensa di non essere tenuto alla costanza, trattandosi d’una moglie a lui inferiore. Dove potrà ricorrere questa Signora per ottenere giustizia di un marito, che non può pubblicare per tale, senza disgustare quelli, la cui benevolenza vuol conservarsi? A quali tristi conseguenze non si espongono le persone particolarmente del nostro sesso, quando si abbandonano alla più tenera di tutte le passioni? Amadea pensa di aver soddisfatto alla sua virtù, non accordando al suo amante favore alcuni, prima che il matrimonio lo faccia diventare un debito; ma che servirà a lei un matrimonio, ch’ella non ardisce pubblicare, allorchè il Sacerdote, che ha fatta la cerimonia, sarà costretto a negare, e che Adonio in vece di ratificare, e cercar di meritarsi il perdono con la sua perseveranza in amore, e con la sua pazienza in tollerare gli effetti del risentimento de’scoi congiunti, si dimostrerà contento di vedere annullato questo suo matrimonio? Qual sarà l’afflizio-ne, e la disperazione di una persona così abbandonata da chi sarebbe in debito di proteggerla, e di difenderla? Da poichè Adonio si è attaccato a Belinda ella di già sente un presagio di ciò che le deve accadere: di già il suo cuore è occupato dalla gelosia, accompagnata da riflessi, e dalle più crudeli angoscie, in vista de’mali imminenti, ch’ella medesima si ha procacciati, non consultando se non una imprudente inclinazione, forse congiunta con una mal digerita ambizione. Ella non è certamente quale Belinda, vana, incostante, stordita; ma se avesse pensato ragionevolmente, non avrebbe acconsentito giammai di maritarsi, quando il carattere di moglie doveva produrre effetti così funesti per essa. Siccome il disegno principale di queste speculazioni è di correggere gli errori dell’intelletto i men facili a rilevarsi, e in conseguenza i più pericolosi, così non si propongono questi esempj, se non per dimostrare a qual segno il difetto di pensare, come conviene nella nostra gioventù, ci possa rendere col tempo infelici, senza che allora le riflessioni possano recarci rimedio alcuno. Diranno gli Anatomici, che se nella struttura del cervello vi sia qualche difetto, questa incapacità di riflettere è meccanica, e per conseguenza senza riparo; ma da tale ragionamento si avrebbe a conchiudere, come pur troppo fanno alcuni, che tutti i nostri vizj dipendano dalla nostra costituzione: opinione, che non potrò mai addottare, poiche viene a far cadere tutti i nostri errori su l’autore dell’esser nostro, a roversciare la dottrina del libero arbitrio, in una parola a mettere del pari l’uomo e la bestia, la quale non opera se non per istinto. Non niego, che la struttura degli organi può darci più o meno d’inclinazione al bene o al male, e che un’anima più facilmente può dimostrare la sua ragionevolezza in un corpo che in un altro di costruzione diversa, con tutto ciò si può ajutare la nostra anima a vie più fortificarsi nella sua inclinazione al bene, purchè comincino l’opra quegli, cui è commessa la cura della nostra gioventù, e noi la proseguiamo col vigor necessario, e con l’applicazione dovuta. Un esempio di questa verità è il Filosofo Socrate; si sa che in gioventù abbondonato ad ogni genere d’intemperanza, col suo coraggio, e con la sua ragionevolezza trionfò di tal vizio, e divenne un esempio di virtù, e di astinenza. Tutto il mondo accorda, che la cognizione di noi medesimi è la più utile di tutte, e su questo punto dovrebbero versare le prime lezioni, che ci vengono fatte. I genitori, i direttori, non potranno mai giustificare la loro negligenz-za in tal proposito. Dovrebbesi esaminare a fondo il cuore de’giovani, e quando si arriva a scoprire la loro inclinazione favorita, sarà facile sradicarla, ovvero corroborarla, a misura che ella tende al vizio, ovvero alla virtù. Vi sono, egli è vero de i naturali tardi, e difficilissimi da animar; altri cotanto vivaci, che non si possono fissare; e poichè sono direttamente opposti, bisogna adoperare metodi totalmente contrarj. Ma non si può dispensare da un tal dover col pretesto della sua difficoltà, e non è forse tanto difficile l’ottenere il fine bramato, se consideriamo, che per dare spirito, e vivacità ad un temperamento tardo, non bisogna fargli vedere se non oggetti giocondi, e brillanti, ed all’opposto presentare oggetti i più serj, e più persuadenti ad uno spirito leggero, e inconsiderato. Quando l’animo sia dominato da una eccessiva ilarità, e dall’amor del piacere, bisognerebbe avvezzarlo per tempo a riflettere alle traversie, a i disastri, e alle calamità, cui è soggetta buona parte del genero umano. La compassione delle disgrazie degli altri, e la certezza, che non si dia condizione, o qualità sicura da i colpi della fortuna, può dare alla nostra maniera di pensare una certa serietà, e molto contribuire a calmare l’impeto del nostro temperamento. Pochi hanno la felicità d’essere composti di ele-menti in giusta proporzione tra loro; quindi col giudizio si dovrebbe supplire a ciò, che manca nella costituzione. Lo stupido, in cui domina il terrestre, ed il flemmatico acqueo dovrebbero tenersi svegliati coll’esercizio, con la musica, con la danza, e co i più giocondi divertimenti, laddove co i contrarj bisognerebbe temperare il collerico, l’incostante, lo stordito. Ma questo metodo, come ho già detto, sarebbe inutile, quando i giovani lasciati in sua balia non facciano tutti gli sforzi per secondarlo. Basta un buon fondamento gittato da chi ha cura della nostra educazione; è tutta nostra colpa, se cadiamo poscia in errore, in irregolarità imperdonabili. Perciò la riflessione, e la meditazione sono tanto necessarie allo spirito, quanto al corpo lo sono gli alimenti; un breve esame delle nostre inclinazioni non porterà verun pregiudizio al temperamento più malinconico, e recherà un vantaggio infinito ad un temperamento troppo sanguigno. Pensando gl’infelici alle proprie disgrazie, potranno ritrovare qualche utile stratagemma per sollevarsi dalle miserie: ed i felici diverran più beati in contemplare il loro stato. Vi sono cert’uni, i quali provano tanto piacere a rientrare di quando in quando in sè medesimi, che non vorrebbero, per quanto v’è al mondo, perdere questa libertà. Ho conosciuto un Gentiluo-mo, che aveva una moglie da lui teneramente amata, la cui compagnia gli era d’ogni altra più cara, quando cercava di conversare; e pure si rattristava infinitamente, quando ella andava a disturbarlo in tempo delle sue meditazioni. Egli apprezzava tanto la libertà di pensare, che non poteva tollerare alcun interrompimento, nè pure da quella, che gli era più cara di se medesimo. Mi trovava un giorno in sua casa, quando parendo a sua moglie, ch’egli fosse stato troppo lungo tempo solo, andò con una dolce violenza a levarlo dal suo gabinetto. Io restai sorpresa in vederlo comparire con un’aria più grave del solito, e domandandogliene la cagione. Questa cara creatura, mi rispose, mi toglie la metà del piacere, che provo in amarla, perchè non mi permette di contemplare la felicità, che risento nel possederla. Come dunque è possibile, che tanti si privino della soddisfazione più grande, di cui possa godere una ragionevole creatura, e in oltre cotanto importante in diverse circostanze della nostra vita, che senza la riflessione non possiamo ottenere un bene, nè preservarsi da un male? E pure vi sono persone tanto ignoranti per credere, o tanto cattive per insegnare, che chi pensa molto, ed ama la solitudine, sta lontano dal mondo a solo fine di nuocere. A proporzione del posto, in cui son collocati, si credono capaci di formare progetti più o meno dannosi al genere umano. Si accuserà un Uomo di stato, amante della vita sedentaria, di formare qualche cospirazione contro del suo Principe, o della sua patria: per la stessa ragione s’imputerà ad un negoziante, che voglia ingannare i suoi corrispondenti; si dirà che quell’Agente studj nuove maniere di approfittarsi ne i conti, e così discorrendo dalla più sublime condizione al più infimo grado. Pur troppo è vero, che alcuni pochi esempj autorizzano una tale opinione. Abbiam veduto persone, che pensavano profondamente, non aver altra mira che il proprio ingrandimento su la rovina di quelli, che pretendevano di servire; altri che mostravano d’essere gran partigiani della libertà, non pensare, se non a ridurla in servitù; e persone, che predicano continuamente la giustizia, proteggere i più grandi malfattori. Fare un così manifesto abuso della facoltà di pensare egli è un rivolgere contro di noi medesimi quell’armi, che il Cielo ci ha dato, ed obbligare quella sacra ragione, che dev’esser la nostra guida nel sentiero della virtù, ad accompagnarci nel cammino del vizio. Sarebbe infinitamente meglio non pensar mai, di quello che pensare in tal guisa, perchè nel primo caso non si pregiudica se non a se stesso, e nel secondo si cerca di nuocere al genere umano, o di opprimerlo. L’ipocrisia è detestabile a Dio, ed a gli uomini: lo ha detto una bocca, che non può errare: ed i rei di tal vizio avranno un castigo terribile, e meritano su la terra il dispregio universale degli uomini. Levata che sia a questo Angiolo falso la maschera di benevolenza, e di sincerità, con la quale coprivasi il volto, e nella sua naturale bruttezza comparisca una furia spirante tadimenti, e persidia, sarà tanto più detestato, quanto prima ammiravasi. Sarà odiata, sarà fuggita, quanto era stata amata, e ricercata; ogn’uno cercherà d’essere il primo ad avventargli contro il sasso, e ad insultarlo in ogni occasione. Il furbo non può ingannare alla lunga, e sono inutili tutti gli artifizj quando cerca di ricuperare la stima, che avevasi per esso prima di conoscerlo. Le persone di qualche distinzione, che notoriamente abbian commesso una qualche azione o indiretta, o ridicola, s’aspettino pure le satire, e le derisioni; e ‘l vecchio Pompilio ha dovuto sofferire da suo figliuolo medesimo un piccante motteggiamento sul suo matrimonio con una anche troppo giovane per essere sua nipote. Pochi giorni dopo di questo inegual matrimonio s’incontrarono padre e figlio nella medesima adunanza. Alcuni, che non avevan dopo le nozze veduto Pompilio, se ne consolarono secondo il costume; si parlò della felicità dello stato conjugale, e uno della compagnia do-mandò al figlio, quando pensasse di maritarsi? Veramente, Signore, egli rispose, questa è una cosa, alla quale non ho ancora pensato, ma soggiunse con un’occhiata satirica, la sola Dama, ch’io bramerei per mia sposa, è la sorella di mia matrigna, e la sola ragione, che m’indurrebbe a farlo, sarebbe l’onore di ricevere da mio padre il titolo di fratello. A questa così pungente risposta, che non si aspettava dalla bocca d’un figlio non seppero contenersi dalle risa nè pure quelli, cui stava a cuore di conservarsi la buona grazia di Pompilio; e smascellarono dalle risa que’, che non si curavano molto nè della sua grazia, nè del suo risentimento. Il vecchio sposo, veggendosi così beffato dal proprio sangue, restò confuso, e senza saper che rispondere, siccome era stato in un altro incontro, quando obbligato a fare la descrizione d’una battaglia, nel tempo che il cannone rimbombava alle orecchie, ed agli occhi si presentavano tutti gli orrori della morte, egli non potè rimettersi dal suo spavento, se non dopo aver traccanata, giusta la dose ordinaria, mezza dozzina di bottiglie di vin di Borgogna. Non si può mettere in dubbio, che da alcuni anni non sia molto cresciuto il numero delle teste sventate. Abbiamo veduto cose, che al solo raccontarle, altre volte sarebbero state credule favole, e tutti i personaggi de’Romanzj non pa-reggiano alcuni caratteri, che abbiamo sotto gli occhi. Abbiamo molti Cavalieri erranti, i quali simili a Don Chisciote, quando spronava Roffignante per combattere il mulino a vento, si precipitano in pericoli reali, per isfuggire quelli, che sono meramente immaginarj; abbiamo degli ipocriti, e delle persone, che non pensano se non a conservare la vita, de’ quali Hudibrat ci dà un modello imperfetto nel suo Gentiluomo di campagna; abbiamo i nostri Tersiti, i nostri Pandari, e i nostri Demagori, che sorpassono di gran lunga quegli altri, di cui gli Storici, o i Poeti ci han descritto il carattere. Non è facile il decidere, se maggiore sia tra di noi la follia, o la corruttela, e se maggiore sia il numero di coloro, che si acquistano qualche fortuna a spese della loro virtù, o quelli che a forza di stravaganze diventano infelici. In fatti è cosa ordinaria il vedere e alla Corte, e all’armata, e in Città, e in campagna, persone, che si affaticano tanto per perdere sè stessi, quanto gli altri sarebbero per rovinarla. Finalmente quando si dia un’occhiata al mondo, e si consideri il tempo, in cui viviamo, e i capricci del genere umano, bisogna dir col Poeta: non è da maravigliarsi di niente, o conviene maravigliarsi di tutto. Ma a qual altra cagione attribuire si devono tutti gl’inganni, le colpe, le crudeltà, le oppressioni, le azioni contro natura, le calamità innumerabili, che ci tiriamo addosso, ovvero facciamo cadere su gli altri, se non ad una mancanza di riflessione, ovvero ad un uso cattivo delle nostre riflessioni? Non niego essere di peggior conseguenza l’ultimo abuso del primo, ma poichè siamo agenti liberi, da noi dipende scegliere, se vogliamo essere virtuosi o viziosi, e sarebbe una frivola scusa il dire di non aver avuto coraggio di pensare, per paura di pensare male. È stato formato l’uomo un poco inferiore agli Angioli, ed è sua colpa, se non è solamente un poco ad essi inferiore nella felicità. Questa terra abbondevolmente produce tutto ciò, che abbisogna alla sua natura, s’egli vuole sollevarsi su l’ali della contemplazione, può partecipare in parte delle beatitudini, che si godono in Cielo. Ma lasciamo a i Teologi questo argomento, ed ancorchè sia questa una verità evidente, molti vogliono riferirsi piuttosto al testimonio degli altri, di quello che farne da se medesimi lo sperimento. Un mio amico, che in compagnia d’altri Gentiluomini Inglesi girava l’Europa, traversando un giorno una delle parti più montuose, e selvaggie della Francia, smarrì i suoi compagni. Allorchè se ne accorse, si figurò che fossero andati innanzi, in tanto ch’egli era astratto in una profonda meditazione, e che per questa ragione non li avesse osservati: spronò per tanto il suo cavallo per raggiun-gerli, e aveva di già fatte molte miglia senza poter discoprirli, nè incontrare persona, che gl’insegnasse la strada, che conduceva alla Città, dove avevano stabilito di fermarsi la notte. Giunse finalmente ad un sito, dove la strada si divideva in tre, e nello stesso tempo cominciò a cadere una dirotta pioggia, accompagnata da un vento impetuoso, così che si vide in necessità di volgersi verso un bosco, che vedeva poco distane, per mettere a coperte se, e’l suo cavallo dalla burrasca, che sempre più si faceva violenta. Si difese qualche tempo sotto quegli alberi folti, ma vedendosi vicino a restare esposto al furore della procella, cominciava a perdere la pazienza, quando intese una voce, che lo avvertiva di volgersi alla dritta d’una piccola altura, che vedeva in distanza di trenta o quaranta passi. Egli mi assicurò di non aver giammai provato tanto piacer della Musica, quanto aveva risentito al semplice suono di una creatura della sua specie, in un luogo selvaggio, e che pareva deserto. Seguì l’avviso, e vide un uomo vestito da eremita su l’uscio d’una grotta scavata sotto di quella eminenza. Il vento, e la pioggia non lo trattenne d’uscire, e andare incontro al nostro povero viaggiatore, lo ajutò a smontar da cavallo, quale legò sotto ad un albero de’più fronzuti, e lo introdusse nella sua oscura abitazione con tutta la politezza del Cortigiano più compito. Restò sorpreso all’eccesso il mio amico, non solamente di tale accoglimento, ma ancora dell’ultima proprietà di tutto ciò che osservò in quella grotta: ella era divisa in due stanze, nella prima v’era una tavola, due sedie, una credenza guernita di bicchieri, e di alcuni pezzi di porcellana pieni di scuisite frutta; nell’altra v’era un letticiuolo con un materasso e una coperta, oltre una sedia, ed una scanzia di libri vicina ad un piccolo altare ornato d’un Crocifisso. Alla vista d’una così ingegnosa abitazione restò pieno di meraviglia, e siccome parlava benissimo Franzese, cominciò a interrogare il suo ospite, e domandargli in qual maniera poteva provvedersi del bisogno per vivere in quel sito, d’intorno al quale non vedeva nè Città, nè villagi. Risposegli sorridendo l’eremita, che avrebbe soddisfatto tra poco alla sua curiosità, ma che bisognava prima ristorarlo con ciò, che poteva dare quella povera grotta. In così dicendo coprì la tavola d’una finissima tovaglia, d’una insalata, di frutta di varie sorte e secche e fresche, di pane bianchissimo, di formaggio, e d’una bottiglia del più prezioso vino di Borgogna. In una parola, non si poteva nella più abbondante Città presentargli una più squisita collezio-ne di quella, che trovava in una grotta, e in mezzo ad un bosco, entro cui non appariva che vi fossero abitatori. Cresceva ad ogni momento la meraviglia dello straniero, di che accortosi il creduto eremita, in tanto che mangiavano, gli fece il racconto dell’esser suo. Gli disse, che quel luogo non era il suo ordinario soggiorno, ma che vi andava di quando in quando, e appunto allora che aveva voglia di meditare; ch’egli portava un abito rispettato dai più gran scellerati per mettersi in sicuro da qualunque insulto, in caso che incontrasse alcuni di que’malfattori, che vivono di furto, e di ladroneccio, i quali spesso quando erano inseguiti, si ritiravano in quel bosco; ch’egli chiamavasi il Conte di Montaubin, e che dimorava in un castello quattro leghe in circa distante. Il mio amico, dopo avergli fatto quegli uffizj di complimento, ch’eran dovuti a un uomo di quella qualità, gli significò la sua meraviglia, ch’egli fosse obbligato a venire così lontano, ed esporsi a tanti incomodi unicamente per piacer del ritiro, quando probabilmente poteva con agio farlo in sua casa, solamente che avesse fatto intendere a’suoi conoscenti la sua inclinazione alla solitudine. Il Conte gli replicò, ch’egli non era pratico del genio Franzese, che ciò era impossibile ad un uomo della sua condizione, che quantunque abitasse in una distanza considerabile da Parigi, o da altra popolata Città, il suo Castello era di continuo pieno di Gentiluomini suoi vicini, e di viandanti che di là passavano, e in oltre che aveva per moglie una Dama di genio sì allegro, e così amante della compagnia, ch’era impossibile restare mai solo. E per maggiore imbarazzo, egli continuò, ho molti figliuoli, e un gran numero di domestici, e quando ancora mi chiudessi nell’appartamento più ritirato che possa avere, non sarei sicuro da qualche interrompimento in una o in un’altra maniera. Lo spirito ha bisogno di riposo, siccome lo ha il corpo: quando io sono stanco di que’piaceri, che devo procuare a’miei amici, io mi ritiro qui per attender alla contemplazione; e quando io ho ripigliato i miei spiriti, ritorno nel mondo, e ne gusto i piaceri con maggior senso, di quello che semai non li avessi lasciati. Al Gentiluomo Inglese, ancorchè conoscesse l’aggiustatezza di questo ragionamento, pareva una stravaganza, che il Conte si fosse scelto un luogo così selvaggio, e dove era esposto a tanti pericoli, ma il Conte che mostrava d’essere un uomo de’ più compiacenti del mondo, non volle lasciarlo così sospeso, e gli narrò diverse circostanze della sua vita, le quali tolsero ogni difficoltà, che il nostro viaggiatore trovava, per conciliare con la ragione una condotta, che a pri-ma vista sembra tanto bizzarra. Il Conte, ebbe in sua gioventù una contesa con un uomo di qualità, si batterono, ed egli ferì in più luoghi il suo avversario. Non sapeva se le ferite fossero mortali, ed oltrecchè severissime in quel paese sono le leggi contro il duello, il ferito godeva la grazia del Re, così che non restava molta speranza di ottenere il perdono, in caso che il suo nemico morisse. Si ritirò da Parigi per mettersi in sicuro, e sapendo che verrebbe esattamente ricercato in tutte le case, dove si potesse sperar di trovarlo, venne a nascondersi in questo bosco, accompagnato da un solo fedel suo domestico, il quale era stato allevato con esso lui, e non volle abbandonarlo in questo caso estremo. Tre settimane avevano vivuto colle sole provvisioni, che loro somministrava quel luogo deserto; molti giorni passarono prima di poter rinvenire un ruscello dove dissetarsi; le frutta di qualche arboscello servivano insieme a satollare la fame, e ad estinguer la sete, e dovettero ricoverarsi su gli alberi più alti la notte, per preservarsi da i lupi, che cogli urli si facevano d’ogn’intorno sentire. La sola protezione del Cielo, egli diceva, li aveva conservati in mezzo a tanti stenti, e pericoli. Finalmente si vide alla disperazione; pareva meno torribile la morte d’una vita così penosa, e tentò di mandare il suo domestico ad in-formarsi dello stato del ferito, ed a cercare un altro ritiro, dove potesse almeno più facilmente provvedersi del bisogno per vivere. Ritornato il domestico recò la nuova gradita, che non solamente era dalle ferite guarito il suo nemico, ma che sapendo egli d’essere stato l’aggressore, impiegava tutti gli amici per ottenere a se il perdono, e insieme al Conte, che pubblicamente si aspettava a momenti di vederli rimessi in grazia, ed ancorchè non convenisse lasciarsi così presto vedere, si poteva però abbandonare quell’orrido ritiro, non più facendosi ricerche della sua persona, e mettersi in casa d’un suo parente, che verrebbe ad aspettarlo all’uscire del bosco, e a condurlo con tutta la cautela in sua casa. Avvenne in fatti quanto prometteva questa relazione: passò appena una settimana nel nuovo soggiorno, che i rei ottennero dalla clemenza Reale la grazia, e divenuti amici tra di loro andarono insieme a gittarsi a’pie`del trono per esprimervi i loro ringraziamenti. Terminò il Conte la sua narrazione dicendo, che i pericoli, e i travagli sofferti avevano prodotto un considerabile cambiamento nel suo temperamento, e fattolo sommamente serio, ancorchè il passato accidente fosse con felicità terminato; che in temo del suo soggiorno in quella solitudine aveva trovata tanta ma-teria da riflettere, che glie ne restava ancora nell’animo, e indelebile la memoria; che le idee, onde attualmente godeva di trattenersi restando solo, niente avevan per lui di malinconico, e triste, ma gli davano la maggiore soddisfazione, ed una perfetta tranquillità. Ora voi vedete, soggiunse, i motivi, ch’io ho di ritirarmi di quando in quando da i tumulti e dagl’imbarazzi del mondo; non posso a meno di non sentire una forte inclinazione per questo luogo, che mi ha servito di asilo nella mia avversità, e penso di doverne fare per una spezie di gratitudine, il teatro delle mie più gradevoli meditazioni: ho perciò fatto in tal guisa tagliar questa grotta, l’ho fornita come vedete, ho provveduto due sedie in caso che bisognasse ad alcuni quì ritirarsi, come a voi è accaduto; vorrei pure aver pensato ad un secondo letto, poichè vien tardi, e preveggo, che non sia per cessare la burrasca, e permettervi di partire. Ma passeremo la notte alla meglio; ho quì una sufficiente provvigione di vino di Borgogna; con questo e col ragionare aspetteremo il giorno vegnente; verrà allora il mio domestico, e vi pregherò di onorarmi della vostra compagnia in un luogo, dove potrò ricevervi in maniera più convenevole al mio desiderio, ed al vostro merito. Gli rispose il mio amico, che non poteva far uso del suo invito grazioso, poichè aveva perduti i suoi compagni, e do-veva affrettarsi per raggiungerli alla Città, dove avevano stabilito di fermarsi la notte, e che pensava di arrivarsi sol tanto che avesse potuto rinvenire la strada fuori del bosco. Il Conte di Montaubin gli disse, essere impossibile ciò che pensava; la città disegnata essere alla parte opposta del bosco; non potersi traversarlo senza una guida, anche in pieno giorno per i diversi andirivienti; la strada reale essere e la più corta, e la più sicura, dalla quale siccome erasi allontanato rivolgendosi verso il bosco, così l’avrebbe ritrovata facilmente con l’ajuto del suo domestico; Ma, soggiunse, siccome costui sarà quì di buon mattino al solito, sarà meglio spedirlo a i vostri amici, informarli del luogo ove siete, e persuaderli o venire ad unirsi con voi nel mio castello, che appunto è situato vicino alla strada comune, ovvero aspettarvi, sin che possiate raggiungerli. Quanto grazioso ed obbligante parse questo progetto per chi lo faceva, parve altrettanto ragionevole e conveniente al Gentiluomo Inglese, il quale, siccome Cavaliere sciolto da quelle moleste formalità, che non s’usano se non tra persone di un’educazione volgare, accettò senza esitanza l’invito, e senza fare l’apologia di questa sua indiscrezione. Passarono con tal piacer quella notte, che appena se n’accorsero, e il Sole non era ancora su l’orizzonte, che arrivò il do-mestico del Conte di Montaubin con un cavallo a mano, poichè quello era il giorno destinato dal suo padrone a ritornarsene a casa, e in altra maniera non era possibile passare il bosco. Era cessata affatto la passata burrasca, e pareva ogni cosa aver acquistato nuova bellezza; d’ogni intorno compariva un non so che di selvaggio, ma dilettevole insieme, che incantava il mio amico, e il Conte gli andava additando in cammino tutti i piaceri di quel luogo campestre. Quì, diceva egli, si vede nella sua purità la natura, quale appunto uscì dalle mani del Creatore. L’arte, e l’agricoltura possono mai arrivare a questa graziosa confusione, con cui da se medesime crescono queste piante? La vista di questi vecchi ed alti alberi non concilia una certa venerazione? Con qual piacere si respira quest’aria così pura, che passa per questi rami, purgata da quelle grosse particelle, ond’è pregna continuamente ne’luoghi vicino alle popolate città? Quì si gode l’etere in tutta la sua purità, e l’anima si veste di nuove ali, e quel ch’è in noi di stupido e di mortale in certa maniera si spiritualizza. E pure, quante persone vivono, e quanti anni ho vivuto io medesimo, senza cogliere qualche tempo per imparare, che Iddio ha dato agli uomini con larga mano tante benedizioni? Disse in oltre, che in queste sue meditazioni in tempo del suo ritiro egli sperimentava tale interna soddisfazione, che non potevasi esprimere con parole, che in questo luogo fermavasi d’ordinario quattro o cinque giorni di seguito, che a nessuno era noto questo sito, fuorchè al fedele domestico, il quale veniva ogni mattina a ricevere i suoi ordini, ed a portargli tutto il bisognevole. Con questi ragionamenti giunsero su la strada comune, e‘l Conte spedì il suo domestico all’albergo, dove il mio amico gli aveva detto, che potevansi ritrovare i suoi compagni di viaggio, con ordine di complimentarli a suo nome, e far loro le più efficaci istanze, perchè venissero nel suo castello ad unirsi all’amico perduto, dell’assenza del quale dovevano essere vivamente afflitti. A questo comando spronato il cavallo, si tolse in momenti alla loro vista il domestico. Essi lentamente marciavano, e per trattenersi in sieme con maggior comodo, e per non aggravare il povero animale, che tutta la notte era stato esposto alla inclemenza del tempo, non avendo il Conte luogo da ricovrarlo. Arrivarono in tanto ad un Castello di nobile apparenza; v’entrò il Conte per una porta segreta al di dietro, di cui aveva la chiave, e introdotto il suo ospite in una magnifica anticamera, gli chiese licenza di lasciarlo per pochi minuti, e tornò immantinente vestito come alla sua qualità conve-niva, e così diverso da quello, che compariva in abito d’Eremita, che appena si conosceva per quello da prima. Lo condusse di poi nelle stanze di sua moglie, graziosissima Dama, e madre di cinque figliuoli, il maggiore de’quali non passava i quindici anni, ma tutti belli, e ben fatti. L’osservava attentamente, e con ammirazione il mio amico, e fatti a tutti i complimenti dovuti, disse al Conte, che nessuna cosa più lo convinceva de’piacerei della contemplazione da lui così elegantemente descritti, quanto il vedere il confronto di quelli che aveva in sua casa. La Contessa prevenne la risposta del marito, rispose con tale grazia, e politezza a questo uffizio, che il mio amico giudicò ragionevolmente non essere inferiore il di lei spirito alle perfezioni della di lei figura. Fecero tutti insieme colezione nell’appartamento della Dama, e mentre si trattenevano dolcemente, sopravvenero i Gentiluomini Inglesi. La gioja di vedere sano e salvo l’amico, e in sì buona compagnia, dopo l’apprensione di qualche funesto accidente, non impedì loro di corrispondere all’accoglienza degli ospiti illustri con la politezza convenevole alla figura che facevano, così che a vederli non potevasi dubitare, che in fatti non fossero persone ricche, e di nascita nobili. Dopo i primi uffizj di civiltà li condusse il Conte ne’suoi giardini, disposti, e coltivati con tutto il buon gusto, e con tutta la diligenza, e proprietà immaginabile. Da una parte godevano i sensi agli odori soavi, ch’escalavano i fiori, ond’erano pienamente adorni i parter, dall’altra le fontane con grottesche formate delle più ricche spoglie del mare invitavano a prendere un dolce riposo. Le più curiose statue d’Eroi, e di Filosofi antichi, collocate all’estremità d’ogni viale, ricordavano agli spettatori la felicità de’secoli passati; e certi spaziosi passeggi piantati d’allorchè venivano colle cime ad incrocicchiarsi, rendevano un’ombra deliziosa. Li condusse poscia il Conte ne’principali appartamenti del Castello, dove tutto spirava ricchezza, e splendidezza; in una parola, secondo la descrizione che me ne fece, pareva, che la magnificenza, e‘l buon gusto gareggiassero insieme per avere la preminenza. All’ora del pranso fu imbandita la mensa del più prezioso, che producesse la stagione; spiritosi ragionamenti aggiungevano nuove grazie al convito, e per lo spazio di dieci giorni, che ad istanza del Conte si trattennero in questo Castello, furono trattati in una maniera, che ben dinotava l’ospitalità, e la politezza della Nazione Franzese. Mi disse in oltre l’amico, che in tut-to quel tempo non passava un’ora, che non sopraggiungesse qualche ospite novello, e che ogni notte v’era il divertimento o di ballo, o di musica. Pareva in somma, che colà non si vivesse se non per il piacere, ad ancorchè il Conte stasse in compagnia, quanto ogn’altro, lieto, e giocondo, sovente in mezzo al tumulto, ed alla confusione lo tirava in disparte, e gli diceva: Voi vedete, Signore, quanto è difficile in questo luogo di gustare il diletto della meditazione, e potete da voi giudicare, se non è necessario ad un uomo, il quale non voglia scordarsi di se medesimo, nè del fine, per cui è stato creato, di abbandonar qualche tempo questa profusione di tumultuosi piaceri. Non posso negare di essere restata molto sorpresa a un tale racconto, della di cui verità non poteva dubitare, attesa la nota integrità di chi me lo ha fatto; sicchè piuttosto sospettava di qualche alterazione di cervello nel Conte di Montaubin, che gli facesse patire tratto tratto qualche deliramento, e domandai all’amico in quale quarto di Luna quel Gentiluomo condannava se stesso ad un esilio volontario. Da questa interrogazione deducendo l’amico qual fosse la mia opinione, mi assicurò essere falsissime le mie conghietture; non aver egli conosciuto uomo più giusto nel suo pensare, il di lui conversare, anzi ogni sua azione essere stata esente da ogni censura, il che doveva in buona parte attribuirsi alle riflessioni, ch’egli faceva nel suo ritiro. In quel tempo io era troppo amante dell’allegria, e troppo abborriva la solitudine, onde potessi adottare la di lui opinione; ma coll’andare degli anni ho cambiato gusto, e trovo presentemente, ch’egli merita più la nostra ammirazione, che la nostra censura, poichè non separavasi di tratto in tratto dal mondo, se non per imparare di diportarsi meglio, quando ritornava a praticarlo. Parmi però, che avrebbe potuto soddisfare al suo gusto per il ritiro in un luogo più comodo, e meno pericoloso di quello, ch s’aveva scielto. Egli è vero, che vi sono al mondo tante persone importune, le quali verrebbero con un’aria affettatamente uffiziosa, quando sapessero il luogo del vostro ritiro, a cercarvi, e strascinarvi quasi per forza in mezzo alla compagnia; ma non era in questo caso il Conte Franzese, il quale aveva molte abitazioni manco in vista, nelle quali avrebbe potuto ritirarsi, e starsene tanto nascosto quanto nella sua caverna. Aveva pure un’altra curiosità, e voleva sapere, se alla Contessa sua moglie aveva comunicato il segreto di questo ritiro, e le ragioni che aveva di sovente allontanarsi da lei, ma non lo sapeva neppure l’amico, e non aveva sen-tito farne parola. Con tutto ciò credeva, ed io pure ero della sua opinione, ch’ella fosse di tutto informata, poichè mostrava di vivere in una perfetta armonia col marito, il che non poteva darsi certamente, ancorchè fosse una Dama di merito straordinario, se non avesse saputo per qual cagione la privava della sua compagnia. Poche sarebbero certamente le mogli, che approvassero una tale condotta, e particolarmente se amassero i loro mariti, quando ancora fossero persuase, ch’eglino si movessero dalle stesse ragioni, che determinavano il Conte a ritirarsi; esse riputerebbero come un’Ingiuria, se le lasciassero sole, senza loro comunicare tutte le particolarità di un così straordinario procedere. Bisogna credere per tanto, o che Madama di Montaubin non fosse gelosa, o che fosse informata a pieno di questa faccenda. Sia come si voglia la cosa, non fa al mio proposito: io vorrei solamente, che alcuni de’nostri sventati volessero di quando in quando condannarsi alla solitudine, e crederei, che coloro, i quali al presente tengono la riflessione per la cosa più nojosa del mondo, si trovassero in progresso risarciti abbondevolmente di tutta la pena sofferta da principio, avanti di poter superare la loro ripugnanza. Alle persone d’un genio troppo incostante riesce difficile assuggettarsi a questo abito, che raccomando; non è da aspettarsi un cambiamento improvviso, nè occorre sperare, che si possa ottenere con la violenza. Teneteli tutto un giorno chiusi in una stanza, e interrogateli a che abbian pensato; vi risponderanno di non aver ad altro pensato che alla lor prigionia. Questo dunque sarebbe il metodo peggiore da praticarsi. Bisogna con dolcezza avvezzarli alla riflessione, e non colle minaccie. Non saprei suggerire un mezzo migliore, quanto metter loro dinanzi a gli occhi die i libri, che probabilmente fossero di suo gusto, ancorchè questa lettura non fosse per essere molto utile; purchè non contenessero cose indecenti, o contrarie a i buoni costumi, potrebbero sempre avvezzarli al piacere di leggere, e guadagnato che s’abbia una volta questo punto, si può successivamente farli passare alla lettura d’altri libri più serj. La pittura, e quella particolarmente che rappresenta storie, e vedute diverse di terra e di mare, molto contribuisce a ispirare del gusto per la riflessione: ciò che può allettare gli occhi, facilmente passa nell’anima, e mette in curiosità il più indolente. Non è possibile riguardar la natura rappresentata in tal guisa, senza che lo spirito ne riceva una durevole impressione. Gli avvenimenti considerabili de’tempi andati, le prospettive diverse presentateci da questa Terra con le sue montagne, le valli, i prati, i fiumi; tutto il dilettevole e l’orribile insieme, che ci offre questo abisso profondo, da cui siam circondati, vascelli, che a vele gonfie da un vento favorevole folcano il mare, altri che vanno a frangersi in uno scoglio, o restan sepolti nell’onde, tutti questi oggetti espressi su le tele resteran nello spirito, quando ancora il quadro non resti più sotto gli occhi, e ci suggeriranno delle idee istruttive, e dilettevoli insieme. Potremo in tal guisa trattenerci con piacere da noi medesimi, senza essere obbligati di cercare altrove con che divertirci. La maggior parte della nostra Nobilità si pregia di tenere in alta stima la pittura, e vedesi un numeroso concorso, quando son messi in vendita quadri di prezzo; ma tre quarti di queste numerose adunanze sono portati piuttosto dal desiderio di trovarsi insieme, che da altro più lodevole motivo; e queste vendite all’incanto si considerano come un passatempo, un’occasione di trovarsi la mattina a scherzare, e ridere insieme, e tal volta chiamansi pure galanterie. Le opere d’un Tiziano o d’un Raffaello non faranno molta impressione in una persona di tale carattere. Vi sono de i Generali d’armate, in cui non fanno veruna impressione i trionfi dell’antica Roma, degli Oratori, che non hanno alcun senso alla vista d’un Demostene, o d’un Cicerone parlanti al popolo, e delle Dame incapaci di sentire la menoma compassione per una Lucrezia spirante, o di ammirare la famosa Principessa Inglese, che succhiò il veleno dalla ferita del marito. Si può dire lo stesso di molti di quelli, che frequentano i teatri; essi badano più agli attori, che ai caratteri, che rappresentano, e mostrano di più interessarsi nelle frivole risse, che si accendono tra questi Eroi del teatro, di quello che nel destino degli Eroi, e delle Eroine reali. L’abito, la voce, i gesti di Quin, Garrick, Cibber, Horton, Clive, Wonssington ed altre saranno i più lunghi argomenti della conversazione; e non si parlerà mai delle crudeltà del Re Ricardo, della ingiusta gelosia di Othello, della filial tenerezza di Hamlet, della virtù di Andromaca, del cangiamento di Mylady TovvleyI tre primi caratteri sono i principali delle tre più belle Tragedie di Shakespear; L’Andromaca Inglese è una libera traduzione di quella del Sig. Racine, e molto stimata: Myaldy Tovvnley è il personaggio principale del Provvoked d’huschand, o del Marito Irritato, e ridotto all’estremo, una delle migliro Commedie del teatro Inglese.e di tutti que’toccanti caratteri, che i Poeti si studiano di mantenere, o d’inventare, acciocchè servano di lezione ad alcuni, e ad altri di eccitamento per imprendere grandi azioni. Che può darsi più dilettevole ad una persona, che pensa quanto il vedere i più famosi avvenimenti dell’antichità, i costumi differenti delle più rimote nazioni, rappresentati sul teatro con tutta quella forza, e quella energia, di cui la Tragedia è capace? Che di più atto a correggere le nostre follie, quanto vederle esposte con arte, e senza amarezza dall’amabil Commedia? Riformare i nostri costumi, correggere i nostri errori, servirsi del piacere come del mezzo più adattato a fare impressione su l’anima nostra, servirsene perchè c’inspirino le più sublimi idee dell’onore, e della virtù, questo è fuor di dubbio il gran fine, che si è proposto nella sua istituzione la Commedia: vi sono riusciti a perfezione molti degli antichi Poeti, e alcuni de’ moderni. Ho inteso più volte dire, che alcuni sono restati tanto colpiti, veggendo rappresentar sul teatro qualche delitto, ch’essi pure avevano commesso in segreto, che tornati a casa hanno confessato il suo fallo, e passato il restante di sua vita in una spezie di penitenza delle loro colpe passate. Ma nè questo, nè qualsivoglia altro metodo potrebbe servire a nostra correzione, quando non siamo attenti agli oggetti, che ci si presentano, mi duole assaissimo, che questo sia un caso raro per color, che frequentano gli spettacoli; essi non applicano se non a ciò che li fa ridere, e molti che per compiacere ad altri mostravano disgusto, che siensi introdotti i Pantomimi su i nostri teatri, vi trovano in essi più che in ogni altra cosa piacere. Difenderanno alcuni queste mute rappresentazioni; diranno, che gl’Italiani, nazione in molta riputazione di saviezza, li pregiano, e gli incoraggiscono, che in questa invenzione vi comparisce molto spirito, e molta desterità, e che gli spettatori hanno occasione di mostrare la loro sagacità e penetrazione, indovinando il senso da i gesti, e da i movimenti degli attori, come se parlassero. Ciò avverebbe senza dubbio, se volessero starvi con attenzione, ma io vedo, che quelli, che si compiacciono d’uno stato d’indolenza, non si divertono se non con le metamorfosi d’Arlichino, senza pensare ad altre ragioni per cui dovrebbero portarsi allo spettacolo, nè riportano più vantaggio, che se fossero stati a vedere uno de’più ordinarj ballerini da corda. In somma, una persona che pensa, può cavar qualche frutto da ogni cosa, e per quanto è merito intrinseco abbia una cosa, non potrà ella mai rendere migliore una persona che non pensa: sarà lo stesso, che la musica a un sordo, e un bel passeggio ad un cieco. È una comune espressione, ancorchè non bene intesa da molti, quando si vuol fare un elogio di qualcheduno, dire, ch’egli è di buon gusto. Ogni uno affetta di aver questo buon credito, poichè si suppone, che in tutte le azioni si usi scelta, e buona grazia. Molti celebri autori hanno impiegata la penna a descrivere la differenza, che passa tra il buon gusto, ed il gusto falso, ma nessuno a mio parere l’ha fatto con quella precisione, che sarebbe necessaria per darne a’leggitori un’idea distinta. Il buon gusto non è altro, che una seconda immaginazione diretta da un sodo, ed aggiustato giudizio, e in fondo non è altro, che quella giusta maniera di pensare, che ho fin ora raccomandata. Dico in oltre, che il gusto falso consiste in imitare imprudentemente le idee degli altri, e voler fare come fanno alcuni, che si sono di già acquistato il credito di bel talento, senza considerare, che, che ciò, che in uno comparisce bene, sovente in un altro fa un effetto tutto al contrario. Mille circostanze possono fare, che questa imitazione si sconcia, e fuor di proposito, e quindi farla passare con ragione per gusto falso. Quindi è, che molto importa a chi desidera di fare una bella figura nel mondo, di toglierne tutto quello, che v’è di buono, e lasciare tutto il cattivo; di procacciarsi una durevole felicità, e farne parte agli altri, importa, dissi, moltissimo di mettere in opera tutta l’applicazione per conoscere al possibile e ciò che fanno, ed il fine, a cui devono aspirare. Fine del Libro Quarto.