Sabbato 15. Novembre 1788
Della Lettera, ch’io dissi d’avere scritta a mia
Madre, ebbi un’affettuosa risposta. Durante il mio quinquenne
soggiorno di Genova le scrissi ogni mese informandola della mia
situazione, e regolarmente fui corrisposto. In più volte le
mandai in denari una somma ascendente al valore dell’oro da me
rapitole. Questi segni d’onestà, di riconoscenza, d’amor
figliale, mi privavano de’pochi soldi che m’avanzavano, dopo
certe necessarie spesette per la mia decente comparsa.
Non istetti in Genova che cinque giorni soltanto fuori del Palazzo da cui venni scacciato. Alloggiai in casa d’un mio Amico ministro d’un Negoziante. L’occasione di pranzare col Capitano Francese d’una Polacca pronta al viaggio di Marsiglia mi determinò prendere su quella l’imbarco, e passare in Francia: tanto più, ch’ei me ne aveva accresciuta la voglia col descrivermi la buona compagnia di passeggieri che aveva. Duecento Scudi mi sembravano una ricchezza. Aveva quanto occorrevamo in abiti e biancheria, per qualch’anno, e per tutte le stagioni. Mi lusingava sulle altrui informazioni di poter guadagnarmi il pane insegnando la Lingua Francese. Non mancavami spirito, nè coraggio, ed avventurato mi sono a’rischj del mare, e a’capriccj della Fortuna, del miglior umore del mondo.
Buon per me, che il moto violento, e variato dell’agitato Legno, non mi cagionò nè paura, nè incomodo, anzi produssemi una grata sensazione. Trovai ne’miei compagni di transito tanti caratteri quante n’eran le teste, e non devo ommetterne la descrizione.
À la
matelote con una larga serica fascia
color di rosa degna di cingere il fianco a una Venere non mai i
floscj lombi di quella figuraccia sguajata. Olezzava d’aromati,
di spiriti, d’acque odorose, di balsami, di sali volatili, e
allo spiegare i suoi fazzoletti vinceva le forti esalazioni
della pece del Bastimento. Era carico di tabacchiere, d’astuccj,
e di tutte le galanterie da far mostra sulla toilette di qualche Sposa. La loro costruzione, il
colorito, gli ornamenti, davano serio argomento di discorsi alla
sua sibilante eloquenza. Sempre gajo, e di buon umore, sempre
occupato delle sue frivolezze, era nella sua pelle l’uomo più
felice del Mondo, non inquietava alcuno, e di nulla
inquietavasi. E uno.
punch. Scosso il giogo della
Religione, e degli umani riguardi, non gli uscivan di bocca, che
delle ingiurie, e de’motteggj contro di quella, delle oscennità
ad offesa di questi, delle bestemmie inglesi, de’vituperj. Chi
se ne scandalezzava era da lui riputato una testa debole. A suo
dire la più sana Filosofia era quella che insegnava a vivere a
modo suo: e faceva consistere la felicità nell’esser sempre
ubbriaco, nello sforzare i sensi a tutti i gusti possibili, nel
ridersi delle Leggi del Cielo e del Mondo. Incauto per non
celare il suo contraggenio alla Nazione Francese in un Legno di
quella Bandiera, ebbe forte sino ad un certo segno di trovare
uno scudo nella prudenza del Capitano contro il risentimento
de’Marinaj: ma uno di questi offeso un giorno particolarmente, e
sfidato a’pugni dall’ubbriacone lo servì
Oratio in funere degna della
sua satirica loquacità. Chiamato a Marsiglia da una
considerabile eredità, ebbimo la disgrazia della sua compagnia,
che riuscì a tutti molesta. Parlava contro i suoi medesimi
sentimenti per crearsi motivi di soperchiare, d’offendere, e
com’era fino d’ingegno, e non senza cognizioni letterarie, così
pareva che sempre stesse dal canto suo la ragione, e tacer
faceva chi sentiva al contrario. Io poteva coglierlo al varco
più d’una volta, ma per non impegnarmi con quel vile maledico lo
lasciava dire quanto venivagli in bocca. Non ho mai cercato le
risse, ma non soffersi nemmeno da chi che sia la menoma
ingiuria. Come il bevitore era Inglese spaccato, così questi era
Francese sin nelle midolla, e preferiva l’ultimo marinajo di
quella Polacca al più colto Italiano. Leggeva sempre Libri
Francesi, sosteneva che al Mondo non davasi più bella Lingua di
quella; e se alcuno usciva con qualche rimostranza, subito
raffinati motteggj, palliati insulti, pompa di stiracchiate
dottrine, e tutti si stringevano nelle spalle e tacevano.
Appassionato per la Musica si credeva d’incontrar il suo parere
lodando i Maestri, e i Cantori che godono del maggior credito:
ma erano tutti bietoloni s’egli lodati non avevali in prima, e
per essere seco lui d’accordo bisognava fargli l’Eco. Perchè da
me non poteva egli esigere niente più che il mio silenzio, mi
trattava con una spezie di disprezzo di cui nacque il caso di
vendicarmi. Parlandosi un giorno d’Epitaffj disse che il suo
l’aveva apparecchiato egli stesso. Potevate, io gli dissi,
risparmiarvi la pena perchè vi si conviene quello che fecesi per
il Poeta Ipponace. Fuge grandinantem tumulum
horrendum. Aveva egli aperto l’adito ad un torrente
delle solite sue pungenti vivezze, quando l’arrestai
coll’avvisarlo, che meco egli misurasse bene i termini: perchè
io sapeva rispondere colla Lingua, e colla mani. Non ci volle di
più a renderlo docile verso di me.
premi e
stali avesse potuto condurla a riva. Promisele in dono
tutto il suo, giurando d’avere sei mila scudi di gioje. La
mamma, che tremava pur (sic) essa dallo spavento, affine di
persuaderlo giurò sul suo onore, e su quello di sua figliuola,
che ne valevano più di dieci. Egli si mise a ridere, e le esortò
a darsi coraggio, assicurandole che non eravamo in pericolo.
Tornato il mare in bonaccia ambedue ebbero tutta la cura di
ristorare dal danno sofferto, una Gazza, un Pappagallo, un
Canarino, e due Cagnolini, che seco loro portavano. Ricuperato
lo smarrito suo spirito quella Ninfa Teatrale ne raccontò le sue
imprese. Quanti Teatri sostenuti colle sole sue gambe! quanti
confronti avviliti! quante fortune agl’Impresarj recate! Vienna,
Londra, Pietroburgo, erano in gara per averla: le si mandavano
Foglj in bianco per indurla ad accettare le offerte: il suo
valore superava ogni prezzo: niuno ardiva limitarglielo, a Lei
se ne lasciava l’arbitrio. Matrimonj ricusati, amori negletti,
passioni deluse, onori ricevuti, erano l’anima de’suoi discorsi.
Aveva fatto vacillare de’troni, precipitar dei Ministri,
dispensar de’titoli, arricchire de’miseri, e la Mamma affermava
tutto anelando, perch’era grossa quanto una balena, e ogni
parola le costava un respiro. Si seppe poi che tutto il suo
Capitale ascendeva a circa trecento Scudi: e con tutta la sua
bellezza resistente a’sublimi affetti, teneva dietro ad un
Veneto Capitano rovinato per le Donne di Teatro onde mangiarli
anche il Bastimento. Il vezzoso Vecchio tutto credevale, o
almeno fingeva di crederle, ed erale sempre accanto storpiandola
di complimenti.
Gli altri passeggieri erano un Uffiziale, che rideva molto e parlava pochissimo, un Mercante che non sapeva un zero fuori del circolo de’suoi affari, un parasito che di parlar non aveva tempo, perchè sempre mangiava, un divoto, che diceva sempre orazioni, o era rapito in estasi contemplative.
Con tanti bizzarri diversi caratteri in quel Legno raccolti era impossibile, che non s’intrecciassero delle Comiche Scene. Così di fatti seguì, ma io non ebbi mai parte in alcuna d’esse, e mi tenni semplice spettatore. La più cara compagnia per me era quella del Capitano, uomo colto, gentile, prudente, di spirito, e nell’arte sua peritissimo. Esso mi fece prendere un’idea vantaggiosa della sua Nazione, e parlandomi sempre nel suo linguaggio da me inteso soltanto in lettura; mi diede una spezie di scuola, che non fu inutile affatto tuttochè breve.
Giunti a Marsiglia si separò la Compagnia viaggiatrice. Io fui
diretto da un Locandiere Italiano, che promisemi mari e mondi,
ma in quattro mesi nulla fece per me altro che farmi spendere al
suo Albergo tutti i denari che aveva. L’unico vantaggio che ne
ritrassi fu quello d’imparare col suo ajuto ad esprimermi
mediocremente bene in Francese, e ad intenderlo. Era ridotto
alla disperazione quando una combinazion favorevole mi diede la
vita.
(Sarà
continuato)
Continuano le repliche del nuovo Dramma a Sant’Angiolo,
e sempre a
L’accennata Tragedia Galeotto Manfredi di
Faenza, del rinomato Signor Abbate Vincenzo
Monti Romano, Segretario del Signor Principe Onesti, incontrò la soddisfazione di
chiunque gusta la regolarità delle Azioni, la sostenutezza
de’caratteri, il felice maneggio della passioni, le unità
rispettate, e sopra tutto una bellezza di stile, che sorprende
ed incanta in quelle frasi, in quell’espressioni medesime, che
severamente son condannate dalla sofistica pedanteria inimica
de’voli arditi, delle pellegrine invenzioni. In questo pregio sì
caro agl’intelletti che sdegnan la sferza scolastica sulle
vibrazioni del genio, il nostro Autore sovranamente distinguesi.
Siccome nell’anno scorso graditi furono su questi Fogli i
squarcj riportati del suo Aristodemo,
perchè dalle Scene perdonsi molte parole, o de’be’ pezzi
languiscono sulle labbra di certi Comici, in vece d’essere
vivificati,
La scelta di queste parti staccate non serve, che a far conoscere lo stile impiegato dall’Autore in questa sua Tragedia. Se i divisi membri hanno separatamente tanta bellezza, è facile immaginarsi quella del corpo da essi composto.
Avvisiamo, che nel Teatro a San. Giov. Grisostomo ora l’entrata non costa che soldi dieci, benchè il Ballo de’Ragazzi continui con universale piacere.
Carissimo mio Signor:
Bovolenta li 9. Novembre 1788.
Non hò sentito ancora nella sua
Gazzetta, che V. S. nomini la tanto decantata nostra
Accademia letteraria. Essa è un Composto di membri
rispettabili in tutte le scienze, e d’ingegni, che dierono
bastanti prove al Pubblico colle loro stampe. Gli Accademici
sono la più parte di questo nostro Paese, eccettuati alcuni,
che v’intervengono da diversi parti contigue. Ogni Mese si
fanno delle Letterarie dispute, ed in tal guisa diamo
occasione a questi abitanti di trattenersi con piacere. Si
vede veramente il genio nobile di un picciolo Paese, che in
questo sta a competenza con i Castelli, e Città le più
colte. Si chiamiamo Accademici Concordi, e questo è il
motivo, che si sottoscriviamo A. C. Pertanto è pregata
compiacermi col mettere in un suo Foglio tal dettaglio,
acciò nota sia anche alle parti più lontane questa nostra
Accademia, per la quale n’andiamo tanto vanagloriosi. Di
cuore la riverisco.
Umil. Servitore
N. N. Ac: Co:
È comparso un Opuscolo di Pagine 21. in 8vo, stampato
in bella Carta ed in buon carattere da Carlo
Palese, col seguente titolo
Ottobre 1788.
È Dedicato all’Eccellentissimo Signor Andrea Renier Kav. Figlio di Sua Serenità. Dispensasi gratis da alcuni di questi nostri Libraj.
Venerdì 14. Novembre.
Lione 59 e mezzo. Parigi 59. e mezzo. Roma. 63 e 3 8vi. Napoli 118. Livorno 99 e 3 8vi Milano 155 e un 4to. Genova 92 e 3 4ti. Amsterdam 92, e un 4to. Londra 48 e un 6to. Augusta 101. e mezzo. Vienna 195. e 3 4ti.
Un uomo di civil condizione, col pretesto d’ire a caccia in Valle s’alzò di letto alle nove della notte, e si separò dalla giacente sua Moglie. Fu ricondotto al seno di questa infelice allo spuntare del dì susseguente, fracassato, e semivivo. La cagione della sua morte è un arcano. Non altro si sà di certo, sennon che in quel deplorabile stato non visse che due soli giorni. Il fatal caso è succeduto nella settimana presente in una Contrada di questa Città, e raccontasi in varie maniere, ma niuna assegna una causa innocente.
vizj, come sono l’ingratitudine, avarizia,
l’ubbriachezza ec.
L’informazione recata alla Gazzetta tende a ricercare il miglior consiglio ad un povero maritato, ch’abbia una Moglie attaccata da un vizio sì turpe, singolarmente per il sesso Femmineo; e se frà le antiche Nazioni vi fossero Leggi penali contro l’ubbriachezza delle Donne.
Quanto al primo punto lasciamo ad altri il merito della risposta,
per non esporci alla vendetta d’una furiosa Baccante col
suggerire alla sua sventurata metà un rimedio da guarirla, che
non le accomodarebbe. Sul secondo possiamo dire, che alle donne
Romane anticamente il Vino era proibito, e se peccavano contro
la Legge, il Marito, e i Parenti della Moglie, erano i giudici
che la punivano.
Dalli Ducati 35: 12 ai 36. al m.
Di Corfù a Duc. 138.
Del Zante a 135.
Mosti a 134.
A S. Gio: Grisostomo.
La Principessa Filosofa.
A S. Angiolo.
Replica del Tempo ec.
A S. Luca.
Il Testamento Commedia di
Carattere.
Dalla Stamperia Fenzo Venezia.