L’ambizione Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Jürgen Holzer Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 19.12.2016

o:mws-117-964

Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 337-341 Lo Spettatore italiano 2 64 1822 Italien
Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Menschenbild Immagine dell'Umanità Idea of Man Imagen de los Hombres Image de l’humanité Italy 12.83333,42.83333

L’Ambizione

Ambitio multos mortales falsos fieri coëgit; aliudclausum in pectore, aliud promptum in lingua;amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodoextimare, magisque vultum quam ingenium bonumhabere

Sall..

L’ambizione ha indotto molti a rinunziare alla since-rità; ad avere una cosa sulle labbra ed un’altra nelcuore; a far ragione delle amicizie e delle inimicizienon secondo l’onesto, ma secondo l’utile; e a com-porsi a bontà più il tolto che il cuore.

Compiango Ernisio, diceva Ormonte, che, fatto vassallo dell’ambizione, è acceso d’una sete inestinguibile di onori e di potere, e che quando vede soddisfatto i suoi desiderii, sempre ne concepisce altri più grandi. Ed io gliene ho quasi invidia, rispose Labindo, perchè l’ambizione è la passion de’maggiori uomini; e se in vizio mai cade, è almeno un vizio di nobile ed alto principio. Saria più giusto il dire, soggiunse Ormonte, ch’ella è la passion de’cuori abietti e de’folli. Ma è duopo distinguere due specie d’ambizione: una, lecita e commendabile, la quale ad altro non aspira che ad acquistar nominanza, ponendo a ben fare l’ingegno, e giovando forte alla patria. L’altra, spregevole e odiosa, spasima que’gradi che a lei non si confanno, e ad esercitare indebito comando appetisce. Quella è una virtuosa affezione, la quale, da onesta gara mossa e dall’amor di sincera gloria, intende al pubblico bene. Questa, generata dalla presunzione, dall’interesse e dalla conscienza della propria debolezza, si risolve a mille vizi, e per aggiungere agl’intendimenti suoi fa ogni prova e turba di continuo gli ordini della civile comunanza. La prima è delle anime privilegiate, intese a principare più co’meriti che con le dignità. La seconda delle anime comunali e avide d’innalzarsi senza valore e senza ingegno. Di queste due ambizioni, tanto s’abbisogna dell’una, quanto s’abbonda dell’altra.

Che che suoni questa voce ambizione, ricominciò Labindo, affermano l’istorie esser essa la passion de’gran cuori; e come, per esempio, contraddireste voi che Alessandro e Cesare, due ambiziosissimi, non fosser dotati di molta grandezza d’animo? Sì, rispose Ormonte, io il contraddico: conciossiachè a qual patto potrebbe mai chiamarsi grandezza d’animo quel furore che condusse Alessandro a lasciare i suoi stati per muoversi al distruggimento d’una parte del mondo, e a piangere di non aver altri mondi da conquistare? E dove è grandezza d’animo in quella stolta vanità di nomarsi figlio di Giove, e di volere gli onori degli Dei? Ma quel che più nota la piccolezza del grande Alessandro, è l’essersi egli turbato con Aristotile, che, divulgando le opere sue, avesse le scienze e le dottrine a tutti dimostro. Chi sa ch’ei non volesse così nello scienziato come nel politico mondo regnar solo, e divenire d’amendue universale monarca? Vero è che questa doppia ambizione da povertà di spirito e da viltà di cuore scendeva. Grande non sapeva esser Alessandro, dice un moralista, se non facendosi egli il più grande. Quindi il suo eroismo nacque da una mancanza di magnanimità, la quale faceva che là dove gli avesse potuto uomo resistere, egli non si teneva sicuro.

Se d’Alessandro, reputato il più virtuoso de’conquistatori, disse Labindo, così fatta opinione portate, che fia di Cesare? Gran pregi egli ebbe, proseguì Ormonte, e grandi virtù, se il volete; perchè l’ambizione è come il fuoco che si alimenta così dalle materie più preziose, come dalle più vili. Ma io non concederò mai che grandezza d’animo fosse nel complice di Catilina, nel distruttore della libertà della patria sua. I fatti di lui furono sempre guidati dall’artifizio e dall’inganno, e l’animo suo non fu mai volto a riordinar bene lo Stato, a frenarvi la licenza, la lussuria e l’avarizia che vi aveva indotta ei medesimo. N’è magnificata la clemenza; ma è egli verisimile che colui il quale mise a taglio di spada tante migliaia d’uomini, e che tante e più ne ridusse alla schiavitù e alla miseria, fosse allora mosso da un vero affetto di clemenza quando volle pur lasciare la vita a un disarmato nemico? Perciocchè non è virtù in un usurpatore la clemenza, ma è un politico accorgimento che lo inclina più al perdono che alla vendetta. Cadde Cesare, e ben gli stette; chè in repubblica è sommo delitto l’attentare eziandio agli avanzi della libertà. Se l’ambizione di Cesare mirato avesse a buon segno, sarebbe egli stato grandissimo; ma divorato dall’ingordigia di dominare, riuscì il maggior flagello dell’universo.

Come si può mai appellar passione dei grandi uomini l’ambizione, se in tutte le condizioni di vivere la veggiam comandare, e quelli con più tristo impero tiranneggiare che meno sanno e meno valgono? Che se ogni ambizione al suo desiderio aggiungesse, non è mendico che non desse assidersi sul primo trono del mondo. Niuna cosa è più inchinevole dell’ambizione a corrompere un cuore, e spegnere in lui ogni generoso affetto. Essa porta gli uomini ad incurvarsi per innalzarsi, a modo dei serpi che, senza prima toccar terra col ventre, non si possono dirizzare. “Solo un padrone ha lo schiavo, a sentenza di la Bruyere; ma l’ambizioso ne ha tanti, quanti possono concorrere a farlo fortunato.” Or come l’ambizioso si lascia servilmente legare e strascinare agli onori, alle dignità, alle ricchezze, così egli tirannescamente le usa. E che altro mai fa più contro la vera grandezza, quanto queste due disposizioni, le quali nell’ambizioso le più volte si accompagnano?

Facciam dunque schermo contro passione sì maligna, e tanto della felicità, quanto della virtù avversaria; e voi, che forse invidioso siete della sorte di Ernisio, ponete mente come egli stia fra tanti splendori. Senza riposo, senza piacere sempre, tutta la sua vita è una continuata paura di perdere quel che ha acquistato a prezzo di sudori e di malvagità, non che di rimordimene. Nè crediate ch’egli sia pago di quanto possiede. Si è prefisso uno scopo la sua ambizione; ma ella mai non lo colpisce, perchè quello che ha colto non è mai il vero, cioè quello che non potrà mai cogliere.

Vedete quanto l’ambizioso Ernisio, con tutte le sue grandezze, è piccolo a comparazione di Alberto, il quale non ha mai saputo che sia ambizione. Pare che colui poco il pregi; ma ad Alberto niente cal di sua grazia, e di niente il richiede: anzi teme di essere da lui conosciuto, e ne temerebbe ancora la stima, come quella che potrebbe rendergli sospetta la stessa virtù, onde ha il cuor pieno, ed ove ogni sua gioia è riposta. Il saggio Alberto a sì alto segno riguarda, ch’esser non può ch’egli si ristringa entro i termini di quello che ha nome dignità, stato e fortuna; non vi trovando egli cosa che possa riempire il vuoto del suo cuore e meritare la sua sollecitudine. Sciolto d’ogni cura e netto di coscienza gode egli dei beni de’quali è stata a lui liberale la Provvidenza, ed è ricco e potente quanto basta a far beneficio ancora a’suoi simili.

L’Ambizione Ambitio multos mortales falsos fieri coëgit; aliudclausum in pectore, aliud promptum in lingua;amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodoextimare, magisque vultum quam ingenium bonumhabere Sall.~k. L’ambizione ha indotto molti a rinunziare alla since-rità; ad avere una cosa sulle labbra ed un’altra nelcuore; a far ragione delle amicizie e delle inimicizienon secondo l’onesto, ma secondo l’utile; e a com-porsi a bontà più il tolto che il cuore. Compiango Ernisio, diceva Ormonte, che, fatto vassallo dell’ambizione, è acceso d’una sete inestinguibile di onori e di potere, e che quando vede soddisfatto i suoi desiderii, sempre ne concepisce altri più grandi. Ed io gliene ho quasi invidia, rispose Labindo, perchè l’ambizione è la passion de’maggiori uomini; e se in vizio mai cade, è almeno un vizio di nobile ed alto principio. Saria più giusto il dire, soggiunse Ormonte, ch’ella è la passion de’cuori abietti e de’folli. Ma è duopo distinguere due specie d’ambizione: una, lecita e commendabile, la quale ad altro non aspira che ad acquistar nominanza, ponendo a ben fare l’ingegno, e giovando forte alla patria. L’altra, spregevole e odiosa, spasima que’gradi che a lei non si confanno, e ad esercitare indebito comando appetisce. Quella è una virtuosa affezione, la quale, da onesta gara mossa e dall’amor di sincera gloria, intende al pubblico bene. Questa, generata dalla presunzione, dall’interesse e dalla conscienza della propria debolezza, si risolve a mille vizi, e per aggiungere agl’intendimenti suoi fa ogni prova e turba di continuo gli ordini della civile comunanza. La prima è delle anime privilegiate, intese a principare più co’meriti che con le dignità. La seconda delle anime comunali e avide d’innalzarsi senza valore e senza ingegno. Di queste due ambizioni, tanto s’abbisogna dell’una, quanto s’abbonda dell’altra. Che che suoni questa voce ambizione, ricominciò Labindo, affermano l’istorie esser essa la passion de’gran cuori; e come, per esempio, contraddireste voi che Alessandro e Cesare, due ambiziosissimi, non fosser dotati di molta grandezza d’animo? Sì, rispose Ormonte, io il contraddico: conciossiachè a qual patto potrebbe mai chiamarsi grandezza d’animo quel furore che condusse Alessandro a lasciare i suoi stati per muoversi al distruggimento d’una parte del mondo, e a piangere di non aver altri mondi da conquistare? E dove è grandezza d’animo in quella stolta vanità di nomarsi figlio di Giove, e di volere gli onori degli Dei? Ma quel che più nota la piccolezza del grande Alessandro, è l’essersi egli turbato con Aristotile, che, divulgando le opere sue, avesse le scienze e le dottrine a tutti dimostro. Chi sa ch’ei non volesse così nello scienziato come nel politico mondo regnar solo, e divenire d’amendue universale monarca? Vero è che questa doppia ambizione da povertà di spirito e da viltà di cuore scendeva. Grande non sapeva esser Alessandro, dice un moralista, se non facendosi egli il più grande. Quindi il suo eroismo nacque da una mancanza di magnanimità, la quale faceva che là dove gli avesse potuto uomo resistere, egli non si teneva sicuro. Se d’Alessandro, reputato il più virtuoso de’conquistatori, disse Labindo, così fatta opinione portate, che fia di Cesare? Gran pregi egli ebbe, proseguì Ormonte, e grandi virtù, se il volete; perchè l’ambizione è come il fuoco che si alimenta così dalle materie più preziose, come dalle più vili. Ma io non concederò mai che grandezza d’animo fosse nel complice di Catilina, nel distruttore della libertà della patria sua. I fatti di lui furono sempre guidati dall’artifizio e dall’inganno, e l’animo suo non fu mai volto a riordinar bene lo Stato, a frenarvi la licenza, la lussuria e l’avarizia che vi aveva indotta ei medesimo. N’è magnificata la clemenza; ma è egli verisimile che colui il quale mise a taglio di spada tante migliaia d’uomini, e che tante e più ne ridusse alla schiavitù e alla miseria, fosse allora mosso da un vero affetto di clemenza quando volle pur lasciare la vita a un disarmato nemico? Perciocchè non è virtù in un usurpatore la clemenza, ma è un politico accorgimento che lo inclina più al perdono che alla vendetta. Cadde Cesare, e ben gli stette; chè in repubblica è sommo delitto l’attentare eziandio agli avanzi della libertà. Se l’ambizione di Cesare mirato avesse a buon segno, sarebbe egli stato grandissimo; ma divorato dall’ingordigia di dominare, riuscì il maggior flagello dell’universo. Come si può mai appellar passione dei grandi uomini l’ambizione, se in tutte le condizioni di vivere la veggiam comandare, e quelli con più tristo impero tiranneggiare che meno sanno e meno valgono? Che se ogni ambizione al suo desiderio aggiungesse, non è mendico che non desse assidersi sul primo trono del mondo. Niuna cosa è più inchinevole dell’ambizione a corrompere un cuore, e spegnere in lui ogni generoso affetto. Essa porta gli uomini ad incurvarsi per innalzarsi, a modo dei serpi che, senza prima toccar terra col ventre, non si possono dirizzare. “Solo un padrone ha lo schiavo, a sentenza di la Bruyere; ma l’ambizioso ne ha tanti, quanti possono concorrere a farlo fortunato.” Or come l’ambizioso si lascia servilmente legare e strascinare agli onori, alle dignità, alle ricchezze, così egli tirannescamente le usa. E che altro mai fa più contro la vera grandezza, quanto queste due disposizioni, le quali nell’ambizioso le più volte si accompagnano? Facciam dunque schermo contro passione sì maligna, e tanto della felicità, quanto della virtù avversaria; e voi, che forse invidioso siete della sorte di Ernisio, ponete mente come egli stia fra tanti splendori. Senza riposo, senza piacere sempre, tutta la sua vita è una continuata paura di perdere quel che ha acquistato a prezzo di sudori e di malvagità, non che di rimordimene. Nè crediate ch’egli sia pago di quanto possiede. Si è prefisso uno scopo la sua ambizione; ma ella mai non lo colpisce, perchè quello che ha colto non è mai il vero, cioè quello che non potrà mai cogliere. Vedete quanto l’ambizioso Ernisio, con tutte le sue grandezze, è piccolo a comparazione di Alberto, il quale non ha mai saputo che sia ambizione. Pare che colui poco il pregi; ma ad Alberto niente cal di sua grazia, e di niente il richiede: anzi teme di essere da lui conosciuto, e ne temerebbe ancora la stima, come quella che potrebbe rendergli sospetta la stessa virtù, onde ha il cuor pieno, ed ove ogni sua gioia è riposta. Il saggio Alberto a sì alto segno riguarda, ch’esser non può ch’egli si ristringa entro i termini di quello che ha nome dignità, stato e fortuna; non vi trovando egli cosa che possa riempire il vuoto del suo cuore e meritare la sua sollecitudine. Sciolto d’ogni cura e netto di coscienza gode egli dei beni de’quali è stata a lui liberale la Provvidenza, ed è ricco e potente quanto basta a far beneficio ancora a’suoi simili.