L*avarizia Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Jürgen Holzer Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 19.12.2016

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Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 317-320 Lo Spettatore italiano 2 60 1822 Italien
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L’avarizia

Cum bulga coenat, dormit, lavit; omnis in unaSpes hominis bulga, hac devincta est caetera vita.

Ca. Lucil. ex Fragm.

Va con la borsa al bagno, a letto, a cena;Guarda la borsa, e ‘n ciò sua vita mena.

È l’avarizia una malattia dell’animo, nata dal timor dell’impoverire, e dalla cupidità di godere in un tempo avvenire, di cui l’infermo va sempre allontanando il termine.

Non è miseria che a quella dell’avaro possa paragonarsi: perciocchè il poverello usa pur quel poco che possiede; e di quello ch’ei può, sovviene altrui: ma l’avaro così manca di quello che non ha, come di quello che ha.

Giusto sarebbe che si potesse uguagliar l’introito degli avari all’esito loro.

Ogni avaro è un Tantalo; poichè in grembo a tutti i tesori sente tutto quello che la miseria ha di dolore e di sollecitudine.

Tutte le passioni, tranne l’avarizia, muoiono, per così dire, nella fruizione della desiderata cosa. Il male dell’avarizia cresce e rinforza là dove dovrebbe estinguersi; e quanto più l’uomo acquista e quanto più accumula, tanto più brama.

L’avaro tien conto delle sue ricchezze, come se fossero per lui solo; e non ne fa maggior uso che se fossero di un altro.

L’avaro vuol piuttosto lasciar suo avere, morendo egli, ai suoi nemici, che sovvenirne gli amici suoi mentre vive.

Non si dura tanta fatica a trarre il metallo prezioso dalla sua vena, quanta a trarlo dall’arca dell’avaro: la chiave n’è in man della morte.

Non si trova avaro il quale non si proponga di voler fare un giorno alcuna magnifica spesa: ma sempre prevenuto è dalla morte, la quale all’erede manda l’esecuzion del proposito.

Qual è degli uomini miglior dell’avaro? ei raccoglie oro per chi gli prega morte.

Voglio vivere in istento, fare tesori senza stima, nè usarne punto per me: Questo, o Canidio, parmi essere il vostro voto; il quale se solenne non è, pubblico n’è l’adempimento. Voi faticate, voi arricchite, voi vivete povero. E se mala voce di non giovar mai ad alcuno vi danna, o Canidio, vi danna a torto: perocchè voi non giovate a voi stesso; e quello che non fate a voi, chi vi può stringere di fare altrui?

Trifone trema non le genti il reputin ricco, o quella stima ne faccian ch’egli certo non fa di sè. Oh! quanto s’inganna, egli dice, chi crede che io abbia: le prestanze di niente mi rispondono; le derrate si vendono a vile; la miseria è grande, e proprio corre un’età di ferro. Misero Trifone! tegniamoli un poco dietro alla camera sua; volli dire, al tempio dell’idol suo. Quivi egli ogni dì il viene ad adorare, cioè a numerarlo; ed appena n’ha egli fitta la ragione, piangendo dice: Ecco io non ho che cento mila scudi: e quando potrò io mettermi da parte un piccolo peculio?

Il vecchio Parteno fa ingiuria con l’avarizia alla sua condizione ed al suo parentado; e pur questo vecchio sa, e val molto. Egli se ne vive in campagna tanto, quanto il suo fruttifero officio gli consente. In città non ha desco, se non quel degli amici e de’famigliari suoi; ed in sua casa par più fredda la cucina che la grotta dell’orto. Non è nota a lui la mala usanza dello spiedo: vive di erbe e di lenti: e, Così prima di me, dice egli, hanno fatto i filosofi ed i Santi. — Parteno, da sè, quantunque infralito dall’età, il suo giardino coltiva: e, Questa, ei dice, è opera molto alla salute seconda; e qui allega similmente de’Santi e de’filosofi gli esempli. Vera cosa è che il suo voler tollerare soverchie fatiche, ed alle sue forze maggiori, viene dal non voler sostenere il salario di un garzone. La costui porta è serrata, così al ricco come al povero; perocchè convitar il primo, sarebbe un gittar via la roba; soccorrere il secondo, sarebbe un contrastare alle leggi della Provvidenza, togliendo di povertà colui ch’ella vuol povero. Parteno non sa che il ricco deve essere la provvidenza del povero. L’avaro è colui che sopra tutti fa contro Dio, la cui volontà è che si dia altrui e non che si riceva.

Anche Arpicella è lo specchio dell’avarizia: considerate la sua persona da capo a piedi; ella non porta altro che stracci mal ricuciti e rattoppati da lei stessa. Entrate nelle sue stanze: tutto fa consonanza coll’arnese che porta addosso: il letto, le sedie, il parato sono d’una vetustà così remota che sembrano ricordi delle più vecchie usanze. La pulitezza, sì confacente al suo sesso, vien a fastidio ad Arpicella, come cosa costosa e da lasciarsi alle sprecatrici. Seguitiamola coll’occhio: si mette a una tavola tutta forata e rôsa da’tarli, a cui fa piede un legno mal fermo, ed imbandita di un sol servito che consiste in un pezzuol di cacio con un oriscello di pan secco e cruscoso, ed una guastadetta d’acqua. Dietro questo pasto frugale esce Arpicella di casa e si avvia verso la chiesa. E chi non direbbe, lei andarvi per divozione? Ma costei co’panni de’poverelli sollecita la pubblica carità, e spesso torna con quello che alla misera gente toccherebbe. Può esser fatta più scellerata ruberia che questa? e non istarebber bene a costei tutti i più rigidi supplicii?

Molte fiate altri è avaro per non saper fare suoi conti. Che se l’uomo che eccede nella parsimonia, da tutta la somma levasse la ragion di quello che per le bagattelle può risparmiare, e se similmente ripensasse che per ben poco si procaccia l’onta d’avaro, egli si vergognerebbe sicuramente di queste obbrobriose economie.

Ancora ci ha di quelli che aggiungono insieme avarizia e vanità. È Arcosto un fastoso avaro, tanto che nulla gli fa paura, se non se l’essere trovato avaro alla gente: e antepone a questa umiliazione la pena di dovere, quando sospetta non altri nel noti, esser largo. Quando imbandisce magnifica tavola, trema che non gli sia rotto un piatto o un bicchiere. Sollecita tuttavia i convitati a mangiar di ciò ch’è loro posto dinanzi, e medesimamente guarda con quale industria possa far levare anzi che tocca sia alcuna principale vivanda. Arcosto col suo sordido risparmiare si risarcisce del suo fasto e si punisce della sua vanità.

Non di rado fa avaro altrui l’ambizione di essere tenuto per ricco. Era Arnoldo senza modo ricco sopra quanti in C . . . erano, allora che Doravio vi si venne a stanziare: onde Arnoldo, geloso di conservare il suo grado, prese con fermo proposito ad assottigliare agramente le spese, tanto che rinunziò a carrozze e cavalli, e si tenne un solo servitore, e ridusse la sua mensa al semplice necessario. Egli porta tutti i difetti della miseria, fidandosi che sarà ancora estimato per lo più dovizioso di tutti i suoi cittadini.

L’avarizia Cum bulga coenat, dormit, lavit; omnis in unaSpes hominis bulga, hac devincta est caetera vita. Ca. Lucil.~k ex Fragm. Va con la borsa al bagno, a letto, a cena;Guarda la borsa, e ‘n ciò sua vita mena. È l’avarizia una malattia dell’animo, nata dal timor dell’impoverire, e dalla cupidità di godere in un tempo avvenire, di cui l’infermo va sempre allontanando il termine. Non è miseria che a quella dell’avaro possa paragonarsi: perciocchè il poverello usa pur quel poco che possiede; e di quello ch’ei può, sovviene altrui: ma l’avaro così manca di quello che non ha, come di quello che ha. Giusto sarebbe che si potesse uguagliar l’introito degli avari all’esito loro. Ogni avaro è un Tantalo; poichè in grembo a tutti i tesori sente tutto quello che la miseria ha di dolore e di sollecitudine. Tutte le passioni, tranne l’avarizia, muoiono, per così dire, nella fruizione della desiderata cosa. Il male dell’avarizia cresce e rinforza là dove dovrebbe estinguersi; e quanto più l’uomo acquista e quanto più accumula, tanto più brama. L’avaro tien conto delle sue ricchezze, come se fossero per lui solo; e non ne fa maggior uso che se fossero di un altro. L’avaro vuol piuttosto lasciar suo avere, morendo egli, ai suoi nemici, che sovvenirne gli amici suoi mentre vive. Non si dura tanta fatica a trarre il metallo prezioso dalla sua vena, quanta a trarlo dall’arca dell’avaro: la chiave n’è in man della morte. Non si trova avaro il quale non si proponga di voler fare un giorno alcuna magnifica spesa: ma sempre prevenuto è dalla morte, la quale all’erede manda l’esecuzion del proposito. Qual è degli uomini miglior dell’avaro? ei raccoglie oro per chi gli prega morte. Voglio vivere in istento, fare tesori senza stima, nè usarne punto per me: Questo, o Canidio, parmi essere il vostro voto; il quale se solenne non è, pubblico n’è l’adempimento. Voi faticate, voi arricchite, voi vivete povero. E se mala voce di non giovar mai ad alcuno vi danna, o Canidio, vi danna a torto: perocchè voi non giovate a voi stesso; e quello che non fate a voi, chi vi può stringere di fare altrui? Trifone trema non le genti il reputin ricco, o quella stima ne faccian ch’egli certo non fa di sè. Oh! quanto s’inganna, egli dice, chi crede che io abbia: le prestanze di niente mi rispondono; le derrate si vendono a vile; la miseria è grande, e proprio corre un’età di ferro. Misero Trifone! tegniamoli un poco dietro alla camera sua; volli dire, al tempio dell’idol suo. Quivi egli ogni dì il viene ad adorare, cioè a numerarlo; ed appena n’ha egli fitta la ragione, piangendo dice: Ecco io non ho che cento mila scudi: e quando potrò io mettermi da parte un piccolo peculio? Il vecchio Parteno fa ingiuria con l’avarizia alla sua condizione ed al suo parentado; e pur questo vecchio sa, e val molto. Egli se ne vive in campagna tanto, quanto il suo fruttifero officio gli consente. In città non ha desco, se non quel degli amici e de’famigliari suoi; ed in sua casa par più fredda la cucina che la grotta dell’orto. Non è nota a lui la mala usanza dello spiedo: vive di erbe e di lenti: e, Così prima di me, dice egli, hanno fatto i filosofi ed i Santi. — Parteno, da sè, quantunque infralito dall’età, il suo giardino coltiva: e, Questa, ei dice, è opera molto alla salute seconda; e qui allega similmente de’Santi e de’filosofi gli esempli. Vera cosa è che il suo voler tollerare soverchie fatiche, ed alle sue forze maggiori, viene dal non voler sostenere il salario di un garzone. La costui porta è serrata, così al ricco come al povero; perocchè convitar il primo, sarebbe un gittar via la roba; soccorrere il secondo, sarebbe un contrastare alle leggi della Provvidenza, togliendo di povertà colui ch’ella vuol povero. Parteno non sa che il ricco deve essere la provvidenza del povero. L’avaro è colui che sopra tutti fa contro Dio, la cui volontà è che si dia altrui e non che si riceva. Anche Arpicella è lo specchio dell’avarizia: considerate la sua persona da capo a piedi; ella non porta altro che stracci mal ricuciti e rattoppati da lei stessa. Entrate nelle sue stanze: tutto fa consonanza coll’arnese che porta addosso: il letto, le sedie, il parato sono d’una vetustà così remota che sembrano ricordi delle più vecchie usanze. La pulitezza, sì confacente al suo sesso, vien a fastidio ad Arpicella, come cosa costosa e da lasciarsi alle sprecatrici. Seguitiamola coll’occhio: si mette a una tavola tutta forata e rôsa da’tarli, a cui fa piede un legno mal fermo, ed imbandita di un sol servito che consiste in un pezzuol di cacio con un oriscello di pan secco e cruscoso, ed una guastadetta d’acqua. Dietro questo pasto frugale esce Arpicella di casa e si avvia verso la chiesa. E chi non direbbe, lei andarvi per divozione? Ma costei co’panni de’poverelli sollecita la pubblica carità, e spesso torna con quello che alla misera gente toccherebbe. Può esser fatta più scellerata ruberia che questa? e non istarebber bene a costei tutti i più rigidi supplicii? Molte fiate altri è avaro per non saper fare suoi conti. Che se l’uomo che eccede nella parsimonia, da tutta la somma levasse la ragion di quello che per le bagattelle può risparmiare, e se similmente ripensasse che per ben poco si procaccia l’onta d’avaro, egli si vergognerebbe sicuramente di queste obbrobriose economie. Ancora ci ha di quelli che aggiungono insieme avarizia e vanità. È Arcosto un fastoso avaro, tanto che nulla gli fa paura, se non se l’essere trovato avaro alla gente: e antepone a questa umiliazione la pena di dovere, quando sospetta non altri nel noti, esser largo. Quando imbandisce magnifica tavola, trema che non gli sia rotto un piatto o un bicchiere. Sollecita tuttavia i convitati a mangiar di ciò ch’è loro posto dinanzi, e medesimamente guarda con quale industria possa far levare anzi che tocca sia alcuna principale vivanda. Arcosto col suo sordido risparmiare si risarcisce del suo fasto e si punisce della sua vanità. Non di rado fa avaro altrui l’ambizione di essere tenuto per ricco. Era Arnoldo senza modo ricco sopra quanti in C . . . erano, allora che Doravio vi si venne a stanziare: onde Arnoldo, geloso di conservare il suo grado, prese con fermo proposito ad assottigliare agramente le spese, tanto che rinunziò a carrozze e cavalli, e si tenne un solo servitore, e ridusse la sua mensa al semplice necessario. Egli porta tutti i difetti della miseria, fidandosi che sarà ancora estimato per lo più dovizioso di tutti i suoi cittadini.