Zitiervorschlag: Francesco Anselmi (Hrsg.): "N. XXIII", in: Il Socrate Veneto, Vol.23\ (1773), S. 88-92, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.982 [aufgerufen am: ].


[89] Ebene 1►

N. XXIII.

Della tristezza, e delle umane miserie

Ebene 2► Io vi trovo assai malinconico; ma importa di considerar bene qual sia il soggetto della vostra tristezza, come pure della vostra gioja. Avvegnacchè io le chiamo indifferenti di lor natura, come molte altre cose, che in un istante possono divenir buone, o cattive. In fatti la tristezza che si ha di aver errato è assai utile, purchè di nascosto non dia mano alla disperazione, che insensibilmente s’insinua nell’anima. L’allegrezza che si ha per la memoria delle buone opere è altresì onestissima, purchè non apra la porta alla superbia, che vuol entrare. Le cause adunque di queste passioni facilmente si cambiano, e il biasimo può spesso occupare il luogo della lode. Or tocca a voi di pensare il perchè siate tristo, ed inquieto. Se le miserie di questa vita vi affligono, dovete consolarvi considerando le felicità dell’altra. E certamente questa non è tanto miserabile, quanto l’altra in fatti è felice.

Ma per guarirvi dalla vostra tristezza è d’uopo di scoprire la sorgente. Questo male ha tante radici, quante avversità vi sono. Evvi qualche tempo, in cui niuna causa apparente rende l’anima melanconica; perchè nè l’ignominia, nè le perdite, nè le malattie, nè l’ingiurie, nè la morte degli amici, nè alcuna novella inaspettata di simili accidenti, ma un certo piacere che trovasi nel dolore, produce questo funesto effetto. Or questa è una pestilenza tanto più pericolosa, quanto la causa è più sconosciuta; è per con-[90]seguenza la guarigion più difficile. Perciò Cicerone giudica che conviene fuggir da essa a vele e a remi, come egli dice, perchè è uno scoglio fatal della vita.

Quando la considerazione delle calamità presenti vi fa piangere, io non nego che le miserie della condizione de’mortali non siano assai grandi, e diverse; e vi furono alcuni Autori, che le deplorarono con interi volumi. Ma rivolgete la medaglia, e riguardate il rovescio, voi vedrete pure una quantità di cose, che rendono la vita assai felice, e aggradevole. In fatti i motivi di allegrezza che voi avete non sono tanto piccioli come pensate. Quell’immagine, e rassomiglianza di Dio Creator d’ogni cosa impressa dentro l’anima umana, lo spirito, la memoria, l’eloquenza, tante invenzioni ed arti, che servono per una parte all’anima, e per l’altra al corpo, e che per una disposizione onnipossente comprendono tutto ciò che abbisogna per socorrervi in tutte le vostre necessità: tutti questi vantaggi, dissi, non sono un motivo d’un piacere legittimo? Aggiungete a ciò tanti comodi, tante spezie di cose diverse, le quali per vie prodigiose e ineffabili non contribuiscono solamente al vostro bisogno, ma ancora al vostro piacere. Una sì gran virtù delle radici, e de’sughi dell’erbe, una varietà sì prodigiosa e sì aggradevole de’fiori, una mescolanza di tanti odori, di suoni, di colori, e di gusti, che con la loro contrarietà fanno un sì bell’inesto; tanti animali dell’aria, della terra, e del mare, che non sono destinati che ad uso vostro, nè creati se non per il solo servigio dell’uomo: avvegnacchè se voi non vi foste sottoposto volontariamente al giogo del peccato, avreste un impero assoluto sopra tutto ciò ch’è in terra, e ve ne resta il dominio ancor dopo il peccato, quantunque abbiate perduto il possesso della maggior parte delle cose.

Che dirò poi della vaga veduta de’colli, dell’ameno ricovero delle valli, dell’ombre de’boschi, e della freschezza de’monti? Che dirò pure di tante salutifere sorgenti d’acque, e di tante fontane chiare, dolci, e fresche? di tanti mari sparsi intorno la circonferenza della Terra, di tanti fiumi che sempre corrono, e che ciò non ostante per una stabilità immutabile sono i più sicuri limiti delle Provincie, e de’Regni? Nulla dirò de’stagni, de’laghi, e de’ruscelli, che correndo tra le precipitose balze de’monti divengono torrenti, che poi serpeggiando scorrono tra i fiori delle campagne, Nulla altresì dirò delle rive verdeggianti, de’poggi delicati, nè de’prati dipinti di colori diversi. Tralascio tutte que-[91]ste cose terrestri, poichè il Cielo m’invita a parlar di lui.

Potete adunque vivere con tristezza veggendo il più splendido e il più augusto di tutti gli spettacoli; cioè il Cielo seminato di stelle come tanti occhi che vi risguardano, e che girano con una celerità incomprensibile? Considerate quegli Astri che voi chiamate Fissi, e quelli pure che appellate Erranti: sopra tutto contemplate il Sole e la Luna, che sono le più lucenti fiaccole del Mondo, come dice Virgilio; oppure la più magnifica gloria del Cielo, come parla Orazio. Per essi vengono i frutti della terra, gli animali hanno il lor vigore, e le stagioni la loro diversità. Col loro corso noi misuriamo gli anni, i mesi, le notti, i giorni, e i momenti, senza di che la vita degli uomini sarebbe assai tediosa. Or dopo aver considerato tutte queste cose fuori di voi, conviene che rientriate in voi stesso, per ritrovarvi almeno quante miserie, altrettanti vantaggi.

Incominciate dal corpo, il quale benchè mortale e fragile, ha però un prospetto imperioso, ed è dolce insieme e bello, essendo dritto ed elevato, per essere più proprio alla comtemplazione delle cose celesti. Considerate l’anima e la sua immortalità, il cammino che vi sta aperto per andare al Cielo, la ricompensa infinita ed inestimabile che vi aspetta e che potete conseguire con picciolo prezzo. Dopo tutto ciò, qual luogo più resta alla tristezza e ai lamenti? Non è dunque la natura vostra che vi renda melanconico, ma il vostro errore. In una parola, non è l’umanità che vi affligge, ma il peccato.

Ciò nulla ostante voi vi abbandonate ancora al dolore, principalmente qualor considerate la bassezza della vostra origine, la fragilità della natura vostra, la nudità, il rigor della fortuna, la brevità della vita, ed il fine incerto della medesima. Ma questa nudità, questa indigenza di molte cose, che sono attribuite a disonore della condizione umana, sono allegerite dal soccorso dell’Arti, e da diversi altri rimedj. Non devesi piuttosto ascrivere a gloria che ad infelicità dell’uomo, che la Natura madre comune avendo dato agli altri animali ragionevoli una dura pelle, l’unghie, e il pelo, non abbia dato all’uomo che il solo intelletto, il quale è l’inventor generale di tutte le cose, affinchè gli fosse di sua propria difesa? Noi veggiamo pure che gli animali, se per la vecchiaja, o per qualche accidente perdono il pelo, gli occhi, o divengono zoppi, non hanno alcun rimedio, se l’uomo non lo dà loro. Al contrario l’uomo, benchè in se stesso nudo, col suo spirito si riveste, e si adorna; armasi se v’è bisogno; essendo debole e zoppicando si fa portare a cavallo, [92] in carozza, o in barca, oppur si sostiene con qualche appoggio.

Finalmente si ajuta, e soccorre a se stesso in tutte le maniere. Si vede altresì che avendo perduto qualche membro, imparò a farsi de’piedi di legno, delle mani di ferro, e a ressistere così agli accidenti fortuiti della vita. Se egli s’inferma, si rimette in salute colle medicine, ch’egli compone; se perde il gusto, aguzza l’appetito con manicaretti; rinforza la sua vista languente con l’uso degli occhiali. Non è questo uno scherzo piacevolissimo della Natura, la quale come una Madre piena di dolcezza e di bontà, restituisce da un canto al suo caro figliuolo quel che gli toglie dall’altro, e lo consola dopo averlo rammaricato.

A tutto questo aggiungete che il cavallo, il bue, l’elefante, il camello, il lione, la tigre, il leopardo, ed altri simili, benchè sieno fortissimi, vengono disprezzati quando invecchiano, e lasciano assolutamente di essere quando muojono. Al contrario il solo uomo dotato di virtù diventa più venerabile per la vecchiaja, e glorioso per la morte che corona la sua felicità. Lascio da parte che la forza, la destrezza, e l’agilità degli altri animali serve assolutamente all’uomo, come a lor Padrone. Egli sottopone al giogo i tori indomabili, e mette il freno a’più focosi cavalli. Degli orsi, de’cervi, e de’cinghiali egli ne fa cibi delicati per la sua mensa. Di più egli ha riempiuto il mare di reti, e i boschi di cani per darsi piacere, e per cibarsi. In somma egli ha guadagnato qualche cosa da tutte le parti della Natura. Non avete la forza del bue, ma egli si affatica per voi. Non avete la velocità del cavallo, ma per voi egli corre. Non avete la pelle del cervo, o dell’agnello, ma essi non le possedono che per vostro uso. Queste, e cose simili non sono vostre, ma comandate a quelli che le hanno. Tali riflessi potranno essere un sufficiente rimedio per guarirvi dalla vostra profonda tristezza. ◀Ebene 2 ◀Ebene 1