Roveredo 15 marzo 1764.
Quando un autore trova il gran segreto di diventar caro con le sue letterarie fatiche a tutti i dotti e a tutti gl’ignoranti; a tutti i nobili e a tutti i plebei, e a tutto il sesso maschile, e a tutto il sesso femminile d’una numerosa nazione, gli è
Di questo grand’uomo dunque, di questo autore tanto popolarescamente favorito da ogni classe di persone, io m’accingo oggi a registrare il nome glorioso in queste mie lucubrazioni, poichè se non vel registrassi, e se non parlassi di lui e delle tante e diverse cose prodotte da quel suo non mai esausto cervello, chi sa che qualcuno non mi credesse una persona selvatica trasportata pur ora a caso in Italia da qualche isola tanto ignota ai geografi quanto quella di Robinson Crosuè? O chi sa che qualcuno non mi attribuisse anche qualche segreto maltalento contr’esso? poichè chi non parla di coloro de’quali tutta la brigata parla, è cosa molto naturale che sia creduto o molto maltalentato, o molto salvatico. Io m’accingo dunque senza più tardare a far passar in rivista sotto la mia Frusta ad uno ad uno tutti i teatrali componimenti del Goldoni; ma i miei leggitori, molti de’quali mi vanno scrivendo delle anonime lettere sempre stuzzicandomi a parlare e a parlar con lode di questa e di quell’altra commedia di lui, si ricordino che io sono un vecchiaccio settuagenario, difficile da contentare, e più pronto a’ Teatro Comico, la Bottega del Caffé, e le due Pamele, e che nessuna di queste quattro commedie vorrei averla fatta io, per quanto ho cari questi occhiali d’Inghilterra che porto sul mio naso aquilino, e senza i quali non potrei scrivere una riga nè al lume del giorno nè al lume della mia lucerna. Può darsi che il Goldoni abbia messo tutto quello che ha di cattivo nel suo primo tomo, come il Metastasio mette tutto il cattivo suo nell’ultimo. Può darsi che tutti gli altri tomi del Goldoni m’abbiano a far tramortire dallo stupore, com’io desidero;
Prima Scena, che si finge a mezza mattina, comincia con un dialoghetto tra Orazio capo di compagnia, o impresario come noi diciamo, ed Eugenio secondo amoroso della commedia. Nel punto che si tira su la tenda l’impresario viene sulla scena gridando che non si tiri su, perchè non ci si vede più; onde l’impresario s’accorge tosto che l’ha detta majuscola, e che sarebbe di fatto cosa ridicola il provare un terzo atto al bujo. Non poteva mo il Goldoni risparmiare di far dare un comando così sciocco dal suo impresario? O non poteva mo far impresario Arlecchino, poichè gli voleva far dire così subito una sciocchezza? Per qual causa (dice il secondo amoroso) non volevate che la tenda s’alzasse?
Scena Seconda. Placida, prima donna, viene la prima alla prova, e dice che ci vuol politica e soffrirla; ed io sono obbligato al Goldoni, machiavellista teatrale, di questa sua politica; ma se colla sua commedia egli voleva mettere in ridicolo i difetti de’suoi attori, anzi che quelli de’Tizj e de’Sempronj che sono nell’udienza, e i di cui difetti meritano d’esser messi in ridicolo perchè ogni Tizio e ogni Sempronio dell’udienza se ne corregga, il Goldoni poteva far tenere calata la tenda, e far recitare la sua istruttiva commedia a’commedianti stessi, poichè al pubblico fa poco caldo o poco freddo che i commedianti abbiano de’difetti ridicoli, o non gli abbiano. Il pubblico vuole, o dovrebbe volere che i commedianti sappiano fare il commediante, e che vengano a farlo ridere a spese degl’individui che rappresentano, e non a spese delle loro comiche signorie in propria persona. Domanda poi la prima donna: Il Padre rivale del Figlio », διαρροια teatrale. Ma sentite che bel pezzo d’eloquenza comica esce fuori della bocca di questa madonna Pacofila. Il Padre rivale del Figlio bisogna a forza che sia commedia di carattere; altrimente come s’ha a fare per carattere? Ma verrà tempo che gli darò io una definizione della parola carattere. Per ora tiriamo avanti.
Scena Quarta. Vien fuori un signor Tonino, che fa la parte di Pantalone. Questo signor Tonino ha la faccia turbata, si sente un certo tremazzo, si sente il polso agitato, pensando che v’è infinita-nell’Uomo prudente, nell’Avvocato, e nei due Gemelli, commedie del Goldoni. Queste lodi però, Goldoni mio, sono un poco troppo spiattellate, e la modestia voleva di non farvi tanto bello in faccia a un pubblico, che ha la bontà d’applaudire a’vostri Uomini prudenti, a’vostri Avvocati e a’vostri Gemelli. Credo bene che sia più difficile, come voi dite, di recitare una cosa studiata che non cosa pensata all’improvviso; ma non credo che il signor Tonino si sentisse poi tanto tremazzo, o che avesse la faccia turbata e il polso agitato, pensando a recitare una parte del vostro Padre rivale del Figlio, tanto più che quella non è, come voi sapientemente dite, una commedia di carattere. Il Goldoni tuttavia vuol accostumare l’udienza a credere che non solamente il comporre le sue commedie è un non plus ultra, ma anche il recitarle. Che importa poi all’udienza il sapere che il signor Tonino s’è infranciosato colle donne in Venezia quand’era giovine, e che ne informi di quella stomachevole sua circostanza con questi due versi.
L’onorate memorie ancora impresse? »
Vi pare, Goldoni mio, che questo sia un farla da riformatore del teatro e de’costumi, quando fate dire di queste porcherie a’vostri attori?
Scena Quinta. È un miserabil dialogo tra la seconda donna e l’impresario su quelle commedianti ambulatorie, che pelano i gonzi, cioè che si prostituiscono per danari. La scena finisce, che la seconda donna sostiene esser gli uomini che insegnano la malizia alle donne, l’impresario vuole che sieno le donne che l’insegnano agli uomini; e a questo proposito la seconda donna prorompe in questa plebea esclamazione: ah galeotti maledetti! E l’impresario risponde con quest’altra non meno elegante: ah streghe indiavolate! Questa è la filosofia del Goldoni, il quale non sa ancora, che la malizia la più parte degli uomini l’imparano gli uni dagli altri quando sono giovanetti, senza troppo ajuto delle donne, e che le donne fanno lo stesso senza troppo ajuto degli uomini. Gli uomini poi e le donne scostumate, come sono qualche volta i commedianti, mettono a effetto quella malizia gli uni colle altre; e restano poi loro impresse l’onorate memorie; ma questo non si chiama imparar malizia, Goldoni mio,
Scena Sesta. Prepariamoci a ridere, che entra Brighella per dirci che viene un poeta. E che poeta! Miserabile e allegro, perchè così tutti i poeti. Che bella facezia! Vorrei sapere se chi l’ha scritta inchiude pure sè stesso nel numero de’poeti allegri. In questa sua commedia però trovo molto più miseria che non allegria. Ma sentiamo l’impresario, il quale ne assicura che, « se questo poeta miserabile e allegro volesse venire a strapazzare i componimenti del Goldoni, il Goldoni se l’avrebbe a male. » Lo credo senza che l’impresario me l’assicuri. Ma che « se sarà un uomo di garbo, e un savio e discreto critico, il Goldoni gli sarà amico ». Bisognava ancora che il Goldoni per bocca di questo impresario ne facesse sapere, come bisogna criticarlo per rendersi degni della sua amicizia, o perchè egli non se l’abbia a male. Ho gran paura che il Goldoni troverà Aristarco Scannabue un uomo di poco garbo, e un indiscreto e matto critico. Ma flemma vi vuole, e poi ogni cosa va bene. Forse quando verremo a que’tomi in cui sono le sue buone commedie, io le loderò, e allora sarò savio e discreto critico, e uomo di garbo anch’io.
Scena Settima. Non ne dice altro, se non che « di gran novità si sono introdotte
Scena Ottava. Entra Gianni, cioè l’Arlecchino. A questo Gianni il Goldoni mette subito in bocca questa bella facezia;
Scena Nona. Seconda Donna e Dottore. In grazia della sua brevità voglio qui ricopiare questa scena, che servirà per dar un saggio della nobile maniera di dialogizzare del Goldoni.
Beatrice. Via, signor Dottore, favoritemi; andiamo. Voglio che siate voi il mio cavalier servente.
Petronio. Il Cielo me ne liberi! (che galante espressione!).
Bea. Per qual cagione?
Pet. Perchè in primo luogo io non sono così pazzo che voglia soggettarmi all’umore stravagante d’una donna (Doveva dire all’umore d’una seconda donna, e non pigliar le donne in generale, e trattarle tutte da umori stravaganti) In secondo luogo, perchè, se volessi farlo, lo farei
Bea. Che vuol dire?
Pet. Per premio della mia servitù (cioè del suo tener la puzza in casa) non potrei attendere altro che un qualche disprezzo (Oh savio Dottore! Ma sentiamo la contra risposta di madonna
Schifalpoco.)
Bea. Sentite: io non bado a queste cose. Serventi non n’ho mai avuti, e non ne voglio; ma quando dovessi averne, li vorrei giovani (Brava: battiamo le mani.)
Pet. Le donne s’attaccano sempre al loro peggio. (Bella sentenza, e molto al proposito! Viva Goldoni.)
Bea. Non è peggio quello che piace (Altra sentenza non men bella dell’altra a proposito di ravanelli.)
Pet. Non s’ha da cercar quel che piace, ma quel che giova (E questa terza sentenza non è ella degna d’un Platone quanto l’altre due?)
Bea. Veramente non siete buono da altro che da dar buoni consigli (Dove sono i consigli che le ha dati? È ella briaca?)
Pet. Io son buono da darli; ma ella a
Bea. Quando sarò vecchia li riceverò (spiritosissima).
Pet. Principiis obsta. Sero medicina paratur. E così si termina la scena con quest’altra sentenza, che è in latino, perchè si sa bene che le seconde donne di commedia intendono tutte molto bene il latino.
Scena Decima. Questa scena, a dir vero, non contiene che alcuni goffi complimenti tra due sciocche commedianti; poi s’avanza il Poeta miserabile ed allegro; e il Dottore al suo apparire osserva con un’acutezza da par suo, che il poverino è molto magro. Pure quest’acuta osservazione avrà meritato gli applausi dell’udienza: massimamente se il Poeta avrà avuto un abito stracciato, una gran parrucca mal pettinata, le calze rotte, una lunga spadaccia al fianco, un cappello piccino piccino sotto il braccio, e cose simili, che costituiscono una gran parte del faceto goldoniano, e secondo il nuovo stile delle commedie di carattere.
Scena undecima. Entra quel cialtrone confratello di certi poeti teatrali. Si chiama Lelio con nome romano. Questo poeta Lelio s’informa con una goffa franceseria de’diversi gradi teatrali de’commedian-soggetto che ha tre o quattro titoli; e l’impresario fa il sapiente intorno a’ titoli; e tutta la compagnia, che è tutta ingoldonita, critica con molte osservazioni, che giovano all’autore Goldoni, tutte le antiche commedie dell’arte, e squacchera dottrina non men nuova che buona intorno all’ importantissimo mestiere del commediante. Poi il poeta Lelio recita smaniando alcuni insipidi versi della sua commedia a soggetto; ma, intanto che egli smania, tutti i commedianti partono senza essere da lui visti, perchè egli chiude ben gli occhi recitando; e con questo mirabile sforzo d’ingegno e di lepidezza malamente tratto dalla commedia francese detta il Babillard, termina l’atto primo della bella ed istruttiva moralissima commedia intitolata: Il Teatro Comico del sig. Carlo Goldoni.
Al secondo e al terzo atto io non voglio fare quella esatta anatomia che ho fatto a questo primo. Trascriverò qui so-
Atto secondo, Scena prima. S’è veduto più su, che il Goldoni non sa il significato del vocabolo carattere. E chi crederebbe ch’egli non sa neppure i significati de’vocaboli dialogo, soliloquio, rimprovero e disperazione? Questo pare incredibile; e se non fosse detto dal Goldoni in istampa, non vi sarebbe modo di persuadersene. Il Goldoni in questa scena, istruendo in persona d’Anselmo lo sciocco poeta Lelio delle perfezioni delle commedie moderne, cioè delle goldoniane, dice a tanto di lettere che « dialoghi, uscite, soliloquj, rimproveri, concetti, disperazioni, tirate sono cose che non s’usano più. » Le uscite, i concetti e le tirate in commedia nel gergo comico sarà vero che non si usano più; ma come diavolo fa il Goldoni a far parlare le persone insieme senza dialogo? Come fa a far parlare un attore solo senza soliloquio? E quando un interlocutore rimprovera all’altro qualche cosa, come fa a rimproverare senza rimprovero? E quando verbigrazia il milordo si dispera perchè Pamela non è nata nobile com’esso, come fa a disperarsi senza disperazione? Ecco quattro segreti dell’arte comica moderna, più difficili a indovinare che non
Scena Terza. Sentite, leggitori; con Disprezzate voi l’opere dei francesi? E l’impresario dottamente risponde a Lelio: Francesi alla parola Greci, e la parola Italiani alla parola Francesi. Checchè ne sia di questo mio sospetto, che non ho tempo adesso di verificare, dico che questo discorso, così come sta in questa scena, è della razza di quelli, che acquistarono tanta fama a quel ciarlatano impostore conosciuto pochi anni fa sotto il nome d’Anonimo; voglio dire che è uno di que’discorsi tanto più ammirati dal volgaccio quanto meno intesi. Il volgaccio nostro, oltre alla sua ignoranza crassa, e disattenzione somma, non può aver idea del teatro francese, e sentendosi entrar nell’orecchio tutto questo sonoro gergo, apre tanto d’occhi e di bocca, ed ammira come cose stupende il trionfar dell’arte; il seme spento; l’illustrar il teatro; i buoni autori greci e latini; i concetti arguti e brillanti; i caratteri ben sostenuti, forti, originali e conosciuti; la passione ben maneggiata;
Ma ecco qui fra gli altri spiritosi concetti di Colombina, un suo bel soliloquio pieno di buona morale.
Sentiamo ancora un altro bel pezzo di
Dir si possa, e per te sai quanto ho fatto:
Prima di vincolarti col durissimo
Laccio del matrimonio, ascolta quanti
Lesi trae seco il conjugal diletto.
Bellezza e gioventù, preziosi arredi
Della femmina, son dal matrimonio
Oppressi e posti in fuga innanzi al tempo. »
Ci dica un poco il Goldoni, come si fa « a mettere in fuga, e a opprimere i preziosi arredi? » che belle metafore! Tiriamo innanzi.
Il portarli nel seno, il darli al mondo,
L’allevarli, il nutrirli son tai cose
Che fanno inorridir! Ma chi t’accerta
Che il marito non sia geloso, e voglia
A te vietar quel ch’egli andrà cercando?
Pensaci, figlia, pensaci; e poi quando
Avrai meglio pensato, sarò padre
Per compiacerti, come ora lo sono
Per consigliarti. »
Ecco come gli autori del nuovo stile e delle moderne commedie di carattere sbagliano il vizio per virtù, come ho già additato. Il Goldoni, che in mille luoghi delle sue commedie ha questo difetto in comune coll’altro poeta Chiari, di voler fa-durissimo laccio del matrimonio resteranno poi gravide, porteranno con grave incomodo i figli nell’utero per nove mesi, e li partoriranno poi con dolore, e saranno poi obbligate allevarli e a nutrirli, cose che lo fanno inorridire, come se avesse da partorire egli stesso. E per sopraccarico di malanni una fanciulla può anche per sua disgrazia pigliare un marito dissoluto, che ami andare adulterando in qua e in là, senza voler permettere che la moglie faccia altrettanto. Ma cosa vorrebbe il Goldoni che le nostre fanciulle facessero in vece di maritarsi? Vuol egli che muojan tutte vergini? E non ved’egli che se queste sue perverse insinuazioni alle fanciulle prevalessero mai ne’paesi dove dalle scene predica così stoltamente, que’paesi rimarrebbono presto spopolati e deserti? Ed è egli tanto cieco della mente, tanto poco iniziato nelle conseguenze della costituzione di questa nostra umanità, che non sappia ancora, come in ogni condizione è forza che ogni donna abbia anch’essa i suoi guai come ogni uomo? Non sa egli Empoisonneur public, e non di riformatore del corrotto teatro, e de’costumi corrotti, che sono titoli dati dall’ignorante canaglia, la quale di rado sa quel che si dica.
Basti così per oggi; e il Goldoni mi scusi se non approvo nulla in questa sua prima commedia, perchè davvero la trovo tutta balorda e tutta cattiva dalla pri-
Mille diurne osservazioni ne dovrebbero convincere, che di cento buoni consigli spontaneamente dati, appena uno è ricevuto con pazienza e con gratitudine. Sapete perchè? Perchè chi consiglia altrui senza esserne ricercato, è per lo più indotto dalla propria superbia a così fare,
« Sposo adorato. Ho letta la Cleopatra, la Cassandra, l’Artamene, e cento altri libri abbondanti d’espressioni amorose; ma non v’è amorosa espressione in alcuno d’essi atta a spiegare il centesimo di quell’affetto che la vostra gioventù, la vostra maschil presenza, la vostra grazia, e i nobili costumi vostri hanno acceso nel-
Quando s’avvicinò, adorato sposo, quel sospirato momento che da voi mi fu dato il matrimoniale anello, io mi proposi fermamente d’amarvi per sempre; e per me credo poche sieno le fanciulle che in tal punto s’abbiano altro pensiero, e che sen vadano al sacro altare meditando sfoghi d’illecita concupiscenza. Io mi proposi in quel punto di fare costantemente il possibile per meritarmi sempre la continuazione di quell’affetto che mi promettevate allora così solennemente; cioè a dire d’amarvi sino più de’genitori da’quali son nata, e più degli stessi figliuoli che di voi mi nasceranno. Quantunque giovinetta, io conosco, adorato sposo, la cattivezza del secolo, e m’aspetto bene che più d’uno e più di quattro saranno o pretenderanno essere innamorati di me, tosto che saranno passati questi pochi giorni di sposereccio tumulto, e tosto che sa-
Di voi sposo adorato
La innamoratissima e fedeliss. sposa
Aristarco Scannabue.
Suppongo, signor Aristarco, che anche voi abbiate letto l’Emilio di monsù Rousseau, e che voi pure abbiate scorto di quanto impetuoso fanatismo ribocchi. L’eloquenza violenta di questo scrittore ha pur troppo la funesta possanza di abbagliare i leggitori comunali; e siccome questi formano dappertutto il numero maggiore, m’è venuto in pensiero di mandarvi un libro pubblicato pur ora qui, e intitolato Réflexions sur la Théorie et la Pratique de l’Éducation, contre les Principes de monsieur Rousseau, acciocché giudicandolo a proposito, ne diate notizia a tutta Italia col mezzo del vostro periodico foglio, che, per quanto sento, comincia ad essere per tutta Italia visto di buon occhio, come già lo è in questa nostra studiosa città.
L’autore di queste Riflessioni è un re-
« Gli uomini hanno guasto il mondo con le loro istituzioni.
« L’uomo non debb’essere allevato nè per la spada, nè per servire alla chiesa, ma unicamente per se stesso.
« Non v’è più nel mondo un vero cittadino, che tanto vale, quanto dire: Non v’è più nel mondo un solo uomo virtuoso o dabbene.
« Agli uomini sintanto che non hanno diciott’anni, o almeno quindici, non s’ha a insegnare la minima cosa, nemmeno a pronunciare il nome di Dio, perchè gli uomini prima di tal età non sono punto atti a ricevere idee, e molto meno a combinarle.
« Il principe ne dovrebbe permettere di ammazzare a tradimento chi ne dà uno schiaffo, o una mentita, o che ne fa qualch’altra simile ingiuria, perchè le leggi civili non ne possono sufficientemente vendicare di siffatte ingiurie. »
non v’è più nel mondo un sol uomo virtuoso, e s’egli è sicuro che la società è stata tutta guasta dalle sue proprie istituzioni? Non sono queste contraddizioni palpabili? Fallacie manifestissime? non è questo un soffiare caldo e freddo a un tratto? Ma tale, Aristarco mio, è il nuovo gergo d’assai moderni filosofanti di Francia. Chi loro credesse! Eglino sono ferocemente innamorati dal general complesso degli uomini: ed è questo loro sbardellato amore, e non la vanità di passare per magni sapienti, che mette loro la penna fra le dita, e che fa loro scrivere e stampare i loro maravigliosi sistemi d’universale riforma. E un leggitore comunale, che sa in prova di non avere un cuore suscettibile d’un affetto così vastamente esteso, non considera che questo sbardellato amore al general complesso degli uomini non
Per rischiarar dunque un po’ la mente a questi leggitori comunali, il nostro Benedettino ha scritte le sue Riflessioni sulla Teorica e sulla Pratica dell’Educazione contro il Sistema di monsù Rousseau. Raccomandatelo, Aristarco, a tutti que’nostri paesani, che hanno letto l’Emilio, e pregateli di leggerle attentamente, anzi di notare nel margine d’esse tutte quelle obbiezioni, che la loro logica andrà loro suggerendo agli argomenti del padre Benedettino. Io son certo che, così facendo, si porranno tutti facilmente in istato di salvare le loro immaginazioni e il loro intelletto dall’influenza di quel sottile veleno, che Rousseau ha la malefica arte d’introdurre insensibilmente in chiunque
A questa lettera io non posso aggiunger altro, se non che mi duole assai il vedere tanti miei compatrioti correr dietro con sì grande smania, come dappertutto fanno, alle nuove filosofie di questo Rousseau, di Voltaire, di Elvezio, di Montesquieu, di d’Argens e d’altri tali scompaginatori della mente umana. Ma so che predicherei al deserto, predicando alla turba de’nostri prosuntuosi filosofantelli d’astenersi affatto da sì perniciose letture, che riescono pur troppo dilettevoli a tutti coloro, i quali sono solo superficialmente saputi. Mi sia però permesso d’inculcar loro almeno il salutifero consiglio del professore di Torino, cioè che dopo d’aver letto quel velenoso Emilio, leggano anche queste antidotali Riflessioni del padre Benedettino. Questo padre, senza mostrarsi fanaticamente innamorato del complesso generale degli uomini, gli ajuta a difendersi da’fallaci argomenti di quel furibondo Ginevrino. Egli non lascia passare alcuna matta opinione del primo tomo dell’Emilio senza mostrarne apertamente la mattezza. Chi però s’accingerà con buona fede alla lettura di queste Riflessioni, seguendo il savio cenno del professore di Torino, non le legga di volo, come si leggono i romanzi, ma le tras-
Così opera la natura umana dappertutto, e costantemente. E perchè? Perchè è corrotta originalmente. Nè basta anche l’educazione a reprimerla, e a raddrizzarla, che l’educazione ha pur duopo del vil sussidio delle carceri, delle galee, delle forche. E se la società sussiste quantunque gli uomini sieno alla giornata quasi tutti colpevoli d’azioni ingiuste, sussiste perchè non tutte quelle azioni ingiuste sono del genere atroce e struggitivo; e poi sussiste, perchè senza società alcuna gli uomini tutti perirebbero, appunto per quelle ragioni dette con tanta chiarezza e con tanta forza dal nostro Padre Benedettino
Dissertazione non m’è spiaciuta. L’autor suo si mostra con essa assai versato in tutte le parti della giurisprudenza, nè si può negare che non abbia speculato assai sull’adattamento delle leggi a’casi che giornalmente intravvengono, e più ancora sulla naturale unione della giurisprudenza con altre scienze. L’incorporazione con essa della storia, della politica, della fisica, della metafisica e della teologia fu accennata dal gran Bacone; e il signor Crescini ha dottamente spaziato sul cenno di quel massimo filosofo, dandogli tanta estensione che basta per renderne la ragionevolezza evidentissima. I giovani stu-
Aristarco si dichiara sommamente obbligato al signor D. Jacopo Antonio Bartoli di Pesaro, per averlo avvertito d’un errore commesso nel Terzo Numero della Frusta, dove dice la Dama Cristiana « poteva aver il comodo di sentire due messe ogni dì nel suo privato oratorio »: non essendo stato mai ad alcun oratorio privato concesso il privilegio di due messe quotidiane. Osservisi tuttavia che la Dama, essendo ricca assai, e moglie d’un ministro di Stato, avrebbe potuto procurarsi un secondo cappellano che avesse avuto il privilegio di celebrare in un oratorio privato, e così « avere il comodo di sentire le due messe ».
Aristarco però sarà sempre pronto a ringraziare chi lo rettificherà in qualche sbaglio che gli potesse fuggir della penna.