Numero XII Giuseppe Baretti Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Alexandra Kolb Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 16.04.2019

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Baretti, Giuseppe: La Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue. Herausgegeben von Appiano Buonafede. Milano: Lorenzo Sonzogno, 1829 [1763] Venezia: 485-531 La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue 3 12 1764 Italien
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N.o XII.

Roveredo 15 marzo 1764.

Delle Commedie di Carlo Goldoni avvocato veneto, tomo primo. In Venezia 1761, per Giambattista Pasquali.

Quando un autore trova il gran segreto di diventar caro con le sue letterarie fatiche a tutti i dotti e a tutti gl’ignoranti; a tutti i nobili e a tutti i plebei, e a tutto il sesso maschile, e a tutto il sesso femminile d’una numerosa nazione, gli è pur forza che i critici giuochino alla larga con esso, e che badino bene a non lo toccare con la punta delle lor penne, ancorchè gli scritti suoi formicolassero de’ più massicci spropositi. Se, verbigrazia, un qualche critico avesse voluto nel secolo passato dire alcuna cosa contro il Marini, che appunto formicolò di spropositi assai massicci, che bel guadagno avrebb’egli fatto? Aimè, che i dotti e gl’ignoranti, i nobili e i plebei, i maschi e le femmine, tutti gli avrebbono dato addosso senza la minima misericordia, e tutti a gara l’avrebbono tacciato di goffezza, d’insensatagine, d’invidia, di malignità e di pazzia! In tali casi però fa duopo che un critico non si lasci portar via dal suo inopportuno zelo pel comun bene della società, ma che si stringa nelle spalle, che si taccia, e che rimetta la causa a’posteri, i quali ben sapranno a suo tempo vendicare la ragione e il buon gusto dagli sfregi ricevuti da un autore fatto popolaresco da quelle epidemie di capriccio, che talora infettano tutto un paese. E così per lo contrario quando un autore per un’altra epidemia d’ostinata e maligna stupidezza, è maltrattato, e depresso, e vilipeso, e negletto dal suo secolo, malgrado la bontà dell’opere sue, come fu il caso di Milton in Inghilterra, e quasi quasi di Torquato Tasso nella nostra Italia, bisogna che il critico s’abbia altresì flemma, che dia luogo alla furia universale e che si fidi a’ posteri, i quali sapranno egualmente rendergli quella giustizia che gli fu negata da’ suoi matti contemporanei.

Fortunato Goldoni, che nè l’uno nè l’altro di questi due casi è il caso tuo! Tu non formicoli di spropositi massicci, come il Marini; eppure, come il Marini, tu sei amato, e riverito ed onorato dal tuo secolo! Tu non abbondi, come il Milton, e come il Tasso, d’ogni perfezione; eppure tu non hai come que’due poverelli ad aspettare gli anni e gli anni per godere del favore universale! Basta leggere le tue prefazioni e le tue dedicatorie, per essere immediatamente convinti che tutta la tua bella Italia ti esalta sopra ogni altro tuo contemporaneo e ti guarda come la sua vera fenice! Da quelle tue dedicatorie e prefazioni oh come si scorge con ogni chiarezza, che sino i più rimoti popoli ti pregiano e t’inchinano, e ti hanno per un bacalare più grande che non alcuno de’loro più grandi bacalari! La Francia, la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, la Moscovia, e sino la Mauritania e l’Anatolia s’affrettano a tradurre le tue teatrali produzioni nelle loro rispettive lingue, o le fanno recitare a di-rittura ne’loro teatri tali e quali come tu le scrivesti, perchè tutti i loro abitanti accrescano senza più aspettare la loro sapienza, e perchè diventino costumati e morigerati!

Di questo grand’uomo dunque, di questo autore tanto popolarescamente favorito da ogni classe di persone, io m’accingo oggi a registrare il nome glorioso in queste mie lucubrazioni, poichè se non vel registrassi, e se non parlassi di lui e delle tante e diverse cose prodotte da quel suo non mai esausto cervello, chi sa che qualcuno non mi credesse una persona selvatica trasportata pur ora a caso in Italia da qualche isola tanto ignota ai geografi quanto quella di Robinson Crosuè? O chi sa che qualcuno non mi attribuisse anche qualche segreto maltalento contr’esso? poichè chi non parla di coloro de’quali tutta la brigata parla, è cosa molto naturale che sia creduto o molto maltalentato, o molto salvatico. Io m’accingo dunque senza più tardare a far passar in rivista sotto la mia Frusta ad uno ad uno tutti i teatrali componimenti del Goldoni; ma i miei leggitori, molti de’quali mi vanno scrivendo delle anonime lettere sempre stuzzicandomi a parlare e a parlar con lode di questa e di quell’altra commedia di lui, si ricordino che io sono un vecchiaccio settuagenario, difficile da contentare, e più pronto a’ rimbrotti che non agli encomj; onde accendano anch’essi le loro pipe co’ miei fogli se non li trovino secondo il loro genio, come anch’io accendo la mia co’fogli di que’libri che non mi piacciono; ma mi lascino dire onestamente quello ch’io penso, senza farmi romore intorno. A buon conto, comincio a dir loro, che ho finito jeri di rileggere il primo tomo del Goldoni, che contiene il Teatro Comico, la Bottega del Caffé, e le due Pamele, e che nessuna di queste quattro commedie vorrei averla fatta io, per quanto ho cari questi occhiali d’Inghilterra che porto sul mio naso aquilino, e senza i quali non potrei scrivere una riga nè al lume del giorno nè al lume della mia lucerna. Può darsi che il Goldoni abbia messo tutto quello che ha di cattivo nel suo primo tomo, come il Metastasio mette tutto il cattivo suo nell’ultimo. Può darsi che tutti gli altri tomi del Goldoni m’abbiano a far tramortire dallo stupore, com’io desidero; e se questo sarà, siate sicuri, leggitori miei, che non gli sarò scarso d’incenso; ma intanto lasciatemi dire di questo primo tomo; e senza più menare il can per l’aja, ecco quello che oggi vi voglio dire della sua prima commedia intitolata il Teatro Comico, che mi pare sia stata scritta da lui per avvezzare il popolaccio a giudicare delle sue composizioni come ne giudica egli stesso.

La Prima Scena, che si finge a mezza mattina, comincia con un dialoghetto tra Orazio capo di compagnia, o impresario come noi diciamo, ed Eugenio secondo amoroso della commedia. Nel punto che si tira su la tenda l’impresario viene sulla scena gridando che non si tiri su, perchè « per provare un terzo atto di commedia non ci è bisogno di alzar la tenda ». Del qual comando Eugenio fa tosto vedere la sciocchezza, notando semplicemente che se la tenda si tiene calata non ci si vede più; onde l’impresario s’accorge tosto che l’ha detta majuscola, e che sarebbe di fatto cosa ridicola il provare un terzo atto al bujo. Non poteva mo il Goldoni risparmiare di far dare un comando così sciocco dal suo impresario? O non poteva mo far impresario Arlecchino, poichè gli voleva far dire così subito una sciocchezza? Per qual causa (dice il secondo amoroso) non volevate che la tenda s’alzasse? « Acciocchè (risponde l’impresario) non si vedesse da nessuno a provare le nostre scene »; perchè, soggiunge poco dopo, quando gl’impresarj hanno de’personaggi nuovi da metter in grazia, « non si deve lasciarli vedere alle prove: conviene farli un poco desiderare; e conviene dar loro poca parte, ma buona ». Ma, rispondo io, che diavolo importa all’udienza di tutte queste magre furberie degl’impre-sarj? E che sorte d’inetti documenti viene qui il poeta a dare al pubblico? Vuol forse il pubblico far l’impresario, o il capo di compagnia, o il primo amoroso, come fa il signor Orazio del Goldoni?

Scena Seconda. Placida, prima donna, viene la prima alla prova, e dice che « pare a lei se le potesse mandar l’avviso di venire quando tutti fossero ragunati »; cioè gli attori: alle quali stizzose parole l’impresario dice piano al secondo amoroso, che ci vuol politica e soffrirla; ed io sono obbligato al Goldoni, machiavellista teatrale, di questa sua politica; ma se colla sua commedia egli voleva mettere in ridicolo i difetti de’suoi attori, anzi che quelli de’Tizj e de’Sempronj che sono nell’udienza, e i di cui difetti meritano d’esser messi in ridicolo perchè ogni Tizio e ogni Sempronio dell’udienza se ne corregga, il Goldoni poteva far tenere calata la tenda, e far recitare la sua istruttiva commedia a’commedianti stessi, poichè al pubblico fa poco caldo o poco freddo che i commedianti abbiano de’difetti ridicoli, o non gli abbiano. Il pubblico vuole, o dovrebbe volere che i commedianti sappiano fare il commediante, e che vengano a farlo ridere a spese degl’individui che rappresentano, e non a spese delle loro comiche signorie in propria persona. Domanda poi la prima donna: « Qual è la com-media che avete destinato di fare domani a sera? Il Padre rivale del Figlio », risponde l’impresario. E qui l’udienza è bellamente informata che il Goldoni ha scritte sedici commedie in un anno. A che proposito si dà mo questa informazione del Goldoni dallo stesso Goldoni? Qualcuno dell’udienza gli avrebbe potuto rispondere in greco, che il Goldoni ha la διαρροια teatrale. Ma sentite che bel pezzo d’eloquenza comica esce fuori della bocca di questa madonna Pacofila. « Se facciamo le commedie dell’arte (dice la prima donna) vogliamo star bene. Il mondo è annojato di veder sempre le cose istesse, dl (sic.) sentir sempre le parole medesime; e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino prima ch’egli apra la bocca. Per me vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche reciterò. Sono invaghita del nuovo stile; e questo solo mi piace. Domani a sera reciterò; perchè se la commedia non è di carattere, è almeno condotta bene, e si sentono ben maneggiati gli affetti ». Tutta questa goffa pappolata di questa prima donna, non è in sostanza che una lode che il Goldoni fa dare a sè stesso da quella sciocca, la quale non capisce neppure che una commedia intitolata Il Padre rivale del Figlio bisogna a forza che sia commedia di carattere; altrimente come s’ha a fare per far vedere al popolo che un padre è rivale d’un figlio, se quel padre non comparisce nel carattere d’un rivale? Il Goldoni parla sempre di caratteri, senza avere un’idea del significato di questo vocabolo. Le commedie dell’arte, com’egli le chiama, non erano forse anche quelle di carattere? Non v’erano forse in quelle degli Arlecchini, il di cui carattere è la balordaggine? de’Brighelli, il di cui carattere è la scaltritezza, e il saper ruffianeggiare? de’Pantaloni, il di cui carattere è di operare da vecchi barbogi? Degli amanti, il di cui carattere è d’essere amanti? Ma il Goldoni è egli tanto privo di lume naturale da non comprendere che gli Arlecchini, e i Brighelli, e i Pantaloni, e gli Amanti che ha nelle sue propie commedie, sono tanto caratteri nel loro genere, quanto le sue Pamele, e le sue Ircane, e i suoi Caffettieri nel genere loro? Che diavol di distinzione fa egli? Che diavol di gergo ne vien egli a parlare? Vuol egli mutar l’idea del vocabolo italiano carattere? Ma verrà tempo che gli darò io una definizione della parola carattere. Per ora tiriamo avanti.

Scena Quarta. Vien fuori un signor Tonino, che fa la parte di Pantalone. Questo signor Tonino ha la faccia turbata, si sente un certo tremazzo, si sente il polso agitato, pensando che v’è infinita-mente maggior pericolo nel recitare nelle nuove commedie del Goldoni scritte con nuovo stile, che non nelle commedie dell’arte; ma l’impresario lo rincuora, facendogli ricordare che il signor Tonino ha riscosso grandi applausi nell’Uomo prudente, nell’Avvocato, e nei due Gemelli, commedie del Goldoni. Queste lodi però, Goldoni mio, sono un poco troppo spiattellate, e la modestia voleva di non farvi tanto bello in faccia a un pubblico, che ha la bontà d’applaudire a’vostri Uomini prudenti, a’vostri Avvocati e a’vostri Gemelli. Credo bene che sia più difficile, come voi dite, di recitare una cosa studiata che non cosa pensata all’improvviso; ma non credo che il signor Tonino si sentisse poi tanto tremazzo, o che avesse la faccia turbata e il polso agitato, pensando a recitare una parte del vostro Padre rivale del Figlio, tanto più che quella non è, come voi sapientemente dite, una commedia di carattere. Il Goldoni tuttavia vuol accostumare l’udienza a credere che non solamente il comporre le sue commedie è un non plus ultra, ma anche il recitarle. Che importa poi all’udienza il sapere che il signor Tonino s’è infranciosato colle donne in Venezia quand’era giovine, e che ne informi di quella stomachevole sua circostanza con questi due versi.

« E porto in me di quelle donne istesse

L’onorate memorie ancora impresse? »

Vi pare, Goldoni mio, che questo sia un farla da riformatore del teatro e de’costumi, quando fate dire di queste porcherie a’vostri attori?

Scena Quinta. È un miserabil dialogo tra la seconda donna e l’impresario su quelle commedianti ambulatorie, che pelano i gonzi, cioè che si prostituiscono per danari. La scena finisce, che la seconda donna sostiene esser gli uomini che insegnano la malizia alle donne, l’impresario vuole che sieno le donne che l’insegnano agli uomini; e a questo proposito la seconda donna prorompe in questa plebea esclamazione: ah galeotti maledetti! E l’impresario risponde con quest’altra non meno elegante: ah streghe indiavolate! Questa è la filosofia del Goldoni, il quale non sa ancora, che la malizia la più parte degli uomini l’imparano gli uni dagli altri quando sono giovanetti, senza troppo ajuto delle donne, e che le donne fanno lo stesso senza troppo ajuto degli uomini. Gli uomini poi e le donne scostumate, come sono qualche volta i commedianti, mettono a effetto quella malizia gli uni colle altre; e restano poi loro impresse l’onorate memorie; ma questo non si chiama imparar malizia, Goldoni mio, si chiama metter a effetto o in pratica la già imparata malizia.

Scena Sesta. Prepariamoci a ridere, che entra Brighella per dirci che viene un poeta. E che poeta! Miserabile e allegro, perchè così tutti i poeti. Che bella facezia! Vorrei sapere se chi l’ha scritta inchiude pure sè stesso nel numero de’poeti allegri. In questa sua commedia però trovo molto più miseria che non allegria. Ma sentiamo l’impresario, il quale ne assicura che, « se questo poeta miserabile e allegro volesse venire a strapazzare i componimenti del Goldoni, il Goldoni se l’avrebbe a male. » Lo credo senza che l’impresario me l’assicuri. Ma che « se sarà un uomo di garbo, e un savio e discreto critico, il Goldoni gli sarà amico ». Bisognava ancora che il Goldoni per bocca di questo impresario ne facesse sapere, come bisogna criticarlo per rendersi degni della sua amicizia, o perchè egli non se l’abbia a male. Ho gran paura che il Goldoni troverà Aristarco Scannabue un uomo di poco garbo, e un indiscreto e matto critico. Ma flemma vi vuole, e poi ogni cosa va bene. Forse quando verremo a que’tomi in cui sono le sue buone commedie, io le loderò, e allora sarò savio e discreto critico, e uomo di garbo anch’io.

Scena Settima. Non ne dice altro, se non che « di gran novità si sono introdotte nel teatro comico » cioè dopo la riforma, o spurgo fattone dal Goldoni.

Scena Ottava. Entra Gianni, cioè l’Arlecchino. A questo Gianni il Goldoni mette subito in bocca questa bella facezia; « signor Orazio, siccome ho l’onore di favorirla colla mia insufficienza, così son venuto a ricever l’incomodo delle so grazie ». Mi maraviglio che si trovi un commediante, il quale sia tanto Gianni da lasciarsi metter in bocca di queste scempiaggini da un poeta. Il resto del discorso di questo suo Arlecchino è a un dipresso sul gusto di questa stessa bella facezia.

Scena Nona. Seconda Donna e Dottore. In grazia della sua brevità voglio qui ricopiare questa scena, che servirà per dar un saggio della nobile maniera di dialogizzare del Goldoni.

Beatrice. Via, signor Dottore, favoritemi; andiamo. Voglio che siate voi il mio cavalier servente.

Petronio. Il Cielo me ne liberi! (che galante espressione!).

Bea. Per qual cagione?

Pet. Perchè in primo luogo io non sono così pazzo che voglia soggettarmi all’umore stravagante d’una donna (Doveva dire all’umore d’una seconda donna, e non pigliar le donne in generale, e trattarle tutte da umori stravaganti) In secondo luogo, perchè, se volessi farlo, lo farei fuori di compagnia; (sentiamo quest’altro savio riflesso) che chi ha giudizio porta la puzza lontana da casa. E in terzo luogo, perchè con lei farei per l’appunto la parte del Dottore nella commedia intitolata La Suocera e la Nuora (Commedia del Goldoni, che vuol sempre far pensare a sè l’udienza).

Bea. Che vuol dire?

Pet. Per premio della mia servitù (cioè del suo tener la puzza in casa) non potrei attendere altro che un qualche disprezzo (Oh savio Dottore! Ma sentiamo la contra risposta di madonna

Schifalpoco.)

Bea. Sentite: io non bado a queste cose. Serventi non n’ho mai avuti, e non ne voglio; ma quando dovessi averne, li vorrei giovani (Brava: battiamo le mani.)

Pet. Le donne s’attaccano sempre al loro peggio. (Bella sentenza, e molto al proposito! Viva Goldoni.)

Bea. Non è peggio quello che piace (Altra sentenza non men bella dell’altra a proposito di ravanelli.)

Pet. Non s’ha da cercar quel che piace, ma quel che giova (E questa terza sentenza non è ella degna d’un Platone quanto l’altre due?)

Bea. Veramente non siete buono da altro che da dar buoni consigli (Dove sono i consigli che le ha dati? È ella briaca?)

Pet. Io son buono da darli; ma ella a quanto veggio non è buona da ricevergli. (Lo spiritoso Dottore ha bevuto troppo anch’egli.)

Bea. Quando sarò vecchia li riceverò (spiritosissima).

Pet. Principiis obsta. Sero medicina paratur. E così si termina la scena con quest’altra sentenza, che è in latino, perchè si sa bene che le seconde donne di commedia intendono tutte molto bene il latino.

Scena Decima. Questa scena, a dir vero, non contiene che alcuni goffi complimenti tra due sciocche commedianti; poi s’avanza il Poeta miserabile ed allegro; e il Dottore al suo apparire osserva con un’acutezza da par suo, che il poverino è molto magro. Pure quest’acuta osservazione avrà meritato gli applausi dell’udienza: massimamente se il Poeta avrà avuto un abito stracciato, una gran parrucca mal pettinata, le calze rotte, una lunga spadaccia al fianco, un cappello piccino piccino sotto il braccio, e cose simili, che costituiscono una gran parte del faceto goldoniano, e secondo il nuovo stile delle commedie di carattere.

Scena undecima. Entra quel cialtrone confratello di certi poeti teatrali. Si chiama Lelio con nome romano. Questo poeta Lelio s’informa con una goffa franceseria de’diversi gradi teatrali de’commedian-ti; bacia la mano alla prima donna con molto rispetto; e poi con un po’ men rispetto anche alla seconda donna; e poi riverisce con affettazione il primo amoroso; e poi mostra un po’ di petulanza col dottore. E tutte queste nuove galanterie del Goldoni fanno crepar dalle risa l’udienza, stupefatta da tante belle facezie. Lelio poi parla d’una sua commedia a soggetto che ha tre o quattro titoli; e l’impresario fa il sapiente intorno a’ titoli; e tutta la compagnia, che è tutta ingoldonita, critica con molte osservazioni, che giovano all’autore Goldoni, tutte le antiche commedie dell’arte, e squacchera dottrina non men nuova che buona intorno all’ importantissimo mestiere del commediante. Poi il poeta Lelio recita smaniando alcuni insipidi versi della sua commedia a soggetto; ma, intanto che egli smania, tutti i commedianti partono senza essere da lui visti, perchè egli chiude ben gli occhi recitando; e con questo mirabile sforzo d’ingegno e di lepidezza malamente tratto dalla commedia francese detta il Babillard, termina l’atto primo della bella ed istruttiva moralissima commedia intitolata: Il Teatro Comico del sig. Carlo Goldoni.

Al secondo e al terzo atto io non voglio fare quella esatta anatomia che ho fatto a questo primo. Trascriverò qui so-lamente alcuni de’suoi più rimarchevoli tratti per sempre più edificare i miei benigni leggitori.

Atto secondo, Scena prima. S’è veduto più su, che il Goldoni non sa il significato del vocabolo carattere. E chi crederebbe ch’egli non sa neppure i significati de’vocaboli dialogo, soliloquio, rimprovero e disperazione? Questo pare incredibile; e se non fosse detto dal Goldoni in istampa, non vi sarebbe modo di persuadersene. Il Goldoni in questa scena, istruendo in persona d’Anselmo lo sciocco poeta Lelio delle perfezioni delle commedie moderne, cioè delle goldoniane, dice a tanto di lettere che « dialoghi, uscite, soliloquj, rimproveri, concetti, disperazioni, tirate sono cose che non s’usano più. » Le uscite, i concetti e le tirate in commedia nel gergo comico sarà vero che non si usano più; ma come diavolo fa il Goldoni a far parlare le persone insieme senza dialogo? Come fa a far parlare un attore solo senza soliloquio? E quando un interlocutore rimprovera all’altro qualche cosa, come fa a rimproverare senza rimprovero? E quando verbigrazia il milordo si dispera perchè Pamela non è nata nobile com’esso, come fa a disperarsi senza disperazione? Ecco quattro segreti dell’arte comica moderna, più difficili a indovinare che non il segreto di trasmutare i metalli! Ecco come attente stanno le udienze nostre a quelle commedie che tanto lodano! Tutti vanno alla commedia, tutti vedono gli attori, le scene, i lumi, la gente, i palchi, e tutto ciò che è oggetto dell’occhio; ma a quello che è oggetto dell’orecchio, cioè alle parole, nessuno fa la minima attenzione; tutti sono sordi; e poi tutti escono della commedia, e vanno a cena; e durante la cena tutti esagerano le maravigliose cose che hanno udite. Così usano tutti gl’Italiani, col buon pro de’nostri moderni poeti, che vomitano ad ogni parola spropositi grossi come montagne, sicuri che nessuno se n’accorgerà. Ma, Goldoni mio, idolo dolcissimo del nostro secolo, ne hai tu molti di questi spropositacci in questi quaranta tomi che stai stampando? Deh per l’onore della nostra Italia, deh correggi almen questo in quest’altra edizione che farai in quarantamila tomi delle cose tue, perchè questa de’dialoghi non dialoghi, de’soliloquj non soliloquj, eccetera, è veramente troppo troppo grossa! E tu non rassembri qui male a quel goffo introdotto da monsù Molière in una delle commedie sue, il qual goffo « aveva parlato in prosa tutto il tempo della sua vita, senza mai accorgersi che aveva sempre parlato in prosa. »

Scena Terza. Sentite, leggitori; con che bell’arte il Goldoni si pareggia agli autori comici francesi, e si mette anzi più su d’essi. Il poeta Lelio dice all’impresario: Disprezzate voi l’opere dei francesi? E l’impresario dottamente risponde a Lelio: « Non le disprezzo: le lodo, le stimo, le venero, ma non sono al caso per me. I Francesi hanno trionfato nell’arte delle commedie per un secolo intiero. Sarebbe ormai tempo che l’Italia facesse conoscere non esser in essa spento il seme de’buoni autori, i quali dopo i Greci ed i Latini sono stati i primi ad arricchire e ad illustrare il teatro. I Francesi nelle loro commedie non si può dire che non abbiano de’bei caratteri, e ben sostenuti; che non maneggino bene le passioni; e che i loro concetti non siano arguti, spiritosi e brillanti. Ma gli uditori di quel paese si contentano del poco. Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione ben maneggiata e condotta raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell’esprimere prendon aria di novità. I nostri Italiani vogliono molto più. Vogliono che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto; che quasi tutte le persone che formano gli episodj siano altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo d’accidenti e di novità; vogliono la morale mescolata coi sali e colle facezie; vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle; e solamente coll’uso, colla pratica e col tempo si può arrivar a conoscerle e ad eseguirle. » Questo discorso dell’impresario io ho qualche ragione di sospettare che il Goldoni l’abbia rubato a qualche autor francese, sostituendo solamente la parola Francesi alla parola Greci, e la parola Italiani alla parola Francesi. Checchè ne sia di questo mio sospetto, che non ho tempo adesso di verificare, dico che questo discorso, così come sta in questa scena, è della razza di quelli, che acquistarono tanta fama a quel ciarlatano impostore conosciuto pochi anni fa sotto il nome d’Anonimo; voglio dire che è uno di que’discorsi tanto più ammirati dal volgaccio quanto meno intesi. Il volgaccio nostro, oltre alla sua ignoranza crassa, e disattenzione somma, non può aver idea del teatro francese, e sentendosi entrar nell’orecchio tutto questo sonoro gergo, apre tanto d’occhi e di bocca, ed ammira come cose stupende il trionfar dell’arte; il seme spento; l’illustrar il teatro; i buoni autori greci e latini; i concetti arguti e brillanti; i caratteri ben sostenuti, forti, originali e conosciuti; la passione ben maneggiata; la quantità de’periodi; la forza dell’esprimere; gli episodj con l’intreccio mediocremente fecondo; gli accidenti con le novità, con la morale, co’sali, colle facezie, coll’uso, colla pratica e col tempo. » Come ha da fare il povero volgaccio a resistere contro un Goldoni che lo innonda con tanta sapienza teatrale! Ma, volgaccio, volgaccio, se tu sapessi quante bestialità sono contenute in queste poche da te ammirate righe, e qual vantaggio cavi questo secondo anonimo dalla tua crassa ignoranza, tu t’anderesti a seppellire per vergogna! Se il Goldoni avesse voluto, o, per meglio dire, se avesse saputo parlare con verità in questa scena avrebbe fatto parlare il suo impresario in questi termini. « Le commedie francesi piaciono alle colte udienze di Francia, perchè in esse molti individui francesi sono vivamente dipinti tali e quali come sono, e perchè in esse si criticano piacevolmente, e si mettono in ridicolo alcuni vizj e difetti che regnano in Francia. Le commedie francesi piaciono a quelle colte udienze, perchè sono scritte con pura ed elegante lingua; perchè ognuno abbonda di molti bei caratteri; perchè gli avvenimenti in esse sono naturali, la condotta semplice nel suo artificio, e lo scioglimento pur naturale ed inaspettato; in somma le commedie francesi piaciono a quelle colte udienze perchè sono buone commedie. Ma chi vuole piacere con una commedia al grosso del popolo italiano, che in tutta Italia è incolto e pieno d’ignoranza della più crassa, bisogna che prenda in prestito molte volte dalle commedie dell’arte gli Arlecchini, i Brighelli, i Pantaloni, e i Dottori, e che li frammischi coi Turchi dotti, coi Persiani galanti, con gl’Inglesi taciturni, coi Tedeschi briachi, coi Francesi matti, cogli Spagnuoli millantatori, e genealogisti. Bisogna che una commedia italiana ribocchi di quelle buffonerie che si usano dalla più vil canaglia; che in essa i cavalieri e le dame parlino come parlano le più sciocche e più affettate commedianti e virtuose di teatro; che non sia scarsa d’equivoci ribaldi, e di gesti osceni; che dia delle botte frequenti alle donne, e che metta sempre in ludibrio il matrimonio. Bisogna che in una commedia que’cavalieri, e quelle dame anch’esse, minaccino sempre di far ammazzare, o di far bastonare: che tutti gli accidenti sieno sempre contro natura e da romanzo: che non si lasci mai ben distinguere dall’udienza tra la virtù e il vizio, sostituendo quasi sempre uno all’altra, e l’altra all’uno. Bisogna che la lingua non sia mai buona toscana e grammaticale, perchè il popolo non impari mai a parlare con eleganza; ma bisogna che sia un miscuglio pazzo di frasi veneziane, e lombarde, e romagnuole, malamente toscaneggiate. Con queste ed altre simili avvertenze (ha da dire un impresario che parla dalla scena) si fanno sicuramente batter le mani a tutte le nostre udienze. Sopra tutto non bisogna mai aver paura dei critici; perchè i critici primieramente in Italia son pochi; e que’ pochi, quando volessero fare i permalosi, si trova poi facilmente il modo di farli tacere, ricorrendo a qualche protettore, o a qualche protettrice. »

Ma ecco qui fra gli altri spiritosi concetti di Colombina, un suo bel soliloquio pieno di buona morale. « Povera signora Rosaura, povera la mia padrona! Che cosa mai ha che piange e si dispera? Eh lo so ben io cosa vi vorrebbe pel suo male! Un pezzo di giovinotto ben fatto che le facesse passare la malinconia. Ma il punto sta che anch’io ho bisogno dello stesso medicamento. Ma de’miei due amanti, Brighella è troppo furbo, Arlecchino è troppo sciocco. Col furbo starò male di giorno, e collo sciocco starò male di notte. » Padri e madri, affrettatevi a condurre le vostre innocenti figliuole a sentire le Colombine del Goldoni, che ha riformato il costume corrotto del teatro italiano!

Sentiamo ancora un altro bel pezzo di buona morale, che il Goldoni ci dà per suo in una scena del terz’atto, e che è in versi. È un padre che parla alla figlia vogliosa di maritarsi.

« Figlia, che mi sei cara quanto mai

Dir si possa, e per te sai quanto ho fatto:

Prima di vincolarti col durissimo

Laccio del matrimonio, ascolta quanti

Lesi trae seco il conjugal diletto.

Bellezza e gioventù, preziosi arredi

Della femmina, son dal matrimonio

Oppressi e posti in fuga innanzi al tempo. »

Ci dica un poco il Goldoni, come si fa « a mettere in fuga, e a opprimere i preziosi arredi? » che belle metafore! Tiriamo innanzi.

« Vengono i figli: oh dura cosa i figli!

Il portarli nel seno, il darli al mondo,

L’allevarli, il nutrirli son tai cose

Che fanno inorridir! Ma chi t’accerta

Che il marito non sia geloso, e voglia

A te vietar quel ch’egli andrà cercando?

Pensaci, figlia, pensaci; e poi quando

Avrai meglio pensato, sarò padre

Per compiacerti, come ora lo sono

Per consigliarti. »

Ecco come gli autori del nuovo stile e delle moderne commedie di carattere sbagliano il vizio per virtù, come ho già additato. Il Goldoni, che in mille luoghi delle sue commedie ha questo difetto in comune coll’altro poeta Chiari, di voler fa-re il filosofo e il moralista senza avere studiata nè la morale nè la filosofia, e che, come il Chiari, non distingue mai netto tra il bene e il male, vorrebbe qui distogliere le fanciulle dal pigliar marito, suggerendo ad esse che in conseguenza di quel durissimo laccio del matrimonio resteranno poi gravide, porteranno con grave incomodo i figli nell’utero per nove mesi, e li partoriranno poi con dolore, e saranno poi obbligate allevarli e a nutrirli, cose che lo fanno inorridire, come se avesse da partorire egli stesso. E per sopraccarico di malanni una fanciulla può anche per sua disgrazia pigliare un marito dissoluto, che ami andare adulterando in qua e in là, senza voler permettere che la moglie faccia altrettanto. Ma cosa vorrebbe il Goldoni che le nostre fanciulle facessero in vece di maritarsi? Vuol egli che muojan tutte vergini? E non ved’egli che se queste sue perverse insinuazioni alle fanciulle prevalessero mai ne’paesi dove dalle scene predica così stoltamente, que’paesi rimarrebbono presto spopolati e deserti? Ed è egli tanto cieco della mente, tanto poco iniziato nelle conseguenze della costituzione di questa nostra umanità, che non sappia ancora, come in ogni condizione è forza che ogni donna abbia anch’essa i suoi guai come ogni uomo? Non sa egli che la virtù consiste non nel cercare di fuggire i mali che sono inevitabili, e che non si possono in alcun modo fuggire, perchè annessi dal Creatore all’umana condizione; ma che la virtù consiste nell’incontrarli con forte animo, nel minorarli colla prudenza e nel soffrirli con pazienza e con rassegnazione? E non sa egli che il matrimonio è ordinato dalla natura, e istituito da Dio? Non sa egli che le donne bisogna che soffrano la gravidanza e il parto, come gli uomini bisogna che soffrano la fatica del guadagnar il pane a se stessi e alle loro famiglie col sudore del lor volto? Non sa egli che se il matrimonio ha le sue spine, anche il celibato non è tutto sparso di rose? Non sa egli che i figliuoli, se sono ben educati, sono un piacere ineffabilissimo de’genitori, e un sostegno, e un conforto della loro inevitabile vecchiaja? Chi scrive per dissuadere alcuno da un prudente matrimonio secondo il suo stato, merita il titolo francese d’Empoisonneur public, e non di riformatore del corrotto teatro, e de’costumi corrotti, che sono titoli dati dall’ignorante canaglia, la quale di rado sa quel che si dica.

Basti così per oggi; e il Goldoni mi scusi se non approvo nulla in questa sua prima commedia, perchè davvero la trovo tutta balorda e tutta cattiva dalla pri-ma sino all’ultima parola. Può darsi che sulla scena faccia bell’effetto all’occhio, ma sotto l’occhio a chi la legge fa troppo cattivo effetto. Se i suoi ammiratori che non son volgo, invece d’andarla a sentire a teatro la leggeranno nel loro gabinetto, son sicuro che confesseranno di essere stati abbagliati dalla rappresentazione scenica, la quale non lascia mai rifletter bene e posatamente, massime se gli attori sono buoni. Intanto io anderò successivamente esaminando una dietro l’altra, se avrò tanta pazienza, tutte le produzioni comiche di questo tanto celebrato poeta, e se troverò in alcuna d’esse qualche cosa di buono, torno a dire che batterò anch’io le mani, e le farò battere al mio don Petronio nel leggerle con esso. Ma ho gran paura che tutte sieno frivole, stravaganti, e perniciose al mio prossimo, e che avrò da menar la Frusta sino al fine del quarantesimo tomo addosso a chi finisce di guastar la testa e il cuore de’tanti stolidi e scostumati miei compatriotti.

Mille diurne osservazioni ne dovrebbero convincere, che di cento buoni consigli spontaneamente dati, appena uno è ricevuto con pazienza e con gratitudine. Sapete perchè? Perchè chi consiglia altrui senza esserne ricercato, è per lo più indotto dalla propria superbia a così fare, ed essendo noi tutti naturalmente superbi per la funesta forza di quel primo peccato che abbiamo miseramente redato da’ due progenitori dell’uman genere, mal volentieri soffriamo che altri ne vinca in superbia, anche momentaneamente, come è per lo più il caso de’spontanei consiglieri, che, per un momento almeno, appajono essere dappiù di noi, se non in realtà, almeno nella vana loro opinione. Pogniam caso che Tizio stia sforzandosi di parlare il meglio franzese che sa col suo maestro, e che Sempronio entri mentre il maestro e lo scolare stanno cinguettando. Sempronio sente che Tizio zoppica nella pronuncia d’un vocabolo, e subito lo vuol correggere, invece di lasciarlo correggere dal suo maestro. Pogniamo anche caso che Sofronia stia mercantando un bel merletto di Malines o di Dresda, e che mentre sta per chiudere il patto colla merciaja entri Erminia. Erminia vede l’errore che la povera Sofronia sta per commettere, e subito la consiglia ad attenersi a quest’altro merletto di Brusselles o di Honiton, perchè più di moda e di miglior gusto. Crede mo Sempronio, che l’amico Tizio sia così gonzo da non capire che quel suo veloce suggerimento intorno alla pronunzia di quel vocabolo franzese, fu effetto d’un superbo desiderio di comparire più dotto di lui nella lingua franzese? E crede mo Erminia, che Sofronia sia sì semplicetta da non conoscere che la preferenza data a’ merletti d’Honiton e di Brusselles su que’ di Dresda e di Malines isvela una occulta pretesa d’aver miglior gusto di lei in fatto d’ornamenti femminili, e d’intendersi delle mode più di lei? Senza esemplificare davvantaggio questo smoderato e inopportuno orgoglio de’consiglieri volontarj, io Aristarco Scannabue prego tutti que’Sempronj, e tutte quelle Erminie, che si mostrano meco sì liberali di non richiesti consigli intorno alla Frusta, ad esserne un po’ più parchi in avvenire, perchè io Aristarco Scannabue so benissimo quello che pronuncio, e quello che compro; nè amo troppo che le signorie loro si facciano belle con pregiudizio del mio sapere e del mio discernimento. E non serviva che il dotto e veemente sig. Zoilo mi scrivesse triplicatamente per raccomandarmi di dare quattro buone frustate alle Raccolte, perchè a dirgliela, questa usanza di fare delle raccolte in certe solenni occasioni, in vece di dispiacermi, mi piace anzi moltissimo. Io vorrei solamente che questa usanza di fare delle raccolte fosse, come ogni altra cosa nostra, diretta dalla ragione; e a me basterebbe che i raccoglitori non le componessero tutte di versi, ma sibbene metà versi e metà prose. I versi potrebbero per mo’ di dire, adoperarsi a celebrare il sangue, le ricchezze, la sapienza, il valore e l’altre vere o sognate doti de’padri, degli avi, e de’bisavi di colui o di colei per cui si fa la raccolta. Ma le prose vorrei che contenessero poi qualche cosa di più sostanza, e che servissero per dare a quel colui, o a quella colei qualche buon documento. In una raccolta per nozze, esempligrazia, perchè non si potrebbe aver qualche teologale dissertazioncella sulla santa istituzione del matrimonio? Qualche discussione filosofica sulla legittima propagazione del genere umano? Qualche bella predichina su i doveri di chi s’accinge ad esser marito, o di chi si suol avventurare ad esser madre? E anche qualche bizzarra e lepida anatomica diceria sul dolce palpitare dell’innocente cuore d’una tenera verginella, che cambia la donzellesca ritiratezza col trambusto del gran mondo? Cento e mille cosuccie di tal fatta potrebbono riuscire di giovamento grande a due conjugati, e dilettare istruendo anche qualche leggitore più assai che nol dilettano e non l’istruiscono i bene intagliati fregi e le auree coperte d’una raccolta fatta secondo la presente usanza. Ma perchè non paja che anch’io ho la superbia di consigliare disgiunta dalla voglia di operare, ecco qui leggitori una mia lettera scritta ad uno sposo, che mi prega di qualche mia composizione per ornamento, dic’egli, della sua raccolta sposereccia.

Lettera di Aristarco Scannabue al novello sposo.

« Sposo adorato. Ho letta la Cleopatra, la Cassandra, l’Artamene, e cento altri libri abbondanti d’espressioni amorose; ma non v’è amorosa espressione in alcuno d’essi atta a spiegare il centesimo di quell’affetto che la vostra gioventù, la vostra maschil presenza, la vostra grazia, e i nobili costumi vostri hanno acceso nel-l’anima mia. Ora però che siamo due in una carne, e che la novità del nostro stato ha reso voi felice nell’amor mio quanto io lo sono nel vostro, permettetemi, adorato sposo, ch’io versi liberamente nel vostro seno alcuni miei segreti pensieri, e ch’io vi dica alcune coserelle veramente di poca importanza; dalle quali però può dipendere la nostra mutua contentezza in questo mondo, e fors’anco la nostra interminabile gioja nell’altro.

Quando s’avvicinò, adorato sposo, quel sospirato momento che da voi mi fu dato il matrimoniale anello, io mi proposi fermamente d’amarvi per sempre; e per me credo poche sieno le fanciulle che in tal punto s’abbiano altro pensiero, e che sen vadano al sacro altare meditando sfoghi d’illecita concupiscenza. Io mi proposi in quel punto di fare costantemente il possibile per meritarmi sempre la continuazione di quell’affetto che mi promettevate allora così solennemente; cioè a dire d’amarvi sino più de’genitori da’quali son nata, e più degli stessi figliuoli che di voi mi nasceranno. Quantunque giovinetta, io conosco, adorato sposo, la cattivezza del secolo, e m’aspetto bene che più d’uno e più di quattro saranno o pretenderanno essere innamorati di me, tosto che saranno passati questi pochi giorni di sposereccio tumulto, e tosto che sa-rà calmato lo stupore della mia nuova situazione. So che più d’uno de’vostri più cordiali amici non lascerà fuggir occasione di dirmi in privato cose dolci, cose lusinghiere, per bellamente indurmi a rompere la matrimonial fede; e so che assai pochi si faranno scrupolo di rubarvi il cuore della vostra sposa, e di contaminarlo, e di guastarlo affatto. Chi verrà via con parole umili; chi con aspetto languente; chi con doni; chi con procurarmi passatempi; chi con discorsi liberi; chi con oscene filosofie; e chi con altri iniqui modi. Ma io starò salda, sposo adorato, starò salda come una torre di bronzo, e non solamente sfuggirò la compagnia e la vista di chi farà solo cenno di corrompere l’onestà mia; ma quando la sera avremo entrambi il capo sul guanciale, vi farò noti tutti i rigiri e tutti gli stratagemmi di que’ futuri furfanti. Siccome però il Dimonio è sottile, e la carne fragile, e il desiderio di vendetta in cuor di donna potentissimo, sarà necessario che voi, adorato sposo, cooperiate anco dal canto vostro a conservare la mia purità, con fare anche voi qualche cosa per una moglie, che in queste prime ore di matrimonio si propone sinceramente d’amarvi nel prefato modo. Bisognerà dunque che voi non vi mettiate a far il vezzoso con altre donne, e se mai v’abbatteste in alcuna che vi desse nel genio un pochino, bisognerà che non v’ingolfiate impercettibilmente nell’amor suo, perchè questo sarebbe farmi un di quegli affronti che poche mogli hanno cristiana virtù abbastanza per soffrirli con flemma. Bisognerà, sposo adorato, che a dispetto dell’ostinata moda, non vi vergogniate mai di trovarvi meco anche in pubblico, e bisognerà che in ogni occasione non abbiate rossore di confessare che mi volete bene, quantunque tal confessione esponga qualche volta un marito al sorriso degli sciocchi e degl’insensati. Bisognerà che non soltanto v’astegniate dal fare il cicisbeo e il cavalier servente, anche con intenzione di passare semplicemente il tempo, ma che vi guardiate bene dal non tenermi sempre ferma nell’opinione d’essere da voi preferita, anche dopo il primo mese di matrimonio, a tutte le creature della mia spezie. Bisognerà che non mi accarezziate tanto da straccarvi, per evitare il pericolo di rendere esausto il fonte dell’amor vostro, e bisognerà che mi mostriate sempre d’avere per me un certo domestico rispetto che piace alle donne d’animo delicato forse più dell’amore impetuoso e violento. Bisognerà che vi guardiate bene dal mostrar mai il minimo dispregio o pel corpo mio, o pel mio intelletto, ma che vi contentiate che rimangano entrambi come gli avete trovati. Bisognerà che non m’induciate mai o con parole o con atti a pensarvi capace di cosa vile, che la fortezza d’animo e l’alterezza di mente sono le cose che più rendono gli uomini cari alle donne ragionevoli e sensibili, come credo d’esser io. Bisognerà che mi convinciate sempre della tenerezza vostra verso il genere umano, e della vostra prontezza in fare a chi lo merita quanto bene sarà in vostro potere di fare. Ho osservato più volte, che voi altri poeti più di tutti gli altri uomini, siete sagaci, e conoscete meglio degli altri le sorgenti, dalle quali derivano i pensieri e gli affetti umani. Fate buon uso della vostra sagacità, marito mio poetico, e fabbricate voi dalla vostra parte la felicità mia, che io mi studierò costantemente di fabbricar la vostra. Soprattutto ricordatevi che le mogli non sono tutti i dì come il dì delle nozze, e che in quest’orbe sublunare i beni sono sempre misti a’mali, come i mali sono sempre misti a’beni; onde se anderete scoprendo nella moglie qualche difetto che non poteste trovare nell’innamorata, non vi scordate nemmeno d’osservare, che nella moglie avete anche scoperta qualche buona qualità che non avevate ancora nell’innamorata scoperta. Così facendo e avvertendo è probabile che passeremo allegra-mente insieme alcuni anni. Scusate la franchezza che il mio amore m’inspira, e siate persuaso persuasissimo che non sarò la prima ad interrompere il corso delle nostre presenti contentezze. Addio. »

Di voi sposo adoratoLa innamoratissima e fedeliss. sposa

Aristarco Scannabue.

Lettera d’un professore dell’università di Torino ad Aristarco.

Suppongo, signor Aristarco, che anche voi abbiate letto l’Emilio di monsù Rousseau, e che voi pure abbiate scorto di quanto impetuoso fanatismo ribocchi. L’eloquenza violenta di questo scrittore ha pur troppo la funesta possanza di abbagliare i leggitori comunali; e siccome questi formano dappertutto il numero maggiore, m’è venuto in pensiero di mandarvi un libro pubblicato pur ora qui, e intitolato Réflexions sur la Théorie et la Pratique de l’Éducation, contre les Principes de monsieur Rousseau, acciocché giudicandolo a proposito, ne diate notizia a tutta Italia col mezzo del vostro periodico foglio, che, per quanto sento, comincia ad essere per tutta Italia visto di buon occhio, come già lo è in questa nostra studiosa città.

L’autore di queste Riflessioni è un re-ligioso Benedettino, che non occorre nominare, poichè egli stesso non ha voluto porre il suo nome in fronte all’opera sua. Basta che con questo egli confuta in modo schietto ed evidentissimo le numerose false massime, e posizioni di questo vertiginoso sofista: massime, e posizioni di tendenza troppo perversa, poichè mirano a sconquassare e a porre sossopra ogni ordine civile ed ecclesiastico. Eccovene qui alcune delle principali:

« Gli uomini hanno guasto il mondo con le loro istituzioni.

« L’uomo non debb’essere allevato nè per la spada, nè per servire alla chiesa, ma unicamente per se stesso.

« Non v’è più nel mondo un vero cittadino, che tanto vale, quanto dire: Non v’è più nel mondo un solo uomo virtuoso o dabbene.

« Agli uomini sintanto che non hanno diciott’anni, o almeno quindici, non s’ha a insegnare la minima cosa, nemmeno a pronunciare il nome di Dio, perchè gli uomini prima di tal età non sono punto atti a ricevere idee, e molto meno a combinarle.

« Il principe ne dovrebbe permettere di ammazzare a tradimento chi ne dà uno schiaffo, o una mentita, o che ne fa qualch’altra simile ingiuria, perchè le leggi civili non ne possono sufficientemente vendicare di siffatte ingiurie. »

La falsità, anzi pure la perfìdia di queste, e di molt’altre tali massime e posizioni, sarebbe agevolmente discernibile anche da ogni più sciocco leggitore, se Rousseau non le avesse avvolte in un immenso turbine d’eleganti parole, e di vivacissimi modi di dire; anzi pure s’egli non facesse un perpetuo gabbo altrui con quel suo tanto decantato tenerissimo amore alla virtù ed alla società. Come possiam però noi, Aristarco, essere persuasi ch’egli ama la virtù, se per suo dire non v’è più nel mondo un sol uomo virtuoso, e s’egli è sicuro che la società è stata tutta guasta dalle sue proprie istituzioni? Non sono queste contraddizioni palpabili? Fallacie manifestissime? non è questo un soffiare caldo e freddo a un tratto? Ma tale, Aristarco mio, è il nuovo gergo d’assai moderni filosofanti di Francia. Chi loro credesse! Eglino sono ferocemente innamorati dal general complesso degli uomini: ed è questo loro sbardellato amore, e non la vanità di passare per magni sapienti, che mette loro la penna fra le dita, e che fa loro scrivere e stampare i loro maravigliosi sistemi d’universale riforma. E un leggitore comunale, che sa in prova di non avere un cuore suscettibile d’un affetto così vastamente esteso, non considera che questo sbardellato amore al general complesso degli uomini non è possibile in natura, e che per conseguenza chi lo professa è un vano millantatore, che tanto vale quanto dire un mentitore; ma si lascia come un goffo rapire e portar via da quella chimerica idea d’un amore sbardellato sbardellatissimo; ammira dirottamente colui, che assicura con tutta solennità di non sentirsi in seno amore d’altra fatta; e in conseguenza di quella sua sciocca ammirazione, s’affeziona tanto a un tale amante universale, che adotta presto per vere tutte le sue false ragioni; nè ha ancora finito di leggere uno de’suoi tomi, che si trova sprofondato tutto nel suo ingannevole sistema.

Per rischiarar dunque un po’ la mente a questi leggitori comunali, il nostro Benedettino ha scritte le sue Riflessioni sulla Teorica e sulla Pratica dell’Educazione contro il Sistema di monsù Rousseau. Raccomandatelo, Aristarco, a tutti que’nostri paesani, che hanno letto l’Emilio, e pregateli di leggerle attentamente, anzi di notare nel margine d’esse tutte quelle obbiezioni, che la loro logica andrà loro suggerendo agli argomenti del padre Benedettino. Io son certo che, così facendo, si porranno tutti facilmente in istato di salvare le loro immaginazioni e il loro intelletto dall’influenza di quel sottile veleno, che Rousseau ha la malefica arte d’introdurre insensibilmente in chiunque non è a sufficienza fornito di filosofia. State sano.

A questa lettera io non posso aggiunger altro, se non che mi duole assai il vedere tanti miei compatrioti correr dietro con sì grande smania, come dappertutto fanno, alle nuove filosofie di questo Rousseau, di Voltaire, di Elvezio, di Montesquieu, di d’Argens e d’altri tali scompaginatori della mente umana. Ma so che predicherei al deserto, predicando alla turba de’nostri prosuntuosi filosofantelli d’astenersi affatto da sì perniciose letture, che riescono pur troppo dilettevoli a tutti coloro, i quali sono solo superficialmente saputi. Mi sia però permesso d’inculcar loro almeno il salutifero consiglio del professore di Torino, cioè che dopo d’aver letto quel velenoso Emilio, leggano anche queste antidotali Riflessioni del padre Benedettino. Questo padre, senza mostrarsi fanaticamente innamorato del complesso generale degli uomini, gli ajuta a difendersi da’fallaci argomenti di quel furibondo Ginevrino. Egli non lascia passare alcuna matta opinione del primo tomo dell’Emilio senza mostrarne apertamente la mattezza. Chi però s’accingerà con buona fede alla lettura di queste Riflessioni, seguendo il savio cenno del professore di Torino, non le legga di volo, come si leggono i romanzi, ma le tras-corra con la penna in mano, e noti dove gli pare, che le massime e le posizioni di Rousseau sieno ben confutate, e dove no. Io do il consiglio ad altri che ho preso per me stesso, ond’è, che dopo d’averle così posatamente lette tutte, una sola ne ho trovata che non mi quadra a sufficienza; ed è questa, posta a pagine 45: « Ce n’est pas que les hommes naissent méchans. Si cela étoit, la somme des actions injustes surpasseroit infiniment dans tout un Peuple la somme des actions humainement justes; au lieu que la somme de celles-ci est toujours incomparablement supérieure à la somme des autres; sans quoi nulle société pourroit subsister ». A questa riflessione o opinione del Padre Benedettino io non posso sottoscrivermi. Le azioni ingiuste d’ogni uomo, pigliando gli uomini all’ingrosso sono ogni dì più numerose che non le sue azioni giuste. Quasi tutti i potenti, i ricchi, i padroni adoprano ogni dì, ogni ora, ogni momento che possono, i vizj dell’alterigia, della prepotenza, della durezza d’animo, del disprezzo e della tirannia verso i deboli, i poveri, i dipendenti, esercitando molto di rado la virtù a tali vizj contrarie; e quasi ogni debole, ogni povero, ed ogni dipendente guarda con occhio gonfio d’invidia e di malignità il potente, il ricco e il padrone; senza con-tare il dispetto e il maltalento, e il falso o proditorio operare de’grandi fra di essi, che non cede in nulla a quello con cui i piccoli si travagliano mutuamente. Quasi tutti i vecchj o cercano soverchiare i giovani, o danno loro mille mali esempj, e quasi tutti i giovani detestano o dispregiano i vecchi. E che dirò delle tante bugie, e delle innumerevoli giornaliere fraudi di tanti mercanti, e artieri, e bottegaie di chiunque professa questa e quell’arte, o questo e quel mestiero? E che della impurità di tanti amanti, o del cipiglio impostore di tanti letterati? Che dirò in somma della negligenza, della infingardia, della balordaggine e della ignoranza di quasi tutto l’uman genere, quotidiane produttrici d’infinite azioni ingiuste? Giovenale disse che i buoni non oltrepassavano il numero delle porte di Tebe e delle bocche del Nilo, esagerando certamente come i poeti sogliono sempre fare; ma noi possiamo ben dire senza esagerazioni da poeta, che l’esser giusto è un mestiero de’più difficili da apprendere, quando veggiamo che tra le nazioni barbare, egualmente che tra le nazioni non barbare, tutti gli uomini studiano e s’affaticano per convertire il tuo in mio, tosto che si credono aver bastevoli forze per farlo, opprimendosi ed assassinandosi talor più talor meno, secondo le opportunità, quando le naturali inclinazioni loro non vengano di buon’ora in essi represse, e indirizzate alla virtù da una buona educazione. La signora Bergalli Gozzi, le di cui poetiche composizioni scintillano spesso di filosofici lampi, ha in un suo dramma burlesco espresso con molta felicità quanto il mestiero dell’esser giusto ne costi, con quest’arietta:

« Ognuno sa fare il mal da sua posta: far bene gli costa fatica e sudor. Lo deve imparare; poi metterlo in opra: poi forse l’adopra ad onta del cor! »

Così opera la natura umana dappertutto, e costantemente. E perchè? Perchè è corrotta originalmente. Nè basta anche l’educazione a reprimerla, e a raddrizzarla, che l’educazione ha pur duopo del vil sussidio delle carceri, delle galee, delle forche. E se la società sussiste quantunque gli uomini sieno alla giornata quasi tutti colpevoli d’azioni ingiuste, sussiste perchè non tutte quelle azioni ingiuste sono del genere atroce e struggitivo; e poi sussiste, perchè senza società alcuna gli uomini tutti perirebbero, appunto per quelle ragioni dette con tanta chiarezza e con tanta forza dal nostro Padre Benedettino in tutti que’luoghi dove combatte le strane affermazioni di monsù Rousseau contro le società colte, e in favore delle società barbare, alle quali questo stemperato filosofante dà sempre bestialmente la preferenza, e fra le quali non farebbe male a rifugiarsi, senza star più a guastare co’suoi libri troppi individui maschi e femmine delle società nostre.

Dissertazione sopra le leggi civili, e metodo di studiarle e d’insegnarle, di Jacopo Crescini. In Venezia 1760, presso Giambattista Recurti, in 8.o

A dispetto dello stile un po’ troppo trasposto e sparso d’alcuni franzesismi, questa Dissertazione non m’è spiaciuta. L’autor suo si mostra con essa assai versato in tutte le parti della giurisprudenza, nè si può negare che non abbia speculato assai sull’adattamento delle leggi a’casi che giornalmente intravvengono, e più ancora sulla naturale unione della giurisprudenza con altre scienze. L’incorporazione con essa della storia, della politica, della fisica, della metafisica e della teologia fu accennata dal gran Bacone; e il signor Crescini ha dottamente spaziato sul cenno di quel massimo filosofo, dandogli tanta estensione che basta per renderne la ragionevolezza evidentissima. I giovani stu-diosi delle leggi civili seguendo il metodo proposto in questa breve, ma sugosa operetta, si accorcieranno di molto la strada all’acquisto d’un’idea chiara e precisa di quelle tante relatività, che fa d’uopo aver in mente molto precise e chiare, per potersi render atti al giusto governo de’popoli.

Aristarco si dichiara sommamente obbligato al signor D. Jacopo Antonio Bartoli di Pesaro, per averlo avvertito d’un errore commesso nel Terzo Numero della Frusta, dove dice la Dama Cristiana « poteva aver il comodo di sentire due messe ogni dì nel suo privato oratorio »: non essendo stato mai ad alcun oratorio privato concesso il privilegio di due messe quotidiane. Osservisi tuttavia che la Dama, essendo ricca assai, e moglie d’un ministro di Stato, avrebbe potuto procurarsi un secondo cappellano che avesse avuto il privilegio di celebrare in un oratorio privato, e così « avere il comodo di sentire le due messe ».

Aristarco però sarà sempre pronto a ringraziare chi lo rettificherà in qualche sbaglio che gli potesse fuggir della penna.

N.o XII. Roveredo 15 marzo 1764. Delle Commedie di Carlo Goldoni avvocato veneto, tomo primo. In Venezia 1761, per Giambattista Pasquali. Quando un autore trova il gran segreto di diventar caro con le sue letterarie fatiche a tutti i dotti e a tutti gl’ignoranti; a tutti i nobili e a tutti i plebei, e a tutto il sesso maschile, e a tutto il sesso femminile d’una numerosa nazione, gli è pur forza che i critici giuochino alla larga con esso, e che badino bene a non lo toccare con la punta delle lor penne, ancorchè gli scritti suoi formicolassero de’ più massicci spropositi. Se, verbigrazia, un qualche critico avesse voluto nel secolo passato dire alcuna cosa contro il Marini, che appunto formicolò di spropositi assai massicci, che bel guadagno avrebb’egli fatto? Aimè, che i dotti e gl’ignoranti, i nobili e i plebei, i maschi e le femmine, tutti gli avrebbono dato addosso senza la minima misericordia, e tutti a gara l’avrebbono tacciato di goffezza, d’insensatagine, d’invidia, di malignità e di pazzia! In tali casi però fa duopo che un critico non si lasci portar via dal suo inopportuno zelo pel comun bene della società, ma che si stringa nelle spalle, che si taccia, e che rimetta la causa a’posteri, i quali ben sapranno a suo tempo vendicare la ragione e il buon gusto dagli sfregi ricevuti da un autore fatto popolaresco da quelle epidemie di capriccio, che talora infettano tutto un paese. E così per lo contrario quando un autore per un’altra epidemia d’ostinata e maligna stupidezza, è maltrattato, e depresso, e vilipeso, e negletto dal suo secolo, malgrado la bontà dell’opere sue, come fu il caso di Milton in Inghilterra, e quasi quasi di Torquato Tasso nella nostra Italia, bisogna che il critico s’abbia altresì flemma, che dia luogo alla furia universale e che si fidi a’ posteri, i quali sapranno egualmente rendergli quella giustizia che gli fu negata da’ suoi matti contemporanei. Fortunato Goldoni, che nè l’uno nè l’altro di questi due casi è il caso tuo! Tu non formicoli di spropositi massicci, come il Marini; eppure, come il Marini, tu sei amato, e riverito ed onorato dal tuo secolo! Tu non abbondi, come il Milton, e come il Tasso, d’ogni perfezione; eppure tu non hai come que’due poverelli ad aspettare gli anni e gli anni per godere del favore universale! Basta leggere le tue prefazioni e le tue dedicatorie, per essere immediatamente convinti che tutta la tua bella Italia ti esalta sopra ogni altro tuo contemporaneo e ti guarda come la sua vera fenice! Da quelle tue dedicatorie e prefazioni oh come si scorge con ogni chiarezza, che sino i più rimoti popoli ti pregiano e t’inchinano, e ti hanno per un bacalare più grande che non alcuno de’loro più grandi bacalari! La Francia, la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, la Moscovia, e sino la Mauritania e l’Anatolia s’affrettano a tradurre le tue teatrali produzioni nelle loro rispettive lingue, o le fanno recitare a di-rittura ne’loro teatri tali e quali come tu le scrivesti, perchè tutti i loro abitanti accrescano senza più aspettare la loro sapienza, e perchè diventino costumati e morigerati! Di questo grand’uomo dunque, di questo autore tanto popolarescamente favorito da ogni classe di persone, io m’accingo oggi a registrare il nome glorioso in queste mie lucubrazioni, poichè se non vel registrassi, e se non parlassi di lui e delle tante e diverse cose prodotte da quel suo non mai esausto cervello, chi sa che qualcuno non mi credesse una persona selvatica trasportata pur ora a caso in Italia da qualche isola tanto ignota ai geografi quanto quella di Robinson Crosuè? O chi sa che qualcuno non mi attribuisse anche qualche segreto maltalento contr’esso? poichè chi non parla di coloro de’quali tutta la brigata parla, è cosa molto naturale che sia creduto o molto maltalentato, o molto salvatico. Io m’accingo dunque senza più tardare a far passar in rivista sotto la mia Frusta ad uno ad uno tutti i teatrali componimenti del Goldoni; ma i miei leggitori, molti de’quali mi vanno scrivendo delle anonime lettere sempre stuzzicandomi a parlare e a parlar con lode di questa e di quell’altra commedia di lui, si ricordino che io sono un vecchiaccio settuagenario, difficile da contentare, e più pronto a’ rimbrotti che non agli encomj; onde accendano anch’essi le loro pipe co’ miei fogli se non li trovino secondo il loro genio, come anch’io accendo la mia co’fogli di que’libri che non mi piacciono; ma mi lascino dire onestamente quello ch’io penso, senza farmi romore intorno. A buon conto, comincio a dir loro, che ho finito jeri di rileggere il primo tomo del Goldoni, che contiene il Teatro Comico, la Bottega del Caffé, e le due Pamele, e che nessuna di queste quattro commedie vorrei averla fatta io, per quanto ho cari questi occhiali d’Inghilterra che porto sul mio naso aquilino, e senza i quali non potrei scrivere una riga nè al lume del giorno nè al lume della mia lucerna. Può darsi che il Goldoni abbia messo tutto quello che ha di cattivo nel suo primo tomo, come il Metastasio mette tutto il cattivo suo nell’ultimo. Può darsi che tutti gli altri tomi del Goldoni m’abbiano a far tramortire dallo stupore, com’io desidero; e se questo sarà, siate sicuri, leggitori miei, che non gli sarò scarso d’incenso; ma intanto lasciatemi dire di questo primo tomo; e senza più menare il can per l’aja, ecco quello che oggi vi voglio dire della sua prima commedia intitolata il Teatro Comico, che mi pare sia stata scritta da lui per avvezzare il popolaccio a giudicare delle sue composizioni come ne giudica egli stesso. La Prima Scena, che si finge a mezza mattina, comincia con un dialoghetto tra Orazio capo di compagnia, o impresario come noi diciamo, ed Eugenio secondo amoroso della commedia. Nel punto che si tira su la tenda l’impresario viene sulla scena gridando che non si tiri su, perchè « per provare un terzo atto di commedia non ci è bisogno di alzar la tenda ». Del qual comando Eugenio fa tosto vedere la sciocchezza, notando semplicemente che se la tenda si tiene calata non ci si vede più; onde l’impresario s’accorge tosto che l’ha detta majuscola, e che sarebbe di fatto cosa ridicola il provare un terzo atto al bujo. Non poteva mo il Goldoni risparmiare di far dare un comando così sciocco dal suo impresario? O non poteva mo far impresario Arlecchino, poichè gli voleva far dire così subito una sciocchezza? Per qual causa (dice il secondo amoroso) non volevate che la tenda s’alzasse? « Acciocchè (risponde l’impresario) non si vedesse da nessuno a provare le nostre scene »; perchè, soggiunge poco dopo, quando gl’impresarj hanno de’personaggi nuovi da metter in grazia, « non si deve lasciarli vedere alle prove: conviene farli un poco desiderare; e conviene dar loro poca parte, ma buona ». Ma, rispondo io, che diavolo importa all’udienza di tutte queste magre furberie degl’impre-sarj? E che sorte d’inetti documenti viene qui il poeta a dare al pubblico? Vuol forse il pubblico far l’impresario, o il capo di compagnia, o il primo amoroso, come fa il signor Orazio del Goldoni? Scena Seconda. Placida, prima donna, viene la prima alla prova, e dice che « pare a lei se le potesse mandar l’avviso di venire quando tutti fossero ragunati »; cioè gli attori: alle quali stizzose parole l’impresario dice piano al secondo amoroso, che ci vuol politica e soffrirla; ed io sono obbligato al Goldoni, machiavellista teatrale, di questa sua politica; ma se colla sua commedia egli voleva mettere in ridicolo i difetti de’suoi attori, anzi che quelli de’Tizj e de’Sempronj che sono nell’udienza, e i di cui difetti meritano d’esser messi in ridicolo perchè ogni Tizio e ogni Sempronio dell’udienza se ne corregga, il Goldoni poteva far tenere calata la tenda, e far recitare la sua istruttiva commedia a’commedianti stessi, poichè al pubblico fa poco caldo o poco freddo che i commedianti abbiano de’difetti ridicoli, o non gli abbiano. Il pubblico vuole, o dovrebbe volere che i commedianti sappiano fare il commediante, e che vengano a farlo ridere a spese degl’individui che rappresentano, e non a spese delle loro comiche signorie in propria persona. Domanda poi la prima donna: « Qual è la com-media che avete destinato di fare domani a sera? Il Padre rivale del Figlio », risponde l’impresario. E qui l’udienza è bellamente informata che il Goldoni ha scritte sedici commedie in un anno. A che proposito si dà mo questa informazione del Goldoni dallo stesso Goldoni? Qualcuno dell’udienza gli avrebbe potuto rispondere in greco, che il Goldoni ha la διαρροια teatrale. Ma sentite che bel pezzo d’eloquenza comica esce fuori della bocca di questa madonna Pacofila. « Se facciamo le commedie dell’arte (dice la prima donna) vogliamo star bene. Il mondo è annojato di veder sempre le cose istesse, dl (sic.) sentir sempre le parole medesime; e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino prima ch’egli apra la bocca. Per me vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche reciterò. Sono invaghita del nuovo stile; e questo solo mi piace. Domani a sera reciterò; perchè se la commedia non è di carattere, è almeno condotta bene, e si sentono ben maneggiati gli affetti ». Tutta questa goffa pappolata di questa prima donna, non è in sostanza che una lode che il Goldoni fa dare a sè stesso da quella sciocca, la quale non capisce neppure che una commedia intitolata Il Padre rivale del Figlio bisogna a forza che sia commedia di carattere; altrimente come s’ha a fare per far vedere al popolo che un padre è rivale d’un figlio, se quel padre non comparisce nel carattere d’un rivale? Il Goldoni parla sempre di caratteri, senza avere un’idea del significato di questo vocabolo. Le commedie dell’arte, com’egli le chiama, non erano forse anche quelle di carattere? Non v’erano forse in quelle degli Arlecchini, il di cui carattere è la balordaggine? de’Brighelli, il di cui carattere è la scaltritezza, e il saper ruffianeggiare? de’Pantaloni, il di cui carattere è di operare da vecchi barbogi? Degli amanti, il di cui carattere è d’essere amanti? Ma il Goldoni è egli tanto privo di lume naturale da non comprendere che gli Arlecchini, e i Brighelli, e i Pantaloni, e gli Amanti che ha nelle sue propie commedie, sono tanto caratteri nel loro genere, quanto le sue Pamele, e le sue Ircane, e i suoi Caffettieri nel genere loro? Che diavol di distinzione fa egli? Che diavol di gergo ne vien egli a parlare? Vuol egli mutar l’idea del vocabolo italiano carattere? Ma verrà tempo che gli darò io una definizione della parola carattere. Per ora tiriamo avanti. Scena Quarta. Vien fuori un signor Tonino, che fa la parte di Pantalone. Questo signor Tonino ha la faccia turbata, si sente un certo tremazzo, si sente il polso agitato, pensando che v’è infinita-mente maggior pericolo nel recitare nelle nuove commedie del Goldoni scritte con nuovo stile, che non nelle commedie dell’arte; ma l’impresario lo rincuora, facendogli ricordare che il signor Tonino ha riscosso grandi applausi nell’Uomo prudente, nell’Avvocato, e nei due Gemelli, commedie del Goldoni. Queste lodi però, Goldoni mio, sono un poco troppo spiattellate, e la modestia voleva di non farvi tanto bello in faccia a un pubblico, che ha la bontà d’applaudire a’vostri Uomini prudenti, a’vostri Avvocati e a’vostri Gemelli. Credo bene che sia più difficile, come voi dite, di recitare una cosa studiata che non cosa pensata all’improvviso; ma non credo che il signor Tonino si sentisse poi tanto tremazzo, o che avesse la faccia turbata e il polso agitato, pensando a recitare una parte del vostro Padre rivale del Figlio, tanto più che quella non è, come voi sapientemente dite, una commedia di carattere. Il Goldoni tuttavia vuol accostumare l’udienza a credere che non solamente il comporre le sue commedie è un non plus ultra, ma anche il recitarle. Che importa poi all’udienza il sapere che il signor Tonino s’è infranciosato colle donne in Venezia quand’era giovine, e che ne informi di quella stomachevole sua circostanza con questi due versi. « E porto in me di quelle donne istesse L’onorate memorie ancora impresse? » Vi pare, Goldoni mio, che questo sia un farla da riformatore del teatro e de’costumi, quando fate dire di queste porcherie a’vostri attori? Scena Quinta. È un miserabil dialogo tra la seconda donna e l’impresario su quelle commedianti ambulatorie, che pelano i gonzi, cioè che si prostituiscono per danari. La scena finisce, che la seconda donna sostiene esser gli uomini che insegnano la malizia alle donne, l’impresario vuole che sieno le donne che l’insegnano agli uomini; e a questo proposito la seconda donna prorompe in questa plebea esclamazione: ah galeotti maledetti! E l’impresario risponde con quest’altra non meno elegante: ah streghe indiavolate! Questa è la filosofia del Goldoni, il quale non sa ancora, che la malizia la più parte degli uomini l’imparano gli uni dagli altri quando sono giovanetti, senza troppo ajuto delle donne, e che le donne fanno lo stesso senza troppo ajuto degli uomini. Gli uomini poi e le donne scostumate, come sono qualche volta i commedianti, mettono a effetto quella malizia gli uni colle altre; e restano poi loro impresse l’onorate memorie; ma questo non si chiama imparar malizia, Goldoni mio, si chiama metter a effetto o in pratica la già imparata malizia. Scena Sesta. Prepariamoci a ridere, che entra Brighella per dirci che viene un poeta. E che poeta! Miserabile e allegro, perchè così tutti i poeti. Che bella facezia! Vorrei sapere se chi l’ha scritta inchiude pure sè stesso nel numero de’poeti allegri. In questa sua commedia però trovo molto più miseria che non allegria. Ma sentiamo l’impresario, il quale ne assicura che, « se questo poeta miserabile e allegro volesse venire a strapazzare i componimenti del Goldoni, il Goldoni se l’avrebbe a male. » Lo credo senza che l’impresario me l’assicuri. Ma che « se sarà un uomo di garbo, e un savio e discreto critico, il Goldoni gli sarà amico ». Bisognava ancora che il Goldoni per bocca di questo impresario ne facesse sapere, come bisogna criticarlo per rendersi degni della sua amicizia, o perchè egli non se l’abbia a male. Ho gran paura che il Goldoni troverà Aristarco Scannabue un uomo di poco garbo, e un indiscreto e matto critico. Ma flemma vi vuole, e poi ogni cosa va bene. Forse quando verremo a que’tomi in cui sono le sue buone commedie, io le loderò, e allora sarò savio e discreto critico, e uomo di garbo anch’io. Scena Settima. Non ne dice altro, se non che « di gran novità si sono introdotte nel teatro comico » cioè dopo la riforma, o spurgo fattone dal Goldoni. Scena Ottava. Entra Gianni, cioè l’Arlecchino. A questo Gianni il Goldoni mette subito in bocca questa bella facezia; « signor Orazio, siccome ho l’onore di favorirla colla mia insufficienza, così son venuto a ricever l’incomodo delle so grazie ». Mi maraviglio che si trovi un commediante, il quale sia tanto Gianni da lasciarsi metter in bocca di queste scempiaggini da un poeta. Il resto del discorso di questo suo Arlecchino è a un dipresso sul gusto di questa stessa bella facezia. Scena Nona. Seconda Donna e Dottore. In grazia della sua brevità voglio qui ricopiare questa scena, che servirà per dar un saggio della nobile maniera di dialogizzare del Goldoni. Beatrice. Via, signor Dottore, favoritemi; andiamo. Voglio che siate voi il mio cavalier servente. Petronio. Il Cielo me ne liberi! (che galante espressione!). Bea. Per qual cagione? Pet. Perchè in primo luogo io non sono così pazzo che voglia soggettarmi all’umore stravagante d’una donna (Doveva dire all’umore d’una seconda donna, e non pigliar le donne in generale, e trattarle tutte da umori stravaganti) In secondo luogo, perchè, se volessi farlo, lo farei fuori di compagnia; (sentiamo quest’altro savio riflesso) che chi ha giudizio porta la puzza lontana da casa. E in terzo luogo, perchè con lei farei per l’appunto la parte del Dottore nella commedia intitolata La Suocera e la Nuora (Commedia del Goldoni, che vuol sempre far pensare a sè l’udienza). Bea. Che vuol dire? Pet. Per premio della mia servitù (cioè del suo tener la puzza in casa) non potrei attendere altro che un qualche disprezzo (Oh savio Dottore! Ma sentiamo la contra risposta di madonna Schifalpoco.) Bea. Sentite: io non bado a queste cose. Serventi non n’ho mai avuti, e non ne voglio; ma quando dovessi averne, li vorrei giovani (Brava: battiamo le mani.) Pet. Le donne s’attaccano sempre al loro peggio. (Bella sentenza, e molto al proposito! Viva Goldoni.) Bea. Non è peggio quello che piace (Altra sentenza non men bella dell’altra a proposito di ravanelli.) Pet. Non s’ha da cercar quel che piace, ma quel che giova (E questa terza sentenza non è ella degna d’un Platone quanto l’altre due?) Bea. Veramente non siete buono da altro che da dar buoni consigli (Dove sono i consigli che le ha dati? È ella briaca?) Pet. Io son buono da darli; ma ella a quanto veggio non è buona da ricevergli. (Lo spiritoso Dottore ha bevuto troppo anch’egli.) Bea. Quando sarò vecchia li riceverò (spiritosissima). Pet. Principiis obsta. Sero medicina paratur. E così si termina la scena con quest’altra sentenza, che è in latino, perchè si sa bene che le seconde donne di commedia intendono tutte molto bene il latino. Scena Decima. Questa scena, a dir vero, non contiene che alcuni goffi complimenti tra due sciocche commedianti; poi s’avanza il Poeta miserabile ed allegro; e il Dottore al suo apparire osserva con un’acutezza da par suo, che il poverino è molto magro. Pure quest’acuta osservazione avrà meritato gli applausi dell’udienza: massimamente se il Poeta avrà avuto un abito stracciato, una gran parrucca mal pettinata, le calze rotte, una lunga spadaccia al fianco, un cappello piccino piccino sotto il braccio, e cose simili, che costituiscono una gran parte del faceto goldoniano, e secondo il nuovo stile delle commedie di carattere. Scena undecima. Entra quel cialtrone confratello di certi poeti teatrali. Si chiama Lelio con nome romano. Questo poeta Lelio s’informa con una goffa franceseria de’diversi gradi teatrali de’commedian-ti; bacia la mano alla prima donna con molto rispetto; e poi con un po’ men rispetto anche alla seconda donna; e poi riverisce con affettazione il primo amoroso; e poi mostra un po’ di petulanza col dottore. E tutte queste nuove galanterie del Goldoni fanno crepar dalle risa l’udienza, stupefatta da tante belle facezie. Lelio poi parla d’una sua commedia a soggetto che ha tre o quattro titoli; e l’impresario fa il sapiente intorno a’ titoli; e tutta la compagnia, che è tutta ingoldonita, critica con molte osservazioni, che giovano all’autore Goldoni, tutte le antiche commedie dell’arte, e squacchera dottrina non men nuova che buona intorno all’ importantissimo mestiere del commediante. Poi il poeta Lelio recita smaniando alcuni insipidi versi della sua commedia a soggetto; ma, intanto che egli smania, tutti i commedianti partono senza essere da lui visti, perchè egli chiude ben gli occhi recitando; e con questo mirabile sforzo d’ingegno e di lepidezza malamente tratto dalla commedia francese detta il Babillard, termina l’atto primo della bella ed istruttiva moralissima commedia intitolata: Il Teatro Comico del sig. Carlo Goldoni. Al secondo e al terzo atto io non voglio fare quella esatta anatomia che ho fatto a questo primo. Trascriverò qui so-lamente alcuni de’suoi più rimarchevoli tratti per sempre più edificare i miei benigni leggitori. Atto secondo, Scena prima. S’è veduto più su, che il Goldoni non sa il significato del vocabolo carattere. E chi crederebbe ch’egli non sa neppure i significati de’vocaboli dialogo, soliloquio, rimprovero e disperazione? Questo pare incredibile; e se non fosse detto dal Goldoni in istampa, non vi sarebbe modo di persuadersene. Il Goldoni in questa scena, istruendo in persona d’Anselmo lo sciocco poeta Lelio delle perfezioni delle commedie moderne, cioè delle goldoniane, dice a tanto di lettere che « dialoghi, uscite, soliloquj, rimproveri, concetti, disperazioni, tirate sono cose che non s’usano più. » Le uscite, i concetti e le tirate in commedia nel gergo comico sarà vero che non si usano più; ma come diavolo fa il Goldoni a far parlare le persone insieme senza dialogo? Come fa a far parlare un attore solo senza soliloquio? E quando un interlocutore rimprovera all’altro qualche cosa, come fa a rimproverare senza rimprovero? E quando verbigrazia il milordo si dispera perchè Pamela non è nata nobile com’esso, come fa a disperarsi senza disperazione? Ecco quattro segreti dell’arte comica moderna, più difficili a indovinare che non il segreto di trasmutare i metalli! Ecco come attente stanno le udienze nostre a quelle commedie che tanto lodano! Tutti vanno alla commedia, tutti vedono gli attori, le scene, i lumi, la gente, i palchi, e tutto ciò che è oggetto dell’occhio; ma a quello che è oggetto dell’orecchio, cioè alle parole, nessuno fa la minima attenzione; tutti sono sordi; e poi tutti escono della commedia, e vanno a cena; e durante la cena tutti esagerano le maravigliose cose che hanno udite. Così usano tutti gl’Italiani, col buon pro de’nostri moderni poeti, che vomitano ad ogni parola spropositi grossi come montagne, sicuri che nessuno se n’accorgerà. Ma, Goldoni mio, idolo dolcissimo del nostro secolo, ne hai tu molti di questi spropositacci in questi quaranta tomi che stai stampando? Deh per l’onore della nostra Italia, deh correggi almen questo in quest’altra edizione che farai in quarantamila tomi delle cose tue, perchè questa de’dialoghi non dialoghi, de’soliloquj non soliloquj, eccetera, è veramente troppo troppo grossa! E tu non rassembri qui male a quel goffo introdotto da monsù Molière in una delle commedie sue, il qual goffo « aveva parlato in prosa tutto il tempo della sua vita, senza mai accorgersi che aveva sempre parlato in prosa. » Scena Terza. Sentite, leggitori; con che bell’arte il Goldoni si pareggia agli autori comici francesi, e si mette anzi più su d’essi. Il poeta Lelio dice all’impresario: Disprezzate voi l’opere dei francesi? E l’impresario dottamente risponde a Lelio: « Non le disprezzo: le lodo, le stimo, le venero, ma non sono al caso per me. I Francesi hanno trionfato nell’arte delle commedie per un secolo intiero. Sarebbe ormai tempo che l’Italia facesse conoscere non esser in essa spento il seme de’buoni autori, i quali dopo i Greci ed i Latini sono stati i primi ad arricchire e ad illustrare il teatro. I Francesi nelle loro commedie non si può dire che non abbiano de’bei caratteri, e ben sostenuti; che non maneggino bene le passioni; e che i loro concetti non siano arguti, spiritosi e brillanti. Ma gli uditori di quel paese si contentano del poco. Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione ben maneggiata e condotta raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell’esprimere prendon aria di novità. I nostri Italiani vogliono molto più. Vogliono che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto; che quasi tutte le persone che formano gli episodj siano altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo d’accidenti e di novità; vogliono la morale mescolata coi sali e colle facezie; vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle; e solamente coll’uso, colla pratica e col tempo si può arrivar a conoscerle e ad eseguirle. » Questo discorso dell’impresario io ho qualche ragione di sospettare che il Goldoni l’abbia rubato a qualche autor francese, sostituendo solamente la parola Francesi alla parola Greci, e la parola Italiani alla parola Francesi. Checchè ne sia di questo mio sospetto, che non ho tempo adesso di verificare, dico che questo discorso, così come sta in questa scena, è della razza di quelli, che acquistarono tanta fama a quel ciarlatano impostore conosciuto pochi anni fa sotto il nome d’Anonimo; voglio dire che è uno di que’discorsi tanto più ammirati dal volgaccio quanto meno intesi. Il volgaccio nostro, oltre alla sua ignoranza crassa, e disattenzione somma, non può aver idea del teatro francese, e sentendosi entrar nell’orecchio tutto questo sonoro gergo, apre tanto d’occhi e di bocca, ed ammira come cose stupende il trionfar dell’arte; il seme spento; l’illustrar il teatro; i buoni autori greci e latini; i concetti arguti e brillanti; i caratteri ben sostenuti, forti, originali e conosciuti; la passione ben maneggiata; la quantità de’periodi; la forza dell’esprimere; gli episodj con l’intreccio mediocremente fecondo; gli accidenti con le novità, con la morale, co’sali, colle facezie, coll’uso, colla pratica e col tempo. » Come ha da fare il povero volgaccio a resistere contro un Goldoni che lo innonda con tanta sapienza teatrale! Ma, volgaccio, volgaccio, se tu sapessi quante bestialità sono contenute in queste poche da te ammirate righe, e qual vantaggio cavi questo secondo anonimo dalla tua crassa ignoranza, tu t’anderesti a seppellire per vergogna! Se il Goldoni avesse voluto, o, per meglio dire, se avesse saputo parlare con verità in questa scena avrebbe fatto parlare il suo impresario in questi termini. « Le commedie francesi piaciono alle colte udienze di Francia, perchè in esse molti individui francesi sono vivamente dipinti tali e quali come sono, e perchè in esse si criticano piacevolmente, e si mettono in ridicolo alcuni vizj e difetti che regnano in Francia. Le commedie francesi piaciono a quelle colte udienze, perchè sono scritte con pura ed elegante lingua; perchè ognuno abbonda di molti bei caratteri; perchè gli avvenimenti in esse sono naturali, la condotta semplice nel suo artificio, e lo scioglimento pur naturale ed inaspettato; in somma le commedie francesi piaciono a quelle colte udienze perchè sono buone commedie. Ma chi vuole piacere con una commedia al grosso del popolo italiano, che in tutta Italia è incolto e pieno d’ignoranza della più crassa, bisogna che prenda in prestito molte volte dalle commedie dell’arte gli Arlecchini, i Brighelli, i Pantaloni, e i Dottori, e che li frammischi coi Turchi dotti, coi Persiani galanti, con gl’Inglesi taciturni, coi Tedeschi briachi, coi Francesi matti, cogli Spagnuoli millantatori, e genealogisti. Bisogna che una commedia italiana ribocchi di quelle buffonerie che si usano dalla più vil canaglia; che in essa i cavalieri e le dame parlino come parlano le più sciocche e più affettate commedianti e virtuose di teatro; che non sia scarsa d’equivoci ribaldi, e di gesti osceni; che dia delle botte frequenti alle donne, e che metta sempre in ludibrio il matrimonio. Bisogna che in una commedia que’cavalieri, e quelle dame anch’esse, minaccino sempre di far ammazzare, o di far bastonare: che tutti gli accidenti sieno sempre contro natura e da romanzo: che non si lasci mai ben distinguere dall’udienza tra la virtù e il vizio, sostituendo quasi sempre uno all’altra, e l’altra all’uno. Bisogna che la lingua non sia mai buona toscana e grammaticale, perchè il popolo non impari mai a parlare con eleganza; ma bisogna che sia un miscuglio pazzo di frasi veneziane, e lombarde, e romagnuole, malamente toscaneggiate. Con queste ed altre simili avvertenze (ha da dire un impresario che parla dalla scena) si fanno sicuramente batter le mani a tutte le nostre udienze. Sopra tutto non bisogna mai aver paura dei critici; perchè i critici primieramente in Italia son pochi; e que’ pochi, quando volessero fare i permalosi, si trova poi facilmente il modo di farli tacere, ricorrendo a qualche protettore, o a qualche protettrice. » Ma ecco qui fra gli altri spiritosi concetti di Colombina, un suo bel soliloquio pieno di buona morale. « Povera signora Rosaura, povera la mia padrona! Che cosa mai ha che piange e si dispera? Eh lo so ben io cosa vi vorrebbe pel suo male! Un pezzo di giovinotto ben fatto che le facesse passare la malinconia. Ma il punto sta che anch’io ho bisogno dello stesso medicamento. Ma de’miei due amanti, Brighella è troppo furbo, Arlecchino è troppo sciocco. Col furbo starò male di giorno, e collo sciocco starò male di notte. » Padri e madri, affrettatevi a condurre le vostre innocenti figliuole a sentire le Colombine del Goldoni, che ha riformato il costume corrotto del teatro italiano! Sentiamo ancora un altro bel pezzo di buona morale, che il Goldoni ci dà per suo in una scena del terz’atto, e che è in versi. È un padre che parla alla figlia vogliosa di maritarsi. « Figlia, che mi sei cara quanto mai Dir si possa, e per te sai quanto ho fatto: Prima di vincolarti col durissimo Laccio del matrimonio, ascolta quanti Lesi trae seco il conjugal diletto. Bellezza e gioventù, preziosi arredi Della femmina, son dal matrimonio Oppressi e posti in fuga innanzi al tempo. » Ci dica un poco il Goldoni, come si fa « a mettere in fuga, e a opprimere i preziosi arredi? » che belle metafore! Tiriamo innanzi. « Vengono i figli: oh dura cosa i figli! Il portarli nel seno, il darli al mondo, L’allevarli, il nutrirli son tai cose Che fanno inorridir! Ma chi t’accerta Che il marito non sia geloso, e voglia A te vietar quel ch’egli andrà cercando? Pensaci, figlia, pensaci; e poi quando Avrai meglio pensato, sarò padre Per compiacerti, come ora lo sono Per consigliarti. » Ecco come gli autori del nuovo stile e delle moderne commedie di carattere sbagliano il vizio per virtù, come ho già additato. Il Goldoni, che in mille luoghi delle sue commedie ha questo difetto in comune coll’altro poeta Chiari, di voler fa-re il filosofo e il moralista senza avere studiata nè la morale nè la filosofia, e che, come il Chiari, non distingue mai netto tra il bene e il male, vorrebbe qui distogliere le fanciulle dal pigliar marito, suggerendo ad esse che in conseguenza di quel durissimo laccio del matrimonio resteranno poi gravide, porteranno con grave incomodo i figli nell’utero per nove mesi, e li partoriranno poi con dolore, e saranno poi obbligate allevarli e a nutrirli, cose che lo fanno inorridire, come se avesse da partorire egli stesso. E per sopraccarico di malanni una fanciulla può anche per sua disgrazia pigliare un marito dissoluto, che ami andare adulterando in qua e in là, senza voler permettere che la moglie faccia altrettanto. Ma cosa vorrebbe il Goldoni che le nostre fanciulle facessero in vece di maritarsi? Vuol egli che muojan tutte vergini? E non ved’egli che se queste sue perverse insinuazioni alle fanciulle prevalessero mai ne’paesi dove dalle scene predica così stoltamente, que’paesi rimarrebbono presto spopolati e deserti? Ed è egli tanto cieco della mente, tanto poco iniziato nelle conseguenze della costituzione di questa nostra umanità, che non sappia ancora, come in ogni condizione è forza che ogni donna abbia anch’essa i suoi guai come ogni uomo? Non sa egli che la virtù consiste non nel cercare di fuggire i mali che sono inevitabili, e che non si possono in alcun modo fuggire, perchè annessi dal Creatore all’umana condizione; ma che la virtù consiste nell’incontrarli con forte animo, nel minorarli colla prudenza e nel soffrirli con pazienza e con rassegnazione? E non sa egli che il matrimonio è ordinato dalla natura, e istituito da Dio? Non sa egli che le donne bisogna che soffrano la gravidanza e il parto, come gli uomini bisogna che soffrano la fatica del guadagnar il pane a se stessi e alle loro famiglie col sudore del lor volto? Non sa egli che se il matrimonio ha le sue spine, anche il celibato non è tutto sparso di rose? Non sa egli che i figliuoli, se sono ben educati, sono un piacere ineffabilissimo de’genitori, e un sostegno, e un conforto della loro inevitabile vecchiaja? Chi scrive per dissuadere alcuno da un prudente matrimonio secondo il suo stato, merita il titolo francese d’Empoisonneur public, e non di riformatore del corrotto teatro, e de’costumi corrotti, che sono titoli dati dall’ignorante canaglia, la quale di rado sa quel che si dica. Basti così per oggi; e il Goldoni mi scusi se non approvo nulla in questa sua prima commedia, perchè davvero la trovo tutta balorda e tutta cattiva dalla pri-ma sino all’ultima parola. Può darsi che sulla scena faccia bell’effetto all’occhio, ma sotto l’occhio a chi la legge fa troppo cattivo effetto. Se i suoi ammiratori che non son volgo, invece d’andarla a sentire a teatro la leggeranno nel loro gabinetto, son sicuro che confesseranno di essere stati abbagliati dalla rappresentazione scenica, la quale non lascia mai rifletter bene e posatamente, massime se gli attori sono buoni. Intanto io anderò successivamente esaminando una dietro l’altra, se avrò tanta pazienza, tutte le produzioni comiche di questo tanto celebrato poeta, e se troverò in alcuna d’esse qualche cosa di buono, torno a dire che batterò anch’io le mani, e le farò battere al mio don Petronio nel leggerle con esso. Ma ho gran paura che tutte sieno frivole, stravaganti, e perniciose al mio prossimo, e che avrò da menar la Frusta sino al fine del quarantesimo tomo addosso a chi finisce di guastar la testa e il cuore de’tanti stolidi e scostumati miei compatriotti. Mille diurne osservazioni ne dovrebbero convincere, che di cento buoni consigli spontaneamente dati, appena uno è ricevuto con pazienza e con gratitudine. Sapete perchè? Perchè chi consiglia altrui senza esserne ricercato, è per lo più indotto dalla propria superbia a così fare, ed essendo noi tutti naturalmente superbi per la funesta forza di quel primo peccato che abbiamo miseramente redato da’ due progenitori dell’uman genere, mal volentieri soffriamo che altri ne vinca in superbia, anche momentaneamente, come è per lo più il caso de’spontanei consiglieri, che, per un momento almeno, appajono essere dappiù di noi, se non in realtà, almeno nella vana loro opinione. Pogniam caso che Tizio stia sforzandosi di parlare il meglio franzese che sa col suo maestro, e che Sempronio entri mentre il maestro e lo scolare stanno cinguettando. Sempronio sente che Tizio zoppica nella pronuncia d’un vocabolo, e subito lo vuol correggere, invece di lasciarlo correggere dal suo maestro. Pogniamo anche caso che Sofronia stia mercantando un bel merletto di Malines o di Dresda, e che mentre sta per chiudere il patto colla merciaja entri Erminia. Erminia vede l’errore che la povera Sofronia sta per commettere, e subito la consiglia ad attenersi a quest’altro merletto di Brusselles o di Honiton, perchè più di moda e di miglior gusto. Crede mo Sempronio, che l’amico Tizio sia così gonzo da non capire che quel suo veloce suggerimento intorno alla pronunzia di quel vocabolo franzese, fu effetto d’un superbo desiderio di comparire più dotto di lui nella lingua franzese? E crede mo Erminia, che Sofronia sia sì semplicetta da non conoscere che la preferenza data a’ merletti d’Honiton e di Brusselles su que’ di Dresda e di Malines isvela una occulta pretesa d’aver miglior gusto di lei in fatto d’ornamenti femminili, e d’intendersi delle mode più di lei? Senza esemplificare davvantaggio questo smoderato e inopportuno orgoglio de’consiglieri volontarj, io Aristarco Scannabue prego tutti que’Sempronj, e tutte quelle Erminie, che si mostrano meco sì liberali di non richiesti consigli intorno alla Frusta, ad esserne un po’ più parchi in avvenire, perchè io Aristarco Scannabue so benissimo quello che pronuncio, e quello che compro; nè amo troppo che le signorie loro si facciano belle con pregiudizio del mio sapere e del mio discernimento. E non serviva che il dotto e veemente sig. Zoilo mi scrivesse triplicatamente per raccomandarmi di dare quattro buone frustate alle Raccolte, perchè a dirgliela, questa usanza di fare delle raccolte in certe solenni occasioni, in vece di dispiacermi, mi piace anzi moltissimo. Io vorrei solamente che questa usanza di fare delle raccolte fosse, come ogni altra cosa nostra, diretta dalla ragione; e a me basterebbe che i raccoglitori non le componessero tutte di versi, ma sibbene metà versi e metà prose. I versi potrebbero per mo’ di dire, adoperarsi a celebrare il sangue, le ricchezze, la sapienza, il valore e l’altre vere o sognate doti de’padri, degli avi, e de’bisavi di colui o di colei per cui si fa la raccolta. Ma le prose vorrei che contenessero poi qualche cosa di più sostanza, e che servissero per dare a quel colui, o a quella colei qualche buon documento. In una raccolta per nozze, esempligrazia, perchè non si potrebbe aver qualche teologale dissertazioncella sulla santa istituzione del matrimonio? Qualche discussione filosofica sulla legittima propagazione del genere umano? Qualche bella predichina su i doveri di chi s’accinge ad esser marito, o di chi si suol avventurare ad esser madre? E anche qualche bizzarra e lepida anatomica diceria sul dolce palpitare dell’innocente cuore d’una tenera verginella, che cambia la donzellesca ritiratezza col trambusto del gran mondo? Cento e mille cosuccie di tal fatta potrebbono riuscire di giovamento grande a due conjugati, e dilettare istruendo anche qualche leggitore più assai che nol dilettano e non l’istruiscono i bene intagliati fregi e le auree coperte d’una raccolta fatta secondo la presente usanza. Ma perchè non paja che anch’io ho la superbia di consigliare disgiunta dalla voglia di operare, ecco qui leggitori una mia lettera scritta ad uno sposo, che mi prega di qualche mia composizione per ornamento, dic’egli, della sua raccolta sposereccia. Lettera di Aristarco Scannabue al novello sposo. « Sposo adorato. Ho letta la Cleopatra, la Cassandra, l’Artamene, e cento altri libri abbondanti d’espressioni amorose; ma non v’è amorosa espressione in alcuno d’essi atta a spiegare il centesimo di quell’affetto che la vostra gioventù, la vostra maschil presenza, la vostra grazia, e i nobili costumi vostri hanno acceso nel-l’anima mia. Ora però che siamo due in una carne, e che la novità del nostro stato ha reso voi felice nell’amor mio quanto io lo sono nel vostro, permettetemi, adorato sposo, ch’io versi liberamente nel vostro seno alcuni miei segreti pensieri, e ch’io vi dica alcune coserelle veramente di poca importanza; dalle quali però può dipendere la nostra mutua contentezza in questo mondo, e fors’anco la nostra interminabile gioja nell’altro. Quando s’avvicinò, adorato sposo, quel sospirato momento che da voi mi fu dato il matrimoniale anello, io mi proposi fermamente d’amarvi per sempre; e per me credo poche sieno le fanciulle che in tal punto s’abbiano altro pensiero, e che sen vadano al sacro altare meditando sfoghi d’illecita concupiscenza. Io mi proposi in quel punto di fare costantemente il possibile per meritarmi sempre la continuazione di quell’affetto che mi promettevate allora così solennemente; cioè a dire d’amarvi sino più de’genitori da’quali son nata, e più degli stessi figliuoli che di voi mi nasceranno. Quantunque giovinetta, io conosco, adorato sposo, la cattivezza del secolo, e m’aspetto bene che più d’uno e più di quattro saranno o pretenderanno essere innamorati di me, tosto che saranno passati questi pochi giorni di sposereccio tumulto, e tosto che sa-rà calmato lo stupore della mia nuova situazione. So che più d’uno de’vostri più cordiali amici non lascerà fuggir occasione di dirmi in privato cose dolci, cose lusinghiere, per bellamente indurmi a rompere la matrimonial fede; e so che assai pochi si faranno scrupolo di rubarvi il cuore della vostra sposa, e di contaminarlo, e di guastarlo affatto. Chi verrà via con parole umili; chi con aspetto languente; chi con doni; chi con procurarmi passatempi; chi con discorsi liberi; chi con oscene filosofie; e chi con altri iniqui modi. Ma io starò salda, sposo adorato, starò salda come una torre di bronzo, e non solamente sfuggirò la compagnia e la vista di chi farà solo cenno di corrompere l’onestà mia; ma quando la sera avremo entrambi il capo sul guanciale, vi farò noti tutti i rigiri e tutti gli stratagemmi di que’ futuri furfanti. Siccome però il Dimonio è sottile, e la carne fragile, e il desiderio di vendetta in cuor di donna potentissimo, sarà necessario che voi, adorato sposo, cooperiate anco dal canto vostro a conservare la mia purità, con fare anche voi qualche cosa per una moglie, che in queste prime ore di matrimonio si propone sinceramente d’amarvi nel prefato modo. Bisognerà dunque che voi non vi mettiate a far il vezzoso con altre donne, e se mai v’abbatteste in alcuna che vi desse nel genio un pochino, bisognerà che non v’ingolfiate impercettibilmente nell’amor suo, perchè questo sarebbe farmi un di quegli affronti che poche mogli hanno cristiana virtù abbastanza per soffrirli con flemma. Bisognerà, sposo adorato, che a dispetto dell’ostinata moda, non vi vergogniate mai di trovarvi meco anche in pubblico, e bisognerà che in ogni occasione non abbiate rossore di confessare che mi volete bene, quantunque tal confessione esponga qualche volta un marito al sorriso degli sciocchi e degl’insensati. Bisognerà che non soltanto v’astegniate dal fare il cicisbeo e il cavalier servente, anche con intenzione di passare semplicemente il tempo, ma che vi guardiate bene dal non tenermi sempre ferma nell’opinione d’essere da voi preferita, anche dopo il primo mese di matrimonio, a tutte le creature della mia spezie. Bisognerà che non mi accarezziate tanto da straccarvi, per evitare il pericolo di rendere esausto il fonte dell’amor vostro, e bisognerà che mi mostriate sempre d’avere per me un certo domestico rispetto che piace alle donne d’animo delicato forse più dell’amore impetuoso e violento. Bisognerà che vi guardiate bene dal mostrar mai il minimo dispregio o pel corpo mio, o pel mio intelletto, ma che vi contentiate che rimangano entrambi come gli avete trovati. Bisognerà che non m’induciate mai o con parole o con atti a pensarvi capace di cosa vile, che la fortezza d’animo e l’alterezza di mente sono le cose che più rendono gli uomini cari alle donne ragionevoli e sensibili, come credo d’esser io. Bisognerà che mi convinciate sempre della tenerezza vostra verso il genere umano, e della vostra prontezza in fare a chi lo merita quanto bene sarà in vostro potere di fare. Ho osservato più volte, che voi altri poeti più di tutti gli altri uomini, siete sagaci, e conoscete meglio degli altri le sorgenti, dalle quali derivano i pensieri e gli affetti umani. Fate buon uso della vostra sagacità, marito mio poetico, e fabbricate voi dalla vostra parte la felicità mia, che io mi studierò costantemente di fabbricar la vostra. Soprattutto ricordatevi che le mogli non sono tutti i dì come il dì delle nozze, e che in quest’orbe sublunare i beni sono sempre misti a’mali, come i mali sono sempre misti a’beni; onde se anderete scoprendo nella moglie qualche difetto che non poteste trovare nell’innamorata, non vi scordate nemmeno d’osservare, che nella moglie avete anche scoperta qualche buona qualità che non avevate ancora nell’innamorata scoperta. Così facendo e avvertendo è probabile che passeremo allegra-mente insieme alcuni anni. Scusate la franchezza che il mio amore m’inspira, e siate persuaso persuasissimo che non sarò la prima ad interrompere il corso delle nostre presenti contentezze. Addio. » Di voi sposo adoratoLa innamoratissima e fedeliss. sposa Aristarco Scannabue. Lettera d’un professore dell’università di Torino ad Aristarco. Suppongo, signor Aristarco, che anche voi abbiate letto l’Emilio di monsù Rousseau, e che voi pure abbiate scorto di quanto impetuoso fanatismo ribocchi. L’eloquenza violenta di questo scrittore ha pur troppo la funesta possanza di abbagliare i leggitori comunali; e siccome questi formano dappertutto il numero maggiore, m’è venuto in pensiero di mandarvi un libro pubblicato pur ora qui, e intitolato Réflexions sur la Théorie et la Pratique de l’Éducation, contre les Principes de monsieur Rousseau, acciocché giudicandolo a proposito, ne diate notizia a tutta Italia col mezzo del vostro periodico foglio, che, per quanto sento, comincia ad essere per tutta Italia visto di buon occhio, come già lo è in questa nostra studiosa città. L’autore di queste Riflessioni è un re-ligioso Benedettino, che non occorre nominare, poichè egli stesso non ha voluto porre il suo nome in fronte all’opera sua. Basta che con questo egli confuta in modo schietto ed evidentissimo le numerose false massime, e posizioni di questo vertiginoso sofista: massime, e posizioni di tendenza troppo perversa, poichè mirano a sconquassare e a porre sossopra ogni ordine civile ed ecclesiastico. Eccovene qui alcune delle principali: « Gli uomini hanno guasto il mondo con le loro istituzioni. « L’uomo non debb’essere allevato nè per la spada, nè per servire alla chiesa, ma unicamente per se stesso. « Non v’è più nel mondo un vero cittadino, che tanto vale, quanto dire: Non v’è più nel mondo un solo uomo virtuoso o dabbene. « Agli uomini sintanto che non hanno diciott’anni, o almeno quindici, non s’ha a insegnare la minima cosa, nemmeno a pronunciare il nome di Dio, perchè gli uomini prima di tal età non sono punto atti a ricevere idee, e molto meno a combinarle. « Il principe ne dovrebbe permettere di ammazzare a tradimento chi ne dà uno schiaffo, o una mentita, o che ne fa qualch’altra simile ingiuria, perchè le leggi civili non ne possono sufficientemente vendicare di siffatte ingiurie. » La falsità, anzi pure la perfìdia di queste, e di molt’altre tali massime e posizioni, sarebbe agevolmente discernibile anche da ogni più sciocco leggitore, se Rousseau non le avesse avvolte in un immenso turbine d’eleganti parole, e di vivacissimi modi di dire; anzi pure s’egli non facesse un perpetuo gabbo altrui con quel suo tanto decantato tenerissimo amore alla virtù ed alla società. Come possiam però noi, Aristarco, essere persuasi ch’egli ama la virtù, se per suo dire non v’è più nel mondo un sol uomo virtuoso, e s’egli è sicuro che la società è stata tutta guasta dalle sue proprie istituzioni? Non sono queste contraddizioni palpabili? Fallacie manifestissime? non è questo un soffiare caldo e freddo a un tratto? Ma tale, Aristarco mio, è il nuovo gergo d’assai moderni filosofanti di Francia. Chi loro credesse! Eglino sono ferocemente innamorati dal general complesso degli uomini: ed è questo loro sbardellato amore, e non la vanità di passare per magni sapienti, che mette loro la penna fra le dita, e che fa loro scrivere e stampare i loro maravigliosi sistemi d’universale riforma. E un leggitore comunale, che sa in prova di non avere un cuore suscettibile d’un affetto così vastamente esteso, non considera che questo sbardellato amore al general complesso degli uomini non è possibile in natura, e che per conseguenza chi lo professa è un vano millantatore, che tanto vale quanto dire un mentitore; ma si lascia come un goffo rapire e portar via da quella chimerica idea d’un amore sbardellato sbardellatissimo; ammira dirottamente colui, che assicura con tutta solennità di non sentirsi in seno amore d’altra fatta; e in conseguenza di quella sua sciocca ammirazione, s’affeziona tanto a un tale amante universale, che adotta presto per vere tutte le sue false ragioni; nè ha ancora finito di leggere uno de’suoi tomi, che si trova sprofondato tutto nel suo ingannevole sistema. Per rischiarar dunque un po’ la mente a questi leggitori comunali, il nostro Benedettino ha scritte le sue Riflessioni sulla Teorica e sulla Pratica dell’Educazione contro il Sistema di monsù Rousseau. Raccomandatelo, Aristarco, a tutti que’nostri paesani, che hanno letto l’Emilio, e pregateli di leggerle attentamente, anzi di notare nel margine d’esse tutte quelle obbiezioni, che la loro logica andrà loro suggerendo agli argomenti del padre Benedettino. Io son certo che, così facendo, si porranno tutti facilmente in istato di salvare le loro immaginazioni e il loro intelletto dall’influenza di quel sottile veleno, che Rousseau ha la malefica arte d’introdurre insensibilmente in chiunque non è a sufficienza fornito di filosofia. State sano. A questa lettera io non posso aggiunger altro, se non che mi duole assai il vedere tanti miei compatrioti correr dietro con sì grande smania, come dappertutto fanno, alle nuove filosofie di questo Rousseau, di Voltaire, di Elvezio, di Montesquieu, di d’Argens e d’altri tali scompaginatori della mente umana. Ma so che predicherei al deserto, predicando alla turba de’nostri prosuntuosi filosofantelli d’astenersi affatto da sì perniciose letture, che riescono pur troppo dilettevoli a tutti coloro, i quali sono solo superficialmente saputi. Mi sia però permesso d’inculcar loro almeno il salutifero consiglio del professore di Torino, cioè che dopo d’aver letto quel velenoso Emilio, leggano anche queste antidotali Riflessioni del padre Benedettino. Questo padre, senza mostrarsi fanaticamente innamorato del complesso generale degli uomini, gli ajuta a difendersi da’fallaci argomenti di quel furibondo Ginevrino. Egli non lascia passare alcuna matta opinione del primo tomo dell’Emilio senza mostrarne apertamente la mattezza. Chi però s’accingerà con buona fede alla lettura di queste Riflessioni, seguendo il savio cenno del professore di Torino, non le legga di volo, come si leggono i romanzi, ma le tras-corra con la penna in mano, e noti dove gli pare, che le massime e le posizioni di Rousseau sieno ben confutate, e dove no. Io do il consiglio ad altri che ho preso per me stesso, ond’è, che dopo d’averle così posatamente lette tutte, una sola ne ho trovata che non mi quadra a sufficienza; ed è questa, posta a pagine 45: « Ce n’est pas que les hommes naissent méchans. Si cela étoit, la somme des actions injustes surpasseroit infiniment dans tout un Peuple la somme des actions humainement justes; au lieu que la somme de celles-ci est toujours incomparablement supérieure à la somme des autres; sans quoi nulle société pourroit subsister ». A questa riflessione o opinione del Padre Benedettino io non posso sottoscrivermi. Le azioni ingiuste d’ogni uomo, pigliando gli uomini all’ingrosso sono ogni dì più numerose che non le sue azioni giuste. Quasi tutti i potenti, i ricchi, i padroni adoprano ogni dì, ogni ora, ogni momento che possono, i vizj dell’alterigia, della prepotenza, della durezza d’animo, del disprezzo e della tirannia verso i deboli, i poveri, i dipendenti, esercitando molto di rado la virtù a tali vizj contrarie; e quasi ogni debole, ogni povero, ed ogni dipendente guarda con occhio gonfio d’invidia e di malignità il potente, il ricco e il padrone; senza con-tare il dispetto e il maltalento, e il falso o proditorio operare de’grandi fra di essi, che non cede in nulla a quello con cui i piccoli si travagliano mutuamente. Quasi tutti i vecchj o cercano soverchiare i giovani, o danno loro mille mali esempj, e quasi tutti i giovani detestano o dispregiano i vecchi. E che dirò delle tante bugie, e delle innumerevoli giornaliere fraudi di tanti mercanti, e artieri, e bottegaie di chiunque professa questa e quell’arte, o questo e quel mestiero? E che della impurità di tanti amanti, o del cipiglio impostore di tanti letterati? Che dirò in somma della negligenza, della infingardia, della balordaggine e della ignoranza di quasi tutto l’uman genere, quotidiane produttrici d’infinite azioni ingiuste? Giovenale disse che i buoni non oltrepassavano il numero delle porte di Tebe e delle bocche del Nilo, esagerando certamente come i poeti sogliono sempre fare; ma noi possiamo ben dire senza esagerazioni da poeta, che l’esser giusto è un mestiero de’più difficili da apprendere, quando veggiamo che tra le nazioni barbare, egualmente che tra le nazioni non barbare, tutti gli uomini studiano e s’affaticano per convertire il tuo in mio, tosto che si credono aver bastevoli forze per farlo, opprimendosi ed assassinandosi talor più talor meno, secondo le opportunità, quando le naturali inclinazioni loro non vengano di buon’ora in essi represse, e indirizzate alla virtù da una buona educazione. La signora Bergalli Gozzi, le di cui poetiche composizioni scintillano spesso di filosofici lampi, ha in un suo dramma burlesco espresso con molta felicità quanto il mestiero dell’esser giusto ne costi, con quest’arietta: « Ognuno sa fare il mal da sua posta: far bene gli costa fatica e sudor. Lo deve imparare; poi metterlo in opra: poi forse l’adopra ad onta del cor! » Così opera la natura umana dappertutto, e costantemente. E perchè? Perchè è corrotta originalmente. Nè basta anche l’educazione a reprimerla, e a raddrizzarla, che l’educazione ha pur duopo del vil sussidio delle carceri, delle galee, delle forche. E se la società sussiste quantunque gli uomini sieno alla giornata quasi tutti colpevoli d’azioni ingiuste, sussiste perchè non tutte quelle azioni ingiuste sono del genere atroce e struggitivo; e poi sussiste, perchè senza società alcuna gli uomini tutti perirebbero, appunto per quelle ragioni dette con tanta chiarezza e con tanta forza dal nostro Padre Benedettino in tutti que’luoghi dove combatte le strane affermazioni di monsù Rousseau contro le società colte, e in favore delle società barbare, alle quali questo stemperato filosofante dà sempre bestialmente la preferenza, e fra le quali non farebbe male a rifugiarsi, senza star più a guastare co’suoi libri troppi individui maschi e femmine delle società nostre. Dissertazione sopra le leggi civili, e metodo di studiarle e d’insegnarle, di Jacopo Crescini. In Venezia 1760, presso Giambattista Recurti, in 8.o A dispetto dello stile un po’ troppo trasposto e sparso d’alcuni franzesismi, questa Dissertazione non m’è spiaciuta. L’autor suo si mostra con essa assai versato in tutte le parti della giurisprudenza, nè si può negare che non abbia speculato assai sull’adattamento delle leggi a’casi che giornalmente intravvengono, e più ancora sulla naturale unione della giurisprudenza con altre scienze. L’incorporazione con essa della storia, della politica, della fisica, della metafisica e della teologia fu accennata dal gran Bacone; e il signor Crescini ha dottamente spaziato sul cenno di quel massimo filosofo, dandogli tanta estensione che basta per renderne la ragionevolezza evidentissima. I giovani stu-diosi delle leggi civili seguendo il metodo proposto in questa breve, ma sugosa operetta, si accorcieranno di molto la strada all’acquisto d’un’idea chiara e precisa di quelle tante relatività, che fa d’uopo aver in mente molto precise e chiare, per potersi render atti al giusto governo de’popoli. Aristarco si dichiara sommamente obbligato al signor D. Jacopo Antonio Bartoli di Pesaro, per averlo avvertito d’un errore commesso nel Terzo Numero della Frusta, dove dice la Dama Cristiana « poteva aver il comodo di sentire due messe ogni dì nel suo privato oratorio »: non essendo stato mai ad alcun oratorio privato concesso il privilegio di due messe quotidiane. Osservisi tuttavia che la Dama, essendo ricca assai, e moglie d’un ministro di Stato, avrebbe potuto procurarsi un secondo cappellano che avesse avuto il privilegio di celebrare in un oratorio privato, e così « avere il comodo di sentire le due messe ». Aristarco però sarà sempre pronto a ringraziare chi lo rettificherà in qualche sbaglio che gli potesse fuggir della penna.