Il vecchio fortunato Giovanni Ferri di S. Costante Moralische Wochenschriften Alexandra Fuchs Editor Alexandra Kolb Editor Valentina Rauter Editor Institut für Romanistik, Universität Graz 19.12.2016

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Ferri di S. Costante, Giovanni: Lo Spettatore italiano, preceduto da un Saggio Critico sopra i Filosofi Morali e i Dipintori de’Costumi e de’Caratteri. Milano: Società Tipografica de’Classici Italiani 1822, 226-229 Lo Spettatore italiano 4 35 1822 Italien
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Il vecchio fortunato

Leontinus Gorgias centum et septem complevit annos,neque unquam in suo studio atque opere cessavit.Qui cum ex eo quaereretur, cur tamdiu esse velit invita: Nihil habeo, inquit, quod incusem senectu-tem. Praeclarum responsum et docto homine dignum!

(Cicer.).

Gorgia Leontino compiè cento e sette anni, nè maidallo studiare e dal faticar si rimase: ed egli sendo richiesto, perchè tanto tempo volesse starsene in vita: lo non ho, soggiunse, motivo da ripigliare la vecchiezza. Lodevole risporta e degna d’uom dotto!

La vecchiezza, diceva il savio Aurelio, quella parte della vita alla quale tutti vogliono pervenire, ma pochi la si possono aspettare, è da molti tenuta come il peggiore stato, e come l’imo fondo dell’abbandonamento e della tribulazione, dalla quale per la sola via di morte ci possiamo fuggire, e la paura medesima di questa ce ne fa vie più grave la noia. Altri reputano la vecchiezza come la meglio avventurosa età dell’uomo, come un termine nel quale si può dire che doppiamente si vive, potendo noi e del piacer presente, e di quel che la memoria ci ripresenta, godere. Per me, io m’accosto al discreto Cicerone che è del parere degli ultimi; perchè sento che io non sono stato mai così felice, come ora nell’estreme giornate della vita mi sono.

Io mi nacqui con piccola facultà, ma il mio onesto mestiere m’ha in poco tempo dal timor di povertà assicurato. Ora con un acconcio non grandissimo, ma ai bisogni miei sufficiente, come quello che a tener molta famiglia m’è buon provvedimento, mi son rivolto dalle faccende. E il mio mestiere non altro era che un collocare i miei studi e le fatiche a beneficio altrui. Nè per cosa del mondo io del piacer mi priverei che provo al terminar del mio corso, ricordandomi di tutti coloro a’quali io mi credo avere e con l’opera e con l’animo renduto servigio.

Mi accompagnai per tempo con una donna, la quale così per la bellezza come per li costumi è stata secondo il cuor mio. E quell’amore che ferventissimo fuoco ci fu, temperato affetto divenne, e dilettevole ancora, e crescente al crescer degli anni. Così la nostra cura e sollecitudine scambievole, e lo studio che a’nostri figliuoli abbiamo posto, hanno stabilito il bene della nostra vita; per la qual cosa un consorzio di tanto tempo ogni anno ci si è fatto più caro e più piacevole. Il primo mio figlio tiene ora quella professione ch’io lasciai. Oh quanto m’è dolce questa riuscita! quanto m’aggrada e mi contenta il vederlomi seguire gli ammaestramenti miei, e nella carriera procedere più oltre che io non aggiunsi! Ecco il vivere doppiamente. E ben mi posso io in verità tener quello che nei poemi d’Ossian era Morno; perciocchè la gente si è dimentica di nominarmi Aurelio, e solamente mi dicono il padre di Polimone.

Il mio minor figliuolo non è tanto innanzi; ma egli, quanto il fratello, e intendimento promette e bontà. Ho tre figlie: e non vengo mai a parlar di loro, che tenerezza e gratitudine non mi si facciano sentire. Egli è il vero che molti obblighi esse hanno a me e alla ottima madre loro, per l’educazione che abbiamo lor data; ma oh quanto bene il nostro amor guiderdonano, e come ci si vanno più e più obligando! Sono alcuni anni che ho la figliuola più grande maritata, la quale prima del maritaggio era la compagnia mia, e l’aiuto della madre. Li suoi pregi, e l’educazion ricevuta, e’l potere aver per moglie la figliuola di cosiffatta donna, com’è la mia Ortensia, le hanno procacciato un ottimo collocamento: ed a Ortensia ed a me gran consolazione è vedere la prima figlia nostra non essere da meno nella sua casa, che nella nostra siasi la madre. Dietro il matrimonio della maggiore è venuta la minore, ed al luogo di questa è salita la minima. Senza vanità di gloria posso affermare, Giulietta non valer meno che qualunque altri della famiglia mia: e mi porta un amore, il quale quanto io m’invecchio, tanto più se le aumenta; per modo che se alcuna noia della vecchiezza mi preme, per lo costei sollecito studio mi è alleggiata. E se mi si desse in arbitrio il ringiovanire e rinvigorirmi per tal convenente, che io dovessi e l’aiuto e le amorevolezze perdere di Giulietta, non so se ‘l farei.

Siamo accostumati ogni domenica di raunar tutta intorno a noi la famiglia. Io mi veggio innanzi e li figli e li nepoti miei alla medesima mensa ed al fuocolar medesimo: e la mia consorte ed io, in su la nostra antica sedia, siamo i capi della piccola brigata; e delle carezze e dei giuochi che ci fanno, prendiamo trastullo. Onde che questo giorno di qualunque travaglio o incomodo che per la settimana ci potesse essere incontrato, il che è di rado, ci rileva compiutamente, e ce ne fa dei tutto dimenticare. Di queste allegrezze noi moltiplichiamo i dì col festeggiare in casa l’anniversario così nostro, come dei nostri figli, e le altre solennità che per vecchia usanza ci ricorrono. Or chi potrebbe queste adunanze, le quali così della filial pietà come dell’amor paterno rendono testimonianza scambievolmente con tanto sollazzo e ricreamento, porre in non cale? E come è egli che agli uomini, essendo d’un sangue e d’un legame medesimo stretti, non piace e non diletta di ritrovarsi insieme? Ah! che da quando non si onorano più cosiffatte feste, surgono guerre che avvelenano le case, e li più soavi nodi recidono, e lasciano la vecchiezza deserta, e senza refrigerio morire.

Il vecchio fortunato Leontinus Gorgias centum et septem complevit annos,neque unquam in suo studio atque opere cessavit.Qui cum ex eo quaereretur, cur tamdiu esse velit invita: Nihil habeo, inquit, quod incusem senectu-tem. Praeclarum responsum et docto homine dignum! (Cicer.). Gorgia Leontino compiè cento e sette anni, nè maidallo studiare e dal faticar si rimase: ed egli sendo richiesto, perchè tanto tempo volesse starsene in vita: lo non ho, soggiunse, motivo da ripigliare la vecchiezza. Lodevole risporta e degna d’uom dotto! La vecchiezza, diceva il savio Aurelio, quella parte della vita alla quale tutti vogliono pervenire, ma pochi la si possono aspettare, è da molti tenuta come il peggiore stato, e come l’imo fondo dell’abbandonamento e della tribulazione, dalla quale per la sola via di morte ci possiamo fuggire, e la paura medesima di questa ce ne fa vie più grave la noia. Altri reputano la vecchiezza come la meglio avventurosa età dell’uomo, come un termine nel quale si può dire che doppiamente si vive, potendo noi e del piacer presente, e di quel che la memoria ci ripresenta, godere. Per me, io m’accosto al discreto Cicerone che è del parere degli ultimi; perchè sento che io non sono stato mai così felice, come ora nell’estreme giornate della vita mi sono. Io mi nacqui con piccola facultà, ma il mio onesto mestiere m’ha in poco tempo dal timor di povertà assicurato. Ora con un acconcio non grandissimo, ma ai bisogni miei sufficiente, come quello che a tener molta famiglia m’è buon provvedimento, mi son rivolto dalle faccende. E il mio mestiere non altro era che un collocare i miei studi e le fatiche a beneficio altrui. Nè per cosa del mondo io del piacer mi priverei che provo al terminar del mio corso, ricordandomi di tutti coloro a’quali io mi credo avere e con l’opera e con l’animo renduto servigio. Mi accompagnai per tempo con una donna, la quale così per la bellezza come per li costumi è stata secondo il cuor mio. E quell’amore che ferventissimo fuoco ci fu, temperato affetto divenne, e dilettevole ancora, e crescente al crescer degli anni. Così la nostra cura e sollecitudine scambievole, e lo studio che a’nostri figliuoli abbiamo posto, hanno stabilito il bene della nostra vita; per la qual cosa un consorzio di tanto tempo ogni anno ci si è fatto più caro e più piacevole. Il primo mio figlio tiene ora quella professione ch’io lasciai. Oh quanto m’è dolce questa riuscita! quanto m’aggrada e mi contenta il vederlomi seguire gli ammaestramenti miei, e nella carriera procedere più oltre che io non aggiunsi! Ecco il vivere doppiamente. E ben mi posso io in verità tener quello che nei poemi d’Ossian era Morno; perciocchè la gente si è dimentica di nominarmi Aurelio, e solamente mi dicono il padre di Polimone. Il mio minor figliuolo non è tanto innanzi; ma egli, quanto il fratello, e intendimento promette e bontà. Ho tre figlie: e non vengo mai a parlar di loro, che tenerezza e gratitudine non mi si facciano sentire. Egli è il vero che molti obblighi esse hanno a me e alla ottima madre loro, per l’educazione che abbiamo lor data; ma oh quanto bene il nostro amor guiderdonano, e come ci si vanno più e più obligando! Sono alcuni anni che ho la figliuola più grande maritata, la quale prima del maritaggio era la compagnia mia, e l’aiuto della madre. Li suoi pregi, e l’educazion ricevuta, e’l potere aver per moglie la figliuola di cosiffatta donna, com’è la mia Ortensia, le hanno procacciato un ottimo collocamento: ed a Ortensia ed a me gran consolazione è vedere la prima figlia nostra non essere da meno nella sua casa, che nella nostra siasi la madre. Dietro il matrimonio della maggiore è venuta la minore, ed al luogo di questa è salita la minima. Senza vanità di gloria posso affermare, Giulietta non valer meno che qualunque altri della famiglia mia: e mi porta un amore, il quale quanto io m’invecchio, tanto più se le aumenta; per modo che se alcuna noia della vecchiezza mi preme, per lo costei sollecito studio mi è alleggiata. E se mi si desse in arbitrio il ringiovanire e rinvigorirmi per tal convenente, che io dovessi e l’aiuto e le amorevolezze perdere di Giulietta, non so se ‘l farei. Siamo accostumati ogni domenica di raunar tutta intorno a noi la famiglia. Io mi veggio innanzi e li figli e li nepoti miei alla medesima mensa ed al fuocolar medesimo: e la mia consorte ed io, in su la nostra antica sedia, siamo i capi della piccola brigata; e delle carezze e dei giuochi che ci fanno, prendiamo trastullo. Onde che questo giorno di qualunque travaglio o incomodo che per la settimana ci potesse essere incontrato, il che è di rado, ci rileva compiutamente, e ce ne fa dei tutto dimenticare. Di queste allegrezze noi moltiplichiamo i dì col festeggiare in casa l’anniversario così nostro, come dei nostri figli, e le altre solennità che per vecchia usanza ci ricorrono. Or chi potrebbe queste adunanze, le quali così della filial pietà come dell’amor paterno rendono testimonianza scambievolmente con tanto sollazzo e ricreamento, porre in non cale? E come è egli che agli uomini, essendo d’un sangue e d’un legame medesimo stretti, non piace e non diletta di ritrovarsi insieme? Ah! che da quando non si onorano più cosiffatte feste, surgono guerre che avvelenano le case, e li più soavi nodi recidono, e lasciano la vecchiezza deserta, e senza refrigerio morire.