Numero XC Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-103-531

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 378-382 L’Osservatore veneto 1 090 1761-12-12 Italien
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N° XC

A dì 12 dicembre 1761.

Voi, e questi altri, che m’amate sano,Non mi chiamate di grazia Giovanni;Pur chi mi vuol chiamar, mi chiami piano.

M. Giov. Della Casa, Rim. Bur.

Io avrei proseguito ancora nel presente foglio co’dialoghi d’Ulisse e delle bestie se non m’avesse interrotto una lettera che ho ricevuta da Padova. Pregami chi la scrive con tanta gentilezza a pubblicarla, ch’io sarei scortese se non compiacessi chi me la manda; massime trattandosi in essa, come si vedrà, di salvare un certo onorato cognome da non so quali imputazioni che gli possono venir date a cagione di un cognome che ha le stesse sillabe e lo stesso suono che lo compongono; ma che per essere indosso ad un’altra persona, non è così forbito e netto come il primo. Nel che io non posso tralasciare di fare alcune poche riflessioni, secondo la usanza mia, ed entrare ne’santi penetrali della morale. Pare che al mondo nasca alcun uomo con tanta contrarietà di fortuna, che tutte le cose gli abbiano sempre a riuscir male a suo dispetto. Ne ho veduti a’miei giorni mille esempi. Ma questo è uno dei più strani e particolari. Ecci un uomo dabbene, il quale in vita sua ha procurato di arricchire il suo ingegno con gli studi, di vivere piuttosto solitario che altro, di mantenersi pochi e buoni amici, di far del bene a cui ha potuto sempre, e di guardarsi dalle male opere come dal fuoco. Voi direte: sia egli benedetto. Questi merita ogni lode e ogni bene: il nome suo dee esser detto altrui per esempio di una vita onorata. Indovinereste voi mai che questo così onesto e dabbene uomo viene di tempo in tempo assalito dalla maldicenza, a cagione di un altro che ha lo stesso cognome e non ha quella gran voglia di operar rettamente che ha egli? Questo caso gli è avvenuto più volte; e s’egli non avesse nome Paolo e l’altro Giambatista, gliene sarebbe forse accaduto peggio. Sicchè egli può dire che quel Giambatista sia il suo persecutore, il quale con le sue male azioni di quando in quando lo mette in bocca degli uomini, e fa dubitare del fatto suo per parecchi dì, finchè gli amici suoi, che lo conoscono, vadano vociferando per tutto: “Non è stato Paolo, non è Paolo, non fu Paolo, Paolo è galantuomo, Paolo lo conosco io, è uomo dabbene, gli è stato Giambatista va nel fondo. Con tutto ciò Paolo è stanco di aver a farneticare così spesso a cagione di cotesto Giambatista, e si duole a ragione che i cervelli del mondo, quando si tratta di dir male, si curino così poco della logica, che senza punto distinguere Paolo da Giambatista, si appicchino al cognome, e fatto di ogni erba fascio, attacchino a lui que’biasimi che vanno addosso all’altro, e senza altro conoscimento facciano una sola persona di due, e vogliano a forza che Giambatista sia Paolo, e Paolo Giambatista, quando si tratta di dir male. Ma è tempo che senza prolungare le mie riflessioni pubblichi la lettera di Padova.

Signor Osservatore.

Per quanto si cerchi d’illuminare gli uomini, s’incontra tuttavia, anche a’tempi nostri, come nell’età più goffe e dalle tenebre dell’igno-ranza coperte, certuni i quali si lasciano condurre alla trappola e agl’inganni con grandissima facilità. E sempre ci sono astutacci e tristi che si vanno aggirando giorno e notte per trovare genti di buona pasta che prestino fede alle loro ciance e cadano nella rete che hanno loro apparecchiata. Noi abbiamo qui in Padova un buon uomo di oste, a cui a questi dì è avvenuto con suo gran danno di prestar fede a tre barattieri, i quali gli diedero ad intendere che nella cantina della sua casa vi avea un certo tesoro sotterrato, e custodito non so se da diavoli o da altro. Il buon uomo preso dall’amo di un interesse in aria, parendogli già di noverare, anzi pur di misurare gli zecchini a staia, non poteva vivere se non si ritrovava co’tre compagni a ragionare della sua fortuna: e non gli parea di poter tanto durare, che vedesse a risplendere quell’oro, di cui con le parole gli aveano riempiuta l’immaginazione. Ma essi che sapeano tutti i punti dell’arte, ora gli davano ad intendere che le costellazioni non erano ancora a segno, e talvolta gli faceano udire certi rumori per casa da far ispiritare le genti; e oggi con un artifizio, domani con un altro, gli ravviluppavano sempre più la fantasia; tanto ch’egli avrebbe creduto che non risplendesse il sole, piuttosto che dire: “Nella cantina mia non è il tesoro ch’essi compagni mi affermano.” Essi, per confermargli e conficcargli sempre più nella testa questa opinione, una notte segretamente, dopo diversi apparecchiamenti, lo fecero scendere nella cantina, dove in una pentola ardeva un certo fuoco verdastro chiaro con loro artifizi composto; e tanto fecero visacci e l’intrattennero con parole e baie, che finalmente la materia posta nella pentola si consumò, e andativi sopra con mille ciurmerie, fecero trovare all’oste in fondo a quella due doble. Pareva già all’oste di essere Mida o Creso, e ardeva d’impazienza di scoprire il tesoro intero, ma vi mancava molto tempo ancora; imperciocchè non erano venuti i punti favorevoli delle stelle, nè si avea tutto fatto acciocchè gli spiriti fossero ubbidienti. “L’oro chiama oro,” dicevano essi. “Qui si vuole mettere insieme una somma di quattrocento zecchini.” – “Oimè,” diceva l’oste, “io non gli ho;” e rispondevano i ciurmadori: “Noi per nostra porzione del tesoro ve ne porremo cento, e ci darai la quarta porzione del tesoro, e ci farai quel vantaggio più, che a te parrà che meritino i nostri pensieri e le fatiche.” – “Bene,” dice l’oste, “e così sarà fatto.” Escono tutti lieti, l’oste pel tesoro, gli altri pel deposito che avea a farsi. Buona notte di qua, buona notte di là. L’oste incomincia a fantasticare in qual forma abbia a premere da tutte le facoltà sue trecento zecchini. In pochi giorni vende quanto ha di argento, di grani, di vino e di ogni cosa, tutto a buon mercato. Egli sel vedea; “ma che?” diceva fra sè, “io non ho mai venduto sì caro. Questa è la più grassa investita che uomo possa fare. L’argento mio fra poco sarà cambiato in oro, ogni granello di biada e ogni gocciola di vino sarà una dobla; e io avrò in breve terminato di esser oste.” Così dicendo e facendo, ecco ch’egli ha accumulate le monete richieste dagli spiriti; e va a’truffatori dicendo: “Quando voi vedete, ogni cosa e in pronto.” – “Tu hai fatto da valentuomo,” rispondono essi; “noi abbiamo il restante. Quel che si ha a fare, si faccia; perchè le stelle vanno avanti, e noi già siamo presso che a’punti stabiliti. Ma vedi bene sopra tutto, che mai di tal cosa non ne uscisse sentore nel volgo; sarebbe rovinata ogni faccenda, e chi sa che non ne andasse in fine in fuoco e fiamme la casa.” Così detto, vanno insieme in una stanza, la rinchiudono, e cominciano a noverare. Uno de’ciurmadori cava fuori una borsa di pelle, e in essa vengono seppelliti subito i quattrocento zecchini che doveano essere pastura de’diavoli. Chiudesi la borsa, vi si mette sopra un suggello. “Ora che se ne ha a fare?” dice l’oste. “Tu l’hai,” ripigliò uno, “a rinchiudere a chiave in una cassettina di queir armadio colà; io vado a Venezia, e di qua a otto giorni sarai avvisato da me per lettera di quello che tu debba fare dei danari. Ma vedi bene che tu non errassi; non aprir mai prima che tu abbi da me l’avviso; e fa’come io ti dico, perchè, se tu apri l’armadio e la borsa senza l’avviso mio, io ti prometto che tu avrai a piangere.” Fu riposta la borsa con gran solennità nell’armadio, e fatti certi brevi convenevoli, i tre ciurmatori se ne andarono a’fatti loro, e l’oste rimase colla fantasia, secondo l’usato, ripiena di zecchini. Intanto i giorni parevano all’uomo dabbene secoli interi, la notte non chiudeva mai occhi, e guardava nelle finestre se appariva il lume; il giorno ascoltava tutti gli oriuoli, parendogli che non sonassero mai, o guardava il sole quando calava verso il ponente; e tanto stette in questi pensieri, che passarono gli otto dì, nei quali non ebbe mai lettere nè avviso veruno dall’amico. “I punti delle stelle,” dicea egli, “non saranno a segno ancora. Che mai sarà? Non anderanno mai queste stelle dove le debbono andare? Oh come sono io sventurato! ho il tesoro in casa, gli cammino sopra co’piedi, e non lo posso adoperare. Quando mi scriverà l’amico? ma faccia egli. A lui son note le cose dei diavoli, io non le so, e mi conviene aver pazienza.” In tali pensieri passarono altri otto dì, e poi altri otto ancora, e finalmente si chiuse un mese che non vide mai lettera dall’amico. Comincia a temere, e non sa di che. Sentesi tentato di andare ad aprir l’armadio, ma teme del fatto suo. Dall’una parte la speranza del tesoro e la paura degli spiriti lo ritiene, dall’altra lo stimola il non avere più danari, nè roba. Non sa che farà. Passano i giorni, e sempre più il bisogno lo stringe. Va fino all’armadio risoluto, poi torna indietro, e lascia passare un altro dì; ma finalmente costretto dalle faccende sue, che andavano male, delibera al tutto di cavar fuori la borsa dicendo: “Se io non avrò più il tesoro, pazienza; dirò che tanta fortuna non era fatta per me, ma così non posso più durare.” Va avanti, che parea adombrato. Guardava ad ogni passo, se appariva fuoco in alcuna parte della stanza, gli parea che le travi si crollassero, avrebbe giurato che il palco gli cadesse sotto. Mette le chiavi nella toppa, non ardisce di voltarle. Se non che vedendo in fine ogni cosa quieta intorno a sè, fa cuore, volta e apre, vede la borsa, chiude gli occhi e l’abbranca con fretta, quasi che avesse a trarnela di mano agli spiriti, e gli cadevano i sudori dalla fronte come gocciole di pioggia. Mettesi tutto trambasciato a sedere, rompe tremando il suggello, scioglie la bocca alla borsa; ed oh! maraviglia e dolore, erano gli zecchini riposti divenuti pezzetti di piombo. Poco mancò che non si tramutasse in piombo anch’egli: così mutolo e freddo rimase: di là a poco parve che gli si aprissero gli occhi dell’intelletto; e vedendo che non fuoco, non rovine di casa e non altro male gli avveniva, conghietturò fra sè di subito che la borsa buona fosse stata cambiata, nel riporla, in una trista, e che i tre fossero, come in effetto erano, truffatori. Ricorse incontanente all’aiuto e alla tutela delle santissime leggi, e tanto fece che uno degl’incantatori fu messo in prigione, e confermò i nomi degli altri due, a’quali avverrà quel bene che s’hanno meritato.

Pregovi, o carissimo Osservatore, e da me grandemente amato, pubblicate ne’fogli vostri questa novelletta, la quale non sarà forse a’leggitori incresciosa con tali circostanze: ma aggiungetevi ancora poche righe, che scriverò qui sotto, le quali debbono giovare alla riputazione di un amico mio, uomo dabbene e di lettere, il quale per sua fatalità ha il cognome somigliante a uno de’tre truffatori. E il mio buon amico il signor abate Paolo Vendramin, figliuolo del signor Angiolo Vendramin trivigiano. L’incantatore degli spiriti ha un altro nome. Questi più volte è caduto in diversi fatti che non gli fecero onore, e la somiglianza del cognome fece più volte prendere sbaglio e sparlare del mio buon amico; il quale è notissimo a tutte le oneste genti di questa città, in cui dimorò più di venti anni, ci fece gli studi suoi, fu in teologia addottorato, ha l’amicizia intrinseca di più lettori di questo Studio, e nelle case di molti nobili veneziani è per li suoi buoni costumi e per la sua dottrina gratissimo, avendo diverse operette date alla luce. È di necessità che tutto ciò sia stampato una volta e saputo pubblicamente, acciocchè il mio buon Paolo sia di subito differenziato dall’altro nome, se mai accadesse altra novità che mescolasse due cognomi insieme.

Son certo che mi farete questa grazia, richiedendo l’onestà e il dovere che sia difesa l’innocenza di un uomo dabbene anche dai più menomi e momentanei sospetti che se ne possono avere. Vi farei forse maravigliare, se vi narrassi che quattro volte fino al presente il mio amico Paolo fu per questa somiglianza di cognome preso in iscambio, ed ebbe cagione di dispiacere. In breve, mi raccomando alla grazia vostra, e vi accerto che sono con la più sincera affezione vostro vero amico

L. S.

Di Padova, li 10 dicembre 1761.

Amicissimo L. S.

Eccovi ubbidito. È di dovere che voi e l’amico vostro siate serviti subito. E tanto più volentieri lo fo, perchè il Sig. Abate Paolo Vendramin è da me conosciuto e tenuto in quel conto d’uomo di lettere e di buon costume, che merita, ed in cui è tenuto da tutti gli uomini dabbene. Spero oltre all’aver fatto il debito mio, che non sarà discara a’leggitori la novelletta che m’avete mandata; e riuscirà grata a loro, che umanissimi sono, una dichiarazione che mette al sicuro l’onestà e l’innocenza. Quella morale che contengono i presenti fogli, sarà più volentieri accettata, avendo dipendenza da un fatto vero, di quella ch’io procuro d’innestare in vari trovati di fantasia per renderla gradita. Seguite ad amarmi come fate, e credetemi ch’io sarò sempre vostro affezionatissimo

L’Osservatore.

Venezia, li 12 dicembre 1761.

N° XC A dì 12 dicembre 1761. Voi, e questi altri, che m’amate sano,Non mi chiamate di grazia Giovanni;Pur chi mi vuol chiamar, mi chiami piano. M. Giov. Della Casa, Rim. Bur. Io avrei proseguito ancora nel presente foglio co’dialoghi d’Ulisse e delle bestie se non m’avesse interrotto una lettera che ho ricevuta da Padova. Pregami chi la scrive con tanta gentilezza a pubblicarla, ch’io sarei scortese se non compiacessi chi me la manda; massime trattandosi in essa, come si vedrà, di salvare un certo onorato cognome da non so quali imputazioni che gli possono venir date a cagione di un cognome che ha le stesse sillabe e lo stesso suono che lo compongono; ma che per essere indosso ad un’altra persona, non è così forbito e netto come il primo. Nel che io non posso tralasciare di fare alcune poche riflessioni, secondo la usanza mia, ed entrare ne’santi penetrali della morale. Pare che al mondo nasca alcun uomo con tanta contrarietà di fortuna, che tutte le cose gli abbiano sempre a riuscir male a suo dispetto. Ne ho veduti a’miei giorni mille esempi. Ma questo è uno dei più strani e particolari. Ecci un uomo dabbene, il quale in vita sua ha procurato di arricchire il suo ingegno con gli studi, di vivere piuttosto solitario che altro, di mantenersi pochi e buoni amici, di far del bene a cui ha potuto sempre, e di guardarsi dalle male opere come dal fuoco. Voi direte: sia egli benedetto. Questi merita ogni lode e ogni bene: il nome suo dee esser detto altrui per esempio di una vita onorata. Indovinereste voi mai che questo così onesto e dabbene uomo viene di tempo in tempo assalito dalla maldicenza, a cagione di un altro che ha lo stesso cognome e non ha quella gran voglia di operar rettamente che ha egli? Questo caso gli è avvenuto più volte; e s’egli non avesse nome Paolo e l’altro Giambatista, gliene sarebbe forse accaduto peggio. Sicchè egli può dire che quel Giambatista sia il suo persecutore, il quale con le sue male azioni di quando in quando lo mette in bocca degli uomini, e fa dubitare del fatto suo per parecchi dì, finchè gli amici suoi, che lo conoscono, vadano vociferando per tutto: “Non è stato Paolo, non è Paolo, non fu Paolo, Paolo è galantuomo, Paolo lo conosco io, è uomo dabbene, gli è stato Giambatista va nel fondo. Con tutto ciò Paolo è stanco di aver a farneticare così spesso a cagione di cotesto Giambatista, e si duole a ragione che i cervelli del mondo, quando si tratta di dir male, si curino così poco della logica, che senza punto distinguere Paolo da Giambatista, si appicchino al cognome, e fatto di ogni erba fascio, attacchino a lui que’biasimi che vanno addosso all’altro, e senza altro conoscimento facciano una sola persona di due, e vogliano a forza che Giambatista sia Paolo, e Paolo Giambatista, quando si tratta di dir male. Ma è tempo che senza prolungare le mie riflessioni pubblichi la lettera di Padova. Signor Osservatore. Per quanto si cerchi d’illuminare gli uomini, s’incontra tuttavia, anche a’tempi nostri, come nell’età più goffe e dalle tenebre dell’igno-ranza coperte, certuni i quali si lasciano condurre alla trappola e agl’inganni con grandissima facilità. E sempre ci sono astutacci e tristi che si vanno aggirando giorno e notte per trovare genti di buona pasta che prestino fede alle loro ciance e cadano nella rete che hanno loro apparecchiata. Noi abbiamo qui in Padova un buon uomo di oste, a cui a questi dì è avvenuto con suo gran danno di prestar fede a tre barattieri, i quali gli diedero ad intendere che nella cantina della sua casa vi avea un certo tesoro sotterrato, e custodito non so se da diavoli o da altro. Il buon uomo preso dall’amo di un interesse in aria, parendogli già di noverare, anzi pur di misurare gli zecchini a staia, non poteva vivere se non si ritrovava co’tre compagni a ragionare della sua fortuna: e non gli parea di poter tanto durare, che vedesse a risplendere quell’oro, di cui con le parole gli aveano riempiuta l’immaginazione. Ma essi che sapeano tutti i punti dell’arte, ora gli davano ad intendere che le costellazioni non erano ancora a segno, e talvolta gli faceano udire certi rumori per casa da far ispiritare le genti; e oggi con un artifizio, domani con un altro, gli ravviluppavano sempre più la fantasia; tanto ch’egli avrebbe creduto che non risplendesse il sole, piuttosto che dire: “Nella cantina mia non è il tesoro ch’essi compagni mi affermano.” Essi, per confermargli e conficcargli sempre più nella testa questa opinione, una notte segretamente, dopo diversi apparecchiamenti, lo fecero scendere nella cantina, dove in una pentola ardeva un certo fuoco verdastro chiaro con loro artifizi composto; e tanto fecero visacci e l’intrattennero con parole e baie, che finalmente la materia posta nella pentola si consumò, e andativi sopra con mille ciurmerie, fecero trovare all’oste in fondo a quella due doble. Pareva già all’oste di essere Mida o Creso, e ardeva d’impazienza di scoprire il tesoro intero, ma vi mancava molto tempo ancora; imperciocchè non erano venuti i punti favorevoli delle stelle, nè si avea tutto fatto acciocchè gli spiriti fossero ubbidienti. “L’oro chiama oro,” dicevano essi. “Qui si vuole mettere insieme una somma di quattrocento zecchini.” – “Oimè,” diceva l’oste, “io non gli ho;” e rispondevano i ciurmadori: “Noi per nostra porzione del tesoro ve ne porremo cento, e ci darai la quarta porzione del tesoro, e ci farai quel vantaggio più, che a te parrà che meritino i nostri pensieri e le fatiche.” – “Bene,” dice l’oste, “e così sarà fatto.” Escono tutti lieti, l’oste pel tesoro, gli altri pel deposito che avea a farsi. Buona notte di qua, buona notte di là. L’oste incomincia a fantasticare in qual forma abbia a premere da tutte le facoltà sue trecento zecchini. In pochi giorni vende quanto ha di argento, di grani, di vino e di ogni cosa, tutto a buon mercato. Egli sel vedea; “ma che?” diceva fra sè, “io non ho mai venduto sì caro. Questa è la più grassa investita che uomo possa fare. L’argento mio fra poco sarà cambiato in oro, ogni granello di biada e ogni gocciola di vino sarà una dobla; e io avrò in breve terminato di esser oste.” Così dicendo e facendo, ecco ch’egli ha accumulate le monete richieste dagli spiriti; e va a’truffatori dicendo: “Quando voi vedete, ogni cosa e in pronto.” – “Tu hai fatto da valentuomo,” rispondono essi; “noi abbiamo il restante. Quel che si ha a fare, si faccia; perchè le stelle vanno avanti, e noi già siamo presso che a’punti stabiliti. Ma vedi bene sopra tutto, che mai di tal cosa non ne uscisse sentore nel volgo; sarebbe rovinata ogni faccenda, e chi sa che non ne andasse in fine in fuoco e fiamme la casa.” Così detto, vanno insieme in una stanza, la rinchiudono, e cominciano a noverare. Uno de’ciurmadori cava fuori una borsa di pelle, e in essa vengono seppelliti subito i quattrocento zecchini che doveano essere pastura de’diavoli. Chiudesi la borsa, vi si mette sopra un suggello. “Ora che se ne ha a fare?” dice l’oste. “Tu l’hai,” ripigliò uno, “a rinchiudere a chiave in una cassettina di queir armadio colà; io vado a Venezia, e di qua a otto giorni sarai avvisato da me per lettera di quello che tu debba fare dei danari. Ma vedi bene che tu non errassi; non aprir mai prima che tu abbi da me l’avviso; e fa’come io ti dico, perchè, se tu apri l’armadio e la borsa senza l’avviso mio, io ti prometto che tu avrai a piangere.” Fu riposta la borsa con gran solennità nell’armadio, e fatti certi brevi convenevoli, i tre ciurmatori se ne andarono a’fatti loro, e l’oste rimase colla fantasia, secondo l’usato, ripiena di zecchini. Intanto i giorni parevano all’uomo dabbene secoli interi, la notte non chiudeva mai occhi, e guardava nelle finestre se appariva il lume; il giorno ascoltava tutti gli oriuoli, parendogli che non sonassero mai, o guardava il sole quando calava verso il ponente; e tanto stette in questi pensieri, che passarono gli otto dì, nei quali non ebbe mai lettere nè avviso veruno dall’amico. “I punti delle stelle,” dicea egli, “non saranno a segno ancora. Che mai sarà? Non anderanno mai queste stelle dove le debbono andare? Oh come sono io sventurato! ho il tesoro in casa, gli cammino sopra co’piedi, e non lo posso adoperare. Quando mi scriverà l’amico? ma faccia egli. A lui son note le cose dei diavoli, io non le so, e mi conviene aver pazienza.” In tali pensieri passarono altri otto dì, e poi altri otto ancora, e finalmente si chiuse un mese che non vide mai lettera dall’amico. Comincia a temere, e non sa di che. Sentesi tentato di andare ad aprir l’armadio, ma teme del fatto suo. Dall’una parte la speranza del tesoro e la paura degli spiriti lo ritiene, dall’altra lo stimola il non avere più danari, nè roba. Non sa che farà. Passano i giorni, e sempre più il bisogno lo stringe. Va fino all’armadio risoluto, poi torna indietro, e lascia passare un altro dì; ma finalmente costretto dalle faccende sue, che andavano male, delibera al tutto di cavar fuori la borsa dicendo: “Se io non avrò più il tesoro, pazienza; dirò che tanta fortuna non era fatta per me, ma così non posso più durare.” Va avanti, che parea adombrato. Guardava ad ogni passo, se appariva fuoco in alcuna parte della stanza, gli parea che le travi si crollassero, avrebbe giurato che il palco gli cadesse sotto. Mette le chiavi nella toppa, non ardisce di voltarle. Se non che vedendo in fine ogni cosa quieta intorno a sè, fa cuore, volta e apre, vede la borsa, chiude gli occhi e l’abbranca con fretta, quasi che avesse a trarnela di mano agli spiriti, e gli cadevano i sudori dalla fronte come gocciole di pioggia. Mettesi tutto trambasciato a sedere, rompe tremando il suggello, scioglie la bocca alla borsa; ed oh! maraviglia e dolore, erano gli zecchini riposti divenuti pezzetti di piombo. Poco mancò che non si tramutasse in piombo anch’egli: così mutolo e freddo rimase: di là a poco parve che gli si aprissero gli occhi dell’intelletto; e vedendo che non fuoco, non rovine di casa e non altro male gli avveniva, conghietturò fra sè di subito che la borsa buona fosse stata cambiata, nel riporla, in una trista, e che i tre fossero, come in effetto erano, truffatori. Ricorse incontanente all’aiuto e alla tutela delle santissime leggi, e tanto fece che uno degl’incantatori fu messo in prigione, e confermò i nomi degli altri due, a’quali avverrà quel bene che s’hanno meritato. Pregovi, o carissimo Osservatore, e da me grandemente amato, pubblicate ne’fogli vostri questa novelletta, la quale non sarà forse a’leggitori incresciosa con tali circostanze: ma aggiungetevi ancora poche righe, che scriverò qui sotto, le quali debbono giovare alla riputazione di un amico mio, uomo dabbene e di lettere, il quale per sua fatalità ha il cognome somigliante a uno de’tre truffatori. E il mio buon amico il signor abate Paolo Vendramin, figliuolo del signor Angiolo Vendramin trivigiano. L’incantatore degli spiriti ha un altro nome. Questi più volte è caduto in diversi fatti che non gli fecero onore, e la somiglianza del cognome fece più volte prendere sbaglio e sparlare del mio buon amico; il quale è notissimo a tutte le oneste genti di questa città, in cui dimorò più di venti anni, ci fece gli studi suoi, fu in teologia addottorato, ha l’amicizia intrinseca di più lettori di questo Studio, e nelle case di molti nobili veneziani è per li suoi buoni costumi e per la sua dottrina gratissimo, avendo diverse operette date alla luce. È di necessità che tutto ciò sia stampato una volta e saputo pubblicamente, acciocchè il mio buon Paolo sia di subito differenziato dall’altro nome, se mai accadesse altra novità che mescolasse due cognomi insieme. Son certo che mi farete questa grazia, richiedendo l’onestà e il dovere che sia difesa l’innocenza di un uomo dabbene anche dai più menomi e momentanei sospetti che se ne possono avere. Vi farei forse maravigliare, se vi narrassi che quattro volte fino al presente il mio amico Paolo fu per questa somiglianza di cognome preso in iscambio, ed ebbe cagione di dispiacere. In breve, mi raccomando alla grazia vostra, e vi accerto che sono con la più sincera affezione vostro vero amico L. S. Di Padova, li 10 dicembre 1761. Amicissimo L. S. Eccovi ubbidito. È di dovere che voi e l’amico vostro siate serviti subito. E tanto più volentieri lo fo, perchè il Sig. Abate Paolo Vendramin è da me conosciuto e tenuto in quel conto d’uomo di lettere e di buon costume, che merita, ed in cui è tenuto da tutti gli uomini dabbene. Spero oltre all’aver fatto il debito mio, che non sarà discara a’leggitori la novelletta che m’avete mandata; e riuscirà grata a loro, che umanissimi sono, una dichiarazione che mette al sicuro l’onestà e l’innocenza. Quella morale che contengono i presenti fogli, sarà più volentieri accettata, avendo dipendenza da un fatto vero, di quella ch’io procuro d’innestare in vari trovati di fantasia per renderla gradita. Seguite ad amarmi come fate, e credetemi ch’io sarò sempre vostro affezionatissimo L’Osservatore. Venezia, li 12 dicembre 1761.