Minerva, Plutarco, Ippocrate e Ombre.
Plutarco. O di quanti sono nell’altissimo Olimpo, Dea veramente degna di venerazione e di stima, tu m’hai fino a qui fatto passare tanti monti, tanti mari, e finalmente varcare, non senza mio gran sospetto, la nera palude infernale; nè ti degnasti mai ancora di palesarmi la cagione di questo così lungo e faticoso viaggio. Tu mi conducesti nelle corti d’altissimi re, ne’palagi di nobili personaggi, in casette d’artisti, e in casipole di villani; m’hai fatto vedere i costumi d’ogni uomo, notare le operazioni di tutti. Mi dichiarasti con la tua divina penetrazione la felicità e infelicità d’ogni genere di persone; e infine non è cosa che tu non m’abbia detta, soddisfacendo alle mie domande. Ma la cagione del mio viaggio, me l’hai sempre taciuta. Eccoci finalmente pervenuti a quel luogo in cui io credo d’aver a rimanere sempre, non essendo lecito a chi scende quaggiù di più rivedere le stelle. Chieggoti dunque per ultima grazia, che tu mi spieghi la cagione che t’ha mosso ad essere la compagna del tuo umilissimo servo e schiavo in così lungo e travaglioso cammino.
Minerva. Anzi non è lecito di rimanere in questo luogo a colui che ne viene con lo spirito vestito di carne e d’ossa, come tu sei; nè può nell’abitazione degli Elisi arrestarsi chi dalla prima vita non s’è disciolto. Ritornerai fra poco a vedere quella luce, la quale in queste mortali tenebre agli occhi tuoi più non apparisce. A grande uffizio tu fossi eletto dal rettore di tutti gli Dei; ma non si potea compiere la volontà di lui senza questo viaggio. Noi abbiamo ora passato la palude infernale. Sta’qui meco sopra questa sponda, e vedi quella schiera d’ombre che vengono in fila verso di noi, e nota bene quello che ciascheduna d’esse ha in mano. Già ci si accostano. Taci fino a tanto che le sieno passate . . . Bene: che ti pare?
Plutarco. Io non ho veduto alcuna d’esse, che non ci sia passata dinanzi malinconica: e le portavano tutte in mano come un pezzuolo di carne che m’avea somiglianza di cuore; ma non tutt’i pezzuoli mi parevano d’un colore; e poi non anche ogni ombra portava il suo così aperto e manifesto, ch’io potessi vederlo intero. Ho io veduto bene? Minerva. Sì, non ti sei punto ingannato. Quello che l’ombre aveano nelle mani, è un cuore; e ciascheduna ne viene di qua col suo; nel quale è contenuta la sentenza di tutte le operazioni che avrà fatto su nel mondo.
Plutarco. Non intendo.
Minerva. Ben sai che non puoi intendere, se non te ne fo la spiegazione. Tu avrai fino a qui creduto, come tutti voi uomini mortali credete, che ciascheduno, il quale si vive nel mondo, abbia un solo cuore, poichè in effetto con gli occhi del capo non potete vederne altro che un solo. Ma gli uomini non sono però così acuti veditori, che possano comprendere ogni cosa. Due sono i cuori che avete nel corpo vostro, e ciascheduno d’essi ha l’uffizio suo separato. Quello che tu hai veduto nelle mani all’ombre che sono passate di qua, è il primo cuore, quell’occulto agli occhi de’più riputati notomisti, sottile, invisibile, e che solo si gonfia e apparisce quando viene in questo mondo sotterraneo dinanzi a’giudici immortali, dinanzi agli occhi che tutto conoscono, a’quali niuna cosa può sfuggire. Questo è quello donde nascono le voglie umane, quello che è l’origine delle vostre operazioni: la quale non si può vedere nè sapere fino a tanto che non sia venuto di qua nelle mani d’Ippocrate stabilito da Radamanto a tagliarlo, e a farne le osservazioni, per renderne conto a’giudici di quaggiù, i quali danno la sentenza secondo quello che dall’incisione apparisce. L’altro cuore anche costassù visibile, oltre agli uffizi ch’egli ha per conservarvi la vita, n’ha uno particolare, a cui pochi fino a qui hanno posto mente; cioè quello di nascondere il primo con mille apparenze, che non lo lascino quasi comprendere neppur con gli occhi intellettuali, nè interpretarlo. Il visibile è quello che fa mostra d’essere il capo di tutte le funzioni; ha certe relazioni con la pelle della faccia, con la lingua, e con tutti i muscoli e nervi del corpo; tanto che dà quel colore che vuole alle guance, e fa a tutte le membra prendere tutti quegli atteggiamenti che a lui piacciono; e sopra tutto è il trovatore di quelle parole che la lingua profferisce per colorire i disegni dell’altro che non si vede mai, e gitta, come si suol dire, il sasso, nascondendo la mano, facendo sempre apparire che l’altro sia il tiratore. Ecco, o Plutarco, la cagione del tuo viaggio: tu dèi essere quaggiù testimonio di veduta, e vedere le incisioni che farà Ippocrate del cuore invisibile di molti, i quali vedrai quanto s’ingegneranno qui ancora di nasconderlo; ma i ferruzzi di quel sapiente gli convincerà di menzogna. Tu ritornerai poscia al mondo, e scriverai libri, ne’quali si vedranno dipinti i costumi di tutti gli uomini; e la tua dottrina avrà principio dagli scoprimenti che avrai in questo luogo veduti.
Plutarco. Non solamente, o divina Minerva, io riconoscerò sempre obbligato agl’Iddii pel mio essere e per la mia vita; ma qual gratitudine può uguagliare cotanto benefizio, che per opera loro debba anche il viver mio essere guidato dalla luce d’una Deità, ed acquistarsi qualche onorata fama nel mondo? Andiamo quando e dove ti piace.
Minerva. Seguimi. Vedi tu colà che s’avviano i giudici alla volta di quella selvetta; e vedi come dietro a loro vola in aria un nuvolo d’avoltoi, di gufi e di civette? Quegli uccellacci, quando saranno giunti alla selva, si caleranno tutti a piombo, ed attenderanno che si gettino loro per pasto i fracidumi di que’cuori, quando Ippocrate avrà fatto l’uffizio suo. Odi che schiamazzo fanno in aria! che rombo!
Plutarco. Qui vanno questi uccellacci a schiere, come su nell’aria del mondo ho veduto andarvi le cornacchie. O Giove! io non credo che tanti se ne vedessero all’assedio di Troia, per mangiarsi que’corpi degli eroi che dice Omero. Poichè sono tanti, abbondante dev’essere la pastura.
Minerva. Pensa che un mondaccio quanto lungo e largo ch’egli è, manda continuamente di che pascere tanti ventrigli. Ogni uomo ha il cuore che tu vedrai, e pochi furono sempre quelli ch’abbiano saputo indirizzarlo al bene; onde qui si becca lautamente. Ma noi siamo giunti alla selva. Ecco gli uccellacci che piombano e si posano sopra le piante, ecco i giudici a sedere, ed ecco Ippocrate co’suoi ferri alla mano. Taci, e odi bene, come s’affaticheranno l’ombre per coprire colle ciance il cuore che verrà poscia tagliato e notomizzato.
Ippocrate. Avanti, avanti; venite, o ombre uscite de’corpi che aveste nel mondo. Perchè venite voi così adagio? Voi siete pure leggiere, e fuori de’ceppi delle gotte, delle febbri de’fianchi, e di quella vecchiezza che vi facea costassù spesso cotanto indugiare nelle vostre faccende. Perchè venite ora come le testuggini? E poi, che vi giova, che vi veggo tutte venire con la fronte bassa, e pensose? Meditate voi forse qualche bel trovato per nascondere alla perspicacia degli occhi immortali quelle magagne che avete nel mondo occultate? Perchè non portate voi liberamente in mano que’cuori che in questo luogo arrecate? Non c’è più niscondelli, no, qui non c’è più traveggole. Se voi avete dato ad intendere lucciole per lanterne a’vostri congiunti, a’domestici, a’cittadini, a’terrazzani e a’forestieri, qui le lucciole sono lucciole, e non risplendono più di quello che possono. Chi è quel grande colà, il quale mi pare un poco più sicuro in faccia degli altri? Vienne