Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero LXXIV", in: L’Osservatore veneto, Vol.1\074 (1761-10-17), S. 306-310, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.459 [aufgerufen am: ].


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N° LXXIV

A dì 17 ottobre 1761.

Ebene 2► Ebene 3► Ebene 4► Utopie► buona intenzione è veduta e commendata dagl’Iddii ai quali sei caro. Incomincia il tuo cammino, e non temere di nulla; che la maldicenza non ti potrà punto nuocere, e si disperderà da’venti che seco portano le cose leggiere. S’egli ti dà l’animo di vivere con parsimonia e di non curarti punto di agi e di abbondanza di corporei beni, avrai quassù dove io sono, immortalità di nome, e sarai maraviglia di quanti dopo di te verranno.” Questa magnifica promessa mi empiè tutto l’animo di sè; e promisi alla sconosciuta voce di fare ogni suo volere, dimenticandomi di tutte le cose terrene; e incontanente vidi un luminoso raggio che mi dimostrava il cammino a salire. Con tutto ch’io avessi l’invisibile aiuto degl’Iddii, non ti potrei dire a mezzo quanto fu il mio sudore e lo stento prima che pervenissi alla sommità della montagna; ma finalmente, superato ogni ostacolo, a capo di parecchi anni mi trovai sulla cima di quella. Io non ti narrerò le accoglienze che n’ebbi, nè i bene armonizzati suoni e i balli delle leggiadre Muse che costassù albergano; ma solo ti dirò ch’egli mi parve di essere divenuto altr’uomo da quello ch’io era prima: i pensieri miei si fecero più vigorosi e più maschi, la voce più gagliarda, e questa mia cetera, tocca da me costassù, parea un incantesimo a me stesso. Quivi appresi ogni bella dottrina alla sua fonte, e nelle selve abitate dalle deità mi venne voglia [307] un giorno di domandare ad una delle Muse, che mi dicesse “o sdegno orrendo del Pelìe Achille, che diede infiniti travali agli Achivi, e mandò molte generose vite di eroi a Pluto prima del tempo, e gli fece preda a’cani e agli uccelli del cielo.” Al che ella rispose, “che questo era stato volere di Giove;” e così dicendo mi empiè il capo di tante immagini e di tanti pensieri, ch’ebbi materia da riempiere ventiquattro libri; nei quali feci vedere gli effetti delle umane passioni, lodai la virtù, dimostrai i segreti delle deità, la nobiltà del valore, il potere dell’eloquenza, e tante altre cose, che a me medesimo parve impossibile di averne tante sapute, e certo io non le sapea se non fossi stato dal cielo ispirato. Anzi per non riuscire spiacevole agli uomini, cantai di coloro ch’erano già morti, acciocchè le mie lodi non si acquistassero la taccia di adulazione e i biasimi di satira; ma nelle persone già uscite di vita si vedesse uno specchio delle virtù e de’vizi che vivono, senza insuperbirsi o sdegnarsi di quello che silegge, perchè non toccando punto il leggitore, nascesse in lui semplicemente l’amore alla virtù, o l’abborrimento del vizio.

Nè parendomi ancora di aver fatto tutto quel bene che avrei potuto fare, terminato ch’ebbi la Iliade, posi mano a raccontare gli errori di Ulisse e i vari casi e pericoli ne’quali egli era incorso, per far conoscere in qual forma si dovessero gli uomini diportare ne’male avventurati punti della vita loro, e provare che la sofferenza è il superlativo rimedio di ogni cosa. Quando io ebbi terminate queste due opere, fui dalle Muse accettato nella compagnia loro per sempre, e mi fu dato l’uffizio di guidar quassù coloro che fossero amanti della sommità di questa montagna. “E quanti,” diss’io, “sono di qua passati dappoichè tu ci se’, Omero?” – “Pochi,” rispose; “ma non mi far entrare in questa briga, perchè sarebbe una lunga intemerata a dire le ragioni per le quali così picciol numero è privilegiato. Oltre di che mi viene anche fatta da Apollo proibizione di palesare questo segreto, prendendosi egli spasso nel vedere continuamente un gran numero di persone, le quali si credono di essere in sulla cima, e si diguazzano colà fra le pozzanghere di quella valle, chiamando anitre e oche i candidissimi cigni che nuotano nelle purissime onde del Permesso: di che Apollo si fa spettacolo e commedia, e non vuole che gli infangati ricevano di ciò avviso veruno; ma si stiano a guisa di mignatte e di tinche nel loro pantano, stimando di batter l’ale per l’immenso circuito dell’Olimpo. Ma non ne ragioniamo più, e dimmi se vuoi dar principio al tuo viaggio.” – “Ben sai che io mi struggo di voglia,” rispos’io; e già lo pregava ch’egli mi andasse innanzi, e mi parea di vedere . . . Ma che? Le mattutine voci de’venditori di frasche e ciarpe, altamente gridando per la via, mi destarono, e non vidi più nè Omero nè la montagna, ma mi trovai nel letto collo stampatore all’uscio che mi sollecitava per avere il foglio. ◀Utopie ◀Ebene 4 ◀Ebene 3

Annotazione.

Crederà alcuno che questo sogno celi in sè vari segreti; e chi sa che non ci sia qualche intelletto perspicace che non affermi che siffatti [308] ogni sono mie invenzioni, e che io gli fo quando voglio, e secondo che la fantasia stabilisce che debbano servire. Metatextualität► Io ci giocherei che sarà ritrovato qualche mistero grande in Omero cieco, nella montagna, nel mio desiderio di salire, ne’cigni, nelle oche, e in tutto quello che vi si legge; e potrebb’essere anche ch’io fossi tacciato di un poco di vanità, e dell’avermi lodato. Io accerto chi legge, che quanto ho detto non è stato altro che sogno, e che ogni cosa mi è apparita dormendo; ◀Metatextualität e quando anche si sospettasse che il sognare così fatte cose venga da una certa prosunzione e albagía che ha lo spirito di sè stesso, la si può comportare; perchè in fine, quando fui per cominciar la salita, si vede che il sonno si ruppe, e che l’animo conobbe lo stato suo e la sua forza, nè si arrischiò di andare più avanti.

Oh! non si potrebbe però comportare ch’io mi lodassi un tratto in vita mia? Viene un punto nel corso della vita umana, che l’uomo si tiene da qualche cosa: s’egli s’inganna, pazienza. Non ho io forse udito di quelli che in luoghi pubblici non hanno mai a ragionare di altro che di sè medesimi? Io ho fatto tale e tale atto di amicizia, dirà uno; e un altro: la schiettezza mia non ha pari nel mondo; e io so fare e io so dire; tanto che pare che il commendar sè stesso sia necessità; e credo che sia in effetto; stimarsi di tempo in tempo da qualche cosa, purchè sia con una certa moderazione, è una spezie di nutrimento dell’anima. Daresti tu alla gola sempre di che inghiottire? No; perchè ti si empierebbe troppo lo stomaco, saresti sempre col capo pieno di fumo e di un calore che te lo farebbe andare attorno; oltre di che ne avresti di quando in quando qualche malattia, e saresti obbligato a coricarti a letto e ricorrere al medico. All’incontro se vuoi sostenerti in piedi, avere fiato e vigore da far le opere tue, hai di tempo in tempo a ministrare al corpo tuo un discreto cibo che ti rianimi, che ti rinforzi. Pensa similmente che l’avere qualche concetto di sè sia il pane e la vivanda dello spirito. Se tu vuoi far opera degna di qualche onorata fama, hai a ristorarti talvolta con questo manicaretto. Non lo ingoiare però sempre, perchè esso ha una certa facoltà che ti rigonfia, ti empie di vento e ti farà, scoppiare; e di ristoro diventa veleno. Se non ne pigli mai, eccoti vicino a morire di fame. L’animo si fiacca e si avvilisce, non gli pare di esser atto a nulla, inciampa ad ogni passo, e tutto gli pare difficoltà, ombra, notte, selva, dirupi; trema sempre. Che può mai uscire di un animo così fatto? Come si può distendere ad opere grandi e nobili? come può andare avanti se gli sembra di non poter stare in piedi? L’avvilimento lo lega, gli mette ceppi e manette, non sa più s’egli possa o non possa nulla, anzi sarà certo un giorno di non poter nulla, e giacerà seppellito nell’ozio. Non senti tu che quando il corpo tuo richiede di essere ristorato, ti sollecita la fame; il palato ti fa sentire il sapore di quello che mangi, con una squisitezza e con una dolcezza che ti tocca il cuore? Natura ti ha dato anche un certo appetito nello spirito di lode, di stima di te medesimo, per rinvigorirlo a tempo, per non lasciarlo sfiorire, e senti bene quanto sapore hanno le lodi, per indicarti che le sono necessarie; e se tu te le dai in coscienza e discretamente, le sono buone, nutritive e giovevoli a sollevare l’anima tua e renderla capace e attiva nelle operazioni; e quando hai concetto di te a questo fine, io ti consiglio talora a dir bene di tempo [309] in tempo del fatto tuo. Se poi all’incontro fosse tua intenzione che l’esaltar te medesimo fosse avvilimento altrui, e lo facessi a questo fine, guárdati come dal fuoco; imperocchè non si può dar vizio peggiore.

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Favola.

Ebene 4► Fabel► Narrasi nelle antiche leggende, le quali hanno lasciato memoria de’luoghi donde uscirono tutt’i beni e i mali che sono venuti nel mondo, come non contento l’inimico Plutone di aver empiuto, per quanto potuto avea, la terra di calamità e magagne, egli inventò anche un giorno il ragno e la gotta. E volendo mandargli fra gli uomini chiamò a sè l’uno e l’altra, e parlò in questa forma: “Io ho costassù una gente a me nemica alla quale io studio con ogni vigilanza e diligenza di fare ogni dì qualche male; e benchè io non sia giunto ancora a quel colmo ch’è da me ardentemente desiderato, pure ho fino a qui tanto fatto, che non ho cagione di dolermi delle mie invenzioni. Sono usciti di qua gl’infiniti desiderii che travagliano quella genía, l’insaziabilità dell’avere, la guerra, la peste e tanti altri fastidi, che io credo che oggimai non abbiano un momento di riposo. Con tutto ciò, come si fa quando si sono condotte a fine le cose più importanti e massicce, non lascio mai di pensare a qualche novità; e a questi giorni voi mi siete venuto in mente l’uno e l’altra, e benchè non possiate far macelli, nè rovine universali, a me basta che secondo le forze vostre vi diate ad infastidire i miei nimici. Vedete di qua giù i luoghi a’quali dovete andare. Quivi sono altissimi palagi e dorati, e dall’altro lato casettine picciole e capanne di genterelle; eleggetevi quale abitazione vi piace. Andate.” Vennero al mondo il ragno e la gotta, e data un’occhiata intorno: “Oh!” disse il ragno, “la natura mia è fatta per dimorare in luoghi ampi e spaziosi. Tu sai bene, sorella mia, che io debbo stendere certe larghe tele, per le quali non avrei campo che bastasse in queste casipole, sicchè pare a me che mi toccasse di abitare nell’ampiezza de’palagi, e che tu mi dovresti cedere le abitazioni più grandi.” – “E così intendo io di fare,” rispose la gotta. “Non vedi tu forse come ne’palagi vanno su e giù sempre medici, cerusici e speziali? Io son certa che non avrei mai un bene al mondo, e la vita mia sarebbe un continuo travaglio.” Così detto, le si accordarono insieme, e la gotta andò a conficcarsi nel dito grosso del piede di un povero villano, dicendo: “Di qua, cred’io, non verrò discacciata così tosto, nè i seguaci d’Ippocrate s’impacceranno de’fatti miei; tanto che io spero di tormentare costui, e di starci con molta quiete.”

Dall’altro canto il ragno, entrato in un palagio molto ben grande, e salito fra certe travi colorite e con bellissimi lavori d’oro fregiate, come se il luogo fosse stato suo, vi piantò la sua dimora, e cominciò ad ordire la tela e a prendere alla rete le mosche. Ma un indiavolato staffiere, quasi non avesse avuto altro che fare, con la granata in mano, parea che avesse di mira quella tela, e dàlle su oggi, dàlle su domani, non gli lasciava mai aver pace, nè requie, sicchè ogni giorno era obbligato il ragno a ricominciare la sua orditura. Di che preso egli un giorno per disperazione il suo partito, ne andò alla campagna a raccontare la sua mala vita alla gotta; la quale con dolorosa voce gli ri-[310]spose: “Oh! fratello, io non so qual di noi abbia maggior cagione di lagnarsi. Da quel maladetto punto, in cui elessi di venir ad albergare con questo asinone di villano, pensa che io non ho saputo ancora che sia un bene. Sai tu quello ch’egli fa? mi conduce ora a quel bosco a fender legna, e di là ad un tratto ad arare i campi, e quello che più mi spiace, a cavare la terra, dove calcando col piede sulla vanga, come se l’avesse di acciaio, non mi lascia mai campo di posare un momento; tanto che potresti dire che non solo io non fo verun male a lui, ma ch’egli all’incontro ne fa molti a me; sicchè si può dire ch’io abbia fatto come i pifferi di montagna, che andarono per suonare e furono suonati. Per la qual cosa, fratel mio, io credo che noi faremmo bene l’uno e l’altra se cambiassimo abitazione.” Il ragno fu d’accordo, ed entrato nella casettina del villano non ebbe più fastidio veruno, perchè non vi fu chi gli ponesse niente; e la gotta sconficcatasi di là, andò ad intanarsi nel piede di un gran signore, il quale si dilettava di tutt’i punti della gola, e bevea i più squisiti vini che uscissero delle uve di ogni parte del mondo. Egli non sì tosto la si sentì ne’nodi, che non potendo più, incominciò a starsi a letto, e ad accarezzarla con impiastri, unzioni e mille galanterie, tanto che la vita sua divenne la più agiata e la più soave che mai si avesse. ◀Fabel ◀Ebene 4 ◀Ebene 3

Metatextualität► Amico mio, questa favoletta non è nè nuova nè mia; ma facendo essa al proposito vostro, ve la ricordo. L’esercizio è l’unico rimedio a questo male. E se voi non immaginerete di aver le calcagna da villano e vi affiderete alle medicine, rimarrete il più dell’anno nello stato in cui vi trovate al presente. ◀Metatextualität ◀Ebene 2 ◀Ebene 1