Numero XLV Gasparo Gozzi Moralische Wochenschriften Klaus-Dieter Ertler Herausgeber Alexandra Fuchs Herausgeber Lena Druml Mitarbeiter Sarah Lang Gerlinde Schneider Martina Scholger Johannes Stigler Gunter Vasold Datenmodellierung Applikationsentwicklung Institut für Romanistik, Universität Graz Zentrum für Informationsmodellierung, Universität Graz Graz 20.05.2019

o:mws-103-486

Gozzi, Gasparo: L’Osservatore veneto. Herausgegeben von Emilio Spagni. Firenze: G. Barbera 1897 [1761], 187-190 L’Osservatore veneto 1 045 1761-07-08 Italien
Ebene 1 Ebene 2 Ebene 3 Ebene 4 Ebene 5 Ebene 6 Allgemeine Erzählung Selbstportrait Fremdportrait Dialog Allegorisches Erzählen Traumerzählung Fabelerzählung Satirisches Erzählen Exemplarisches Erzählen Utopische Erzählung Metatextualität Zitat/Motto Leserbrief Graz, Austria Italian Glück Fortuna Happiness Fortuna Bonheur Fortuna Vernunft Ragione Reason Razón Raison Razão Mount Olympus 22.34954,40.08175 Italy 12.83333,42.83333

N° XLV

A dì 8 luglio 1761.

Nullum Numen abest, si sit Prudentia.

Juven.

Dove è Prudenza, è ogni Deità.

Io non credo che la Fortuna, se ella avesse orecchi, potesse avere maggior dispetto, che nell’udire le parole dette qui sopra. Costei è una certa pazzaccia che fa tutto a modo suo, e vuole quello che vuole, senza discrezione. Se ella se lo incapa, va, e cava fuori di una spelonca un uomo allevato con le capre, e gli mette sulla fronte un diadema tutto gioiellato, e vuole che tutti i popoli s’inginocchino davanti a lui. Eccoti ch’ella si sazia di quello spettacolo, e lo balza giù dal seggio reale, e mettevi a sedere in suo cambio un altro. E così fa tutto dì non solo nelle cose grandi, ma anche nelle minute. Quello che mi par da ridere, si è che quando un uomo viene assecondato dal favore di lei, in suo cuore si crede che il bene di cui egli si gode, sia suo proprio merito e opera della sua prudenza; e quando gli soffia contrario il vento, non dirà mai più: Io sono stato una bestia, non ho guidato bene le cose mie; ma: La maladetta Fortuna non lascia mai avere un bene; costei mi ha beffato, ha voluto prendersi giuoco del fatto mio; e in fine non gliela può perdonare. Con questa fantasia nel cervello, studiando in me che cosa sia questa Prudenza, mi addormentai, e mi venne dinanzi agli occhi lo spettacolo che scriverò qui sotto.

Una tela dipinta rappresentava agli occhi di molti circostanti una grandissima palla, la quale veniva da molte linee divisa, e vedevansi in essa isole, mari, fiumi, montagne, e tutto quello che in un mappamondo si vede. Di sotto vi aveano poste di qua e di là le spalle due femmine, delle quali ognuna si credeva di sostenerla, perchè così al primo la parea essere in aria e sollevata dalle due donne; ma dalla parte di sopra vi era conficcata una girella, dentro alla quale passava un uncinetto, e questo era appiccato ad una catena di oro, la quale stendevasi ritta allo insù, e ne andava coll’altro capo a perdersi in certe nuvole, dove con l’immaginativa si comprendeva che la era tenuta salda, e che la palla era tenuta da una mano invisibile; tanto che si conosceva che le due femmine si credevano ben esse di essere le sostenitrici di quella, ma non lo erano in effetto. Di sotto ai piedi dell’una era scritto Prudenza, e dell’altra, Fortuna. Mentre che io stava con grande attenzione pascendo gli occhi nella rappresentazione della tela, incominciò a farsi un dolcissimo concerto di violini, arpe, liuti e ogni genere di strumenti, i quali non erano però sonati da dita umane, ma solamente da voci di uomini e donne che imitavano il suono, il quale era di tal ragione che talvolta si udiva un’allegrezza universale risonare per tutto quel luogo, e tal altra un gemito ed un lamento che penetrava ne’più profondi seni del cuore. Avveniva ancora che una parte de’simulati strumenti empieva l’aria di consolazione e di gioia, e l’altra all’incontro faceva un piagnisteo che destava malinconia nell’animo e nel cervello. E quel che mi move a maraviglia, or ch’io vo riandando col pensiero quell’armonia, si è che da tante contrarietà nasceva appunto il diletto e la curiosità degli spettatori. In questa forma trascorse qualche tempo, e tutti gli orecchi stavano attentissimi, quando in un subito la tela raggrinzatasi, e volata allo insù, repentinamente disparve, ed in sua vece si presentò davanti una scena apparecchiata in tal forma. Vedeasi nel fondo di quella il mare, e poco alto da quello il sole. Le acque erano così tranquille, in bonaccia e lucide, che ogni uomo vi si sarebbe potuto dentro specchiare. Dall’uno de’lati della scena vedevasi un colle dirotto e scosceso, e dall’altro mura, case, torri, che dimostravano quivi essere una città popolata di genti.

Poco stette vacua la scena; perchè dall’alto a poco a poco incominciò a discendere un’aquila, la quale giunta finalmente in sul terreno, ristrinse due grandi alacce, con cui prima occupava un gran tratto di aria; e smontò da quella un fanciullo con l’ale anche egli alle spalle, e con un turcasso ad armacollo, pieno di saettuzze, il quale, rivoltosi al popolo, principiò il suo ragionamento. Ricordomi ch’egli lo fece in versi: ma le cose udite in sogno non rimangono confitte nella memoria; e non farò picciola opera, se ridirò la sostanza ch’era nel suo favellare contenuta.

Io sono, diceva egli, o nobilissimi ascoltanti, stabilito dall’autore di questa rappresentazione che tra poco sarà fatta al vostro cospetto, ad essere il Prologo di essa. E credo benissimo che a quest’ale e a queste mie saette comprenda ognuno di voi ch’io sia Amore. Non vi crediate però di aver a vedere tragedia o commedia, perchè l’argomento eletto dal poeta ha in sè tanta varietà, che non ha voluto intitolarlo nè l’una cosa nè l’altra. Questo vi so io dire solamente, che l’opera sua, e chiamatela come voi volete, è stata da lui composta per volontà di quel Giove che raguna le nuvole e comanda a’tuoni e alle tempeste. Egli ha voluto ch’io stesso mi dipartissi dal soggiorno dell’Olimpo per venire a darvene notizia; e per comandarvi, e non pregarvi, come si suole negli altri teatri, che voi stiate attenti: perchè non si tratta qui di finzioni per trarre dagli occhi un inutile pianto, o dalla bocca un riso leggiero e poco durevole. Se voi voleste sapere il titolo, io ve lo dirò: è il contrasto della Fortuna e della Prudenza. State dunque con gli occhi tirati, e guardatevi bene dal dormire e dal cianciare, come spesso solete fare negli altri teatri; perchè Giove l’avrebbe a male, e con lui non vi consiglierei a cozzare. Ho detto quanto mi occorreva in breve: torno a salire sull’aquila, e me ne vo a’fatti miei.

Così fece, e sparì come un baleno. Si apersero allora le porte della città, e uscirono due fazioni di genti, che passeggiando con ordinato circuito sulla scena, formavano due cori, i quali accompagnati dalle voci presero a cantare l’un dopo l’altro in tal forma.

Diceva il primo nella sua canzone: “O aiutatrice delle opere de’mortali, Fortuna, senza il cui prospero aiuto, nulla giova nè solcar il mare per acquistar ricchezze, nè passar monti, nè arrestarsi nelle corti de’sommi re, vieni, accostati a noi.”

E rispondeva l’altro coro: “O divina Prudenza, che meditando nelle passate cose, prevedi tutto quello che dee avvenire, e sei quasi lucerna a’ciechi mortali nel corso di questo tenebroso mondo, vieni a noi, e rischiara le menti nostre, acciocchè possano reggersi nel dubbio cammino di questa vita.”

“Oh pazzi! ripigliava il primo coro; ch’è questo di che voi pre-gate? Se abbandonata è Prudenza dalla Fortuna, in che potreste voi mai sperare?”

“Oh ceppi! ripeteva l’altro: e se Fortuna non è da Prudenza accompagnata, qual pro ne avrete dalla vostra sola Dea, cieca e sorda?”

E finalmente l’uno e l’altro coro, pieni di dispetto l’un contro all’altro, si correvano dietro quasi colle pugna sugli occhi, e gridavano a vicenda; il primo: “Vieni, o Fortuna;” e l’altro: “Vieni, o Prudenza;” ripetendo queste voci più volte.

In questo mezzo spiccavansi dall’aria due bellissimi giovani, i quali si stavano svolazzando, e ognun di essi con un dorato mantice in mano parea che soffiasse. Non parlavano essi veramente, ma parea che fuor de’due mantici ne uscissero queste articolate parole:

“Noi siamo assegnati al servigio di Fortuna, la quale fra poco, sospinta dal nostro favorevole fiato, verrà a questo lido; ma non l’avrete, se proseguite a chiamare Prudenza, perchè non dà il cuore alla signora nostra di vedere in faccia quella sua sfidata nimica.”

Non sì tosto furono proferite dai mantici queste parole, che il coro il quale invitava Fortuna, come quello che più numeroso era e più forte, dato mano all’armi, fece sgombrare, di là il suo avversario, e rimase solo sopra la spiaggia, attendendo l’effetto della sua promessa.

Nè molto andò che si vide ad apparire una navicella sospinta dal mare di sotto, e di sopra dai due ricordati sergenti, da cui, quando fu essa approdata, ne uscì una donna che non istava mai salda sopra i suoi piedi, e avea seco in compagnia una gran brigata di genti, fra le quali non era persona a cui si potesse dire che fosse sana. Imperciocchè qual si vedea essere guercio, qual zoppicava da un piede, o tal altro da tuttaddue; nè alcuno vi era che non avesse magagna. E contuttociò vedeva gli abitatori della città non solamente a fare un’amorevole accoglienza alla sopravvenuta Deità, ma essere tutti intorno ai seguaci di lei, ed esaltargli fino alle stelle per la loro bella e garbata facitura del corpo; e quello che mi parea più maraviglia, si era che coloro si tenessero quelle esaltazioni per vere; e piuttosto mostravano fastidio dell’essere poco lodati, che delle solenni bugìe che venivano dette loro da que’popolani.

Non minor maraviglia mi arrecava a vedere che Fortuna, accostandosi or all’uno ed or all’altro degli abitatori di quel luogo, l’abbracciava e baciava; e fino a tanto ch’egli era cortesemente tenuto al petto da lei, vedevasi a crescere per modo che quasi toccava le nuvole col capo; ma quando ella si segregava da lui per abbracciare un altro, il secondo diveniva gigante, e il primo non solo ritornava alla sua grandezza naturale di prima, ma sì sparuto diventava, che non crederei che più picciolo e più tisicuzzo nano fosse stato veduto giammai. E peggio gli avveniva ancora, perchè quando Fortuna lo avea una volta abbandonato, non potea più patir di vederlo, e parea che non si ricordasse di lui, come se non fosse più stato al mondo.

Un’altra cosa notai nelle femmine, che quando l’erano ben volute da lei, non solo si vedeano innalzare e farsi meglio composte di corpo, ma acquistavano una carnagione che parea di latte e di rose, due occhi che scintillavano loro nella fronte, ed erano una bellezza in carne. Ma quando essa volgeva loro le spalle, la pelle si aggrinzava loro addosso, gli occhi diventavano senza vigore, le occhiaie livide, e ognuno fuggiva da loro come dal fuoco.

Quantunque tutti questi mirabili effetti si vedessero quivi al primo apparire di Fortuna, tutte quelle genti le furono intorno, e la pregavano della sua grazia, sperando sempre ciascuno di dover esser da lei favorito.

Intorno a lei la sua schiera di azzoppati e magagnati faceva intanto una danza; ed ella si rideva del fatto loro, che si credessero di danzare misuratamente; e vedeasi benissimo ch’era tutta lieta dell’avergli fatti impazzire, e dato loro ad intendere ch’erano garbatissimi ballerini ed incantesimi di quell’arte.

Quanto è a me, so dire che risi assai; e se non fosse che dormii molte ore, e che il sogno riuscì lunghissimo, anderei ancora più oltre narrando nel presente foglio. Ma serberò la medesima materia ad un altro, nel quale racconterò le scene principali, e quello che avvenne, quando ai disordini e alle pazzie cagionate da Fortuna volle riparare Prudenza.

All’Osservatore.

Ci sono alcuni i quali desiderano da voi che in questi fogli venga pubblicato uno, se non più, di que’Sermoni in versi sciolti, che venivano già composti da alcuni de’vostri amici ad imitazione d’Orazio. Mi sono obbligato a diversi miei amici colla parola che mi compiacerete, e pregovi che non mi lasciate mancare. Addio.

Rispondo.

Che ad ogni modo farò la volontà vostra, poichè non mi stringete a tempo. E vi saluto di cuore.

All’Osservatore.

È lungo tempo che non veggo un sogno ne’vostri fogli e l’avrei caro. State sano.

Rispondo.

Non c’è bisogno ch’io vi dica, di più. Questo foglio e l’altro vi serviranno di risposta.

Signor Osservatore.

Mi vien detto che siete solito ad avere i costumi convenienti alla vostra nascita; ma perchè dunque sarò io così sfortunato di non aver veduto due righe vostre intorno ad una mia richiesta scrittavi nel foglio se non m’inganno? Bisognava non istamparla come avete fatto, se non avevate intenzione di favorirmi. Sto a vedere che a questa volta non istamperete questa mia nuova istanza, perchè io vegga chiaro che non vi sentite disposto a’rispondermi. La quistione per altro parevami degna di voi. Staremo a vedere. Vi ricordo che io sono alquanto molesto di mia natura; e se non vi sbrigherete di me o con le buone o con le cattive, chi sa quanta noia sarò per darvi. Per questa volta ancora vi chieggo scusa dell’ardir mio; non vi rincresca che siamo amici e ch’io continui ad essere, qual mi dichiaro, pieno di stima, vostro buon amico

N. N.

N° XLV A dì 8 luglio 1761. Nullum Numen abest, si sit Prudentia. Juven. Dove è Prudenza, è ogni Deità. Io non credo che la Fortuna, se ella avesse orecchi, potesse avere maggior dispetto, che nell’udire le parole dette qui sopra. Costei è una certa pazzaccia che fa tutto a modo suo, e vuole quello che vuole, senza discrezione. Se ella se lo incapa, va, e cava fuori di una spelonca un uomo allevato con le capre, e gli mette sulla fronte un diadema tutto gioiellato, e vuole che tutti i popoli s’inginocchino davanti a lui. Eccoti ch’ella si sazia di quello spettacolo, e lo balza giù dal seggio reale, e mettevi a sedere in suo cambio un altro. E così fa tutto dì non solo nelle cose grandi, ma anche nelle minute. Quello che mi par da ridere, si è che quando un uomo viene assecondato dal favore di lei, in suo cuore si crede che il bene di cui egli si gode, sia suo proprio merito e opera della sua prudenza; e quando gli soffia contrario il vento, non dirà mai più: Io sono stato una bestia, non ho guidato bene le cose mie; ma: La maladetta Fortuna non lascia mai avere un bene; costei mi ha beffato, ha voluto prendersi giuoco del fatto mio; e in fine non gliela può perdonare. Con questa fantasia nel cervello, studiando in me che cosa sia questa Prudenza, mi addormentai, e mi venne dinanzi agli occhi lo spettacolo che scriverò qui sotto. Una tela dipinta rappresentava agli occhi di molti circostanti una grandissima palla, la quale veniva da molte linee divisa, e vedevansi in essa isole, mari, fiumi, montagne, e tutto quello che in un mappamondo si vede. Di sotto vi aveano poste di qua e di là le spalle due femmine, delle quali ognuna si credeva di sostenerla, perchè così al primo la parea essere in aria e sollevata dalle due donne; ma dalla parte di sopra vi era conficcata una girella, dentro alla quale passava un uncinetto, e questo era appiccato ad una catena di oro, la quale stendevasi ritta allo insù, e ne andava coll’altro capo a perdersi in certe nuvole, dove con l’immaginativa si comprendeva che la era tenuta salda, e che la palla era tenuta da una mano invisibile; tanto che si conosceva che le due femmine si credevano ben esse di essere le sostenitrici di quella, ma non lo erano in effetto. Di sotto ai piedi dell’una era scritto Prudenza, e dell’altra, Fortuna. Mentre che io stava con grande attenzione pascendo gli occhi nella rappresentazione della tela, incominciò a farsi un dolcissimo concerto di violini, arpe, liuti e ogni genere di strumenti, i quali non erano però sonati da dita umane, ma solamente da voci di uomini e donne che imitavano il suono, il quale era di tal ragione che talvolta si udiva un’allegrezza universale risonare per tutto quel luogo, e tal altra un gemito ed un lamento che penetrava ne’più profondi seni del cuore. Avveniva ancora che una parte de’simulati strumenti empieva l’aria di consolazione e di gioia, e l’altra all’incontro faceva un piagnisteo che destava malinconia nell’animo e nel cervello. E quel che mi move a maraviglia, or ch’io vo riandando col pensiero quell’armonia, si è che da tante contrarietà nasceva appunto il diletto e la curiosità degli spettatori. In questa forma trascorse qualche tempo, e tutti gli orecchi stavano attentissimi, quando in un subito la tela raggrinzatasi, e volata allo insù, repentinamente disparve, ed in sua vece si presentò davanti una scena apparecchiata in tal forma. Vedeasi nel fondo di quella il mare, e poco alto da quello il sole. Le acque erano così tranquille, in bonaccia e lucide, che ogni uomo vi si sarebbe potuto dentro specchiare. Dall’uno de’lati della scena vedevasi un colle dirotto e scosceso, e dall’altro mura, case, torri, che dimostravano quivi essere una città popolata di genti. Poco stette vacua la scena; perchè dall’alto a poco a poco incominciò a discendere un’aquila, la quale giunta finalmente in sul terreno, ristrinse due grandi alacce, con cui prima occupava un gran tratto di aria; e smontò da quella un fanciullo con l’ale anche egli alle spalle, e con un turcasso ad armacollo, pieno di saettuzze, il quale, rivoltosi al popolo, principiò il suo ragionamento. Ricordomi ch’egli lo fece in versi: ma le cose udite in sogno non rimangono confitte nella memoria; e non farò picciola opera, se ridirò la sostanza ch’era nel suo favellare contenuta. Io sono, diceva egli, o nobilissimi ascoltanti, stabilito dall’autore di questa rappresentazione che tra poco sarà fatta al vostro cospetto, ad essere il Prologo di essa. E credo benissimo che a quest’ale e a queste mie saette comprenda ognuno di voi ch’io sia Amore. Non vi crediate però di aver a vedere tragedia o commedia, perchè l’argomento eletto dal poeta ha in sè tanta varietà, che non ha voluto intitolarlo nè l’una cosa nè l’altra. Questo vi so io dire solamente, che l’opera sua, e chiamatela come voi volete, è stata da lui composta per volontà di quel Giove che raguna le nuvole e comanda a’tuoni e alle tempeste. Egli ha voluto ch’io stesso mi dipartissi dal soggiorno dell’Olimpo per venire a darvene notizia; e per comandarvi, e non pregarvi, come si suole negli altri teatri, che voi stiate attenti: perchè non si tratta qui di finzioni per trarre dagli occhi un inutile pianto, o dalla bocca un riso leggiero e poco durevole. Se voi voleste sapere il titolo, io ve lo dirò: è il contrasto della Fortuna e della Prudenza. State dunque con gli occhi tirati, e guardatevi bene dal dormire e dal cianciare, come spesso solete fare negli altri teatri; perchè Giove l’avrebbe a male, e con lui non vi consiglierei a cozzare. Ho detto quanto mi occorreva in breve: torno a salire sull’aquila, e me ne vo a’fatti miei. Così fece, e sparì come un baleno. Si apersero allora le porte della città, e uscirono due fazioni di genti, che passeggiando con ordinato circuito sulla scena, formavano due cori, i quali accompagnati dalle voci presero a cantare l’un dopo l’altro in tal forma. Diceva il primo nella sua canzone: “O aiutatrice delle opere de’mortali, Fortuna, senza il cui prospero aiuto, nulla giova nè solcar il mare per acquistar ricchezze, nè passar monti, nè arrestarsi nelle corti de’sommi re, vieni, accostati a noi.” E rispondeva l’altro coro: “O divina Prudenza, che meditando nelle passate cose, prevedi tutto quello che dee avvenire, e sei quasi lucerna a’ciechi mortali nel corso di questo tenebroso mondo, vieni a noi, e rischiara le menti nostre, acciocchè possano reggersi nel dubbio cammino di questa vita.” “Oh pazzi! ripigliava il primo coro; ch’è questo di che voi pre-gate? Se abbandonata è Prudenza dalla Fortuna, in che potreste voi mai sperare?” “Oh ceppi! ripeteva l’altro: e se Fortuna non è da Prudenza accompagnata, qual pro ne avrete dalla vostra sola Dea, cieca e sorda?” E finalmente l’uno e l’altro coro, pieni di dispetto l’un contro all’altro, si correvano dietro quasi colle pugna sugli occhi, e gridavano a vicenda; il primo: “Vieni, o Fortuna;” e l’altro: “Vieni, o Prudenza;” ripetendo queste voci più volte. In questo mezzo spiccavansi dall’aria due bellissimi giovani, i quali si stavano svolazzando, e ognun di essi con un dorato mantice in mano parea che soffiasse. Non parlavano essi veramente, ma parea che fuor de’due mantici ne uscissero queste articolate parole: “Noi siamo assegnati al servigio di Fortuna, la quale fra poco, sospinta dal nostro favorevole fiato, verrà a questo lido; ma non l’avrete, se proseguite a chiamare Prudenza, perchè non dà il cuore alla signora nostra di vedere in faccia quella sua sfidata nimica.” Non sì tosto furono proferite dai mantici queste parole, che il coro il quale invitava Fortuna, come quello che più numeroso era e più forte, dato mano all’armi, fece sgombrare, di là il suo avversario, e rimase solo sopra la spiaggia, attendendo l’effetto della sua promessa. Nè molto andò che si vide ad apparire una navicella sospinta dal mare di sotto, e di sopra dai due ricordati sergenti, da cui, quando fu essa approdata, ne uscì una donna che non istava mai salda sopra i suoi piedi, e avea seco in compagnia una gran brigata di genti, fra le quali non era persona a cui si potesse dire che fosse sana. Imperciocchè qual si vedea essere guercio, qual zoppicava da un piede, o tal altro da tuttaddue; nè alcuno vi era che non avesse magagna. E contuttociò vedeva gli abitatori della città non solamente a fare un’amorevole accoglienza alla sopravvenuta Deità, ma essere tutti intorno ai seguaci di lei, ed esaltargli fino alle stelle per la loro bella e garbata facitura del corpo; e quello che mi parea più maraviglia, si era che coloro si tenessero quelle esaltazioni per vere; e piuttosto mostravano fastidio dell’essere poco lodati, che delle solenni bugìe che venivano dette loro da que’popolani. Non minor maraviglia mi arrecava a vedere che Fortuna, accostandosi or all’uno ed or all’altro degli abitatori di quel luogo, l’abbracciava e baciava; e fino a tanto ch’egli era cortesemente tenuto al petto da lei, vedevasi a crescere per modo che quasi toccava le nuvole col capo; ma quando ella si segregava da lui per abbracciare un altro, il secondo diveniva gigante, e il primo non solo ritornava alla sua grandezza naturale di prima, ma sì sparuto diventava, che non crederei che più picciolo e più tisicuzzo nano fosse stato veduto giammai. E peggio gli avveniva ancora, perchè quando Fortuna lo avea una volta abbandonato, non potea più patir di vederlo, e parea che non si ricordasse di lui, come se non fosse più stato al mondo. Un’altra cosa notai nelle femmine, che quando l’erano ben volute da lei, non solo si vedeano innalzare e farsi meglio composte di corpo, ma acquistavano una carnagione che parea di latte e di rose, due occhi che scintillavano loro nella fronte, ed erano una bellezza in carne. Ma quando essa volgeva loro le spalle, la pelle si aggrinzava loro addosso, gli occhi diventavano senza vigore, le occhiaie livide, e ognuno fuggiva da loro come dal fuoco. Quantunque tutti questi mirabili effetti si vedessero quivi al primo apparire di Fortuna, tutte quelle genti le furono intorno, e la pregavano della sua grazia, sperando sempre ciascuno di dover esser da lei favorito. Intorno a lei la sua schiera di azzoppati e magagnati faceva intanto una danza; ed ella si rideva del fatto loro, che si credessero di danzare misuratamente; e vedeasi benissimo ch’era tutta lieta dell’avergli fatti impazzire, e dato loro ad intendere ch’erano garbatissimi ballerini ed incantesimi di quell’arte. Quanto è a me, so dire che risi assai; e se non fosse che dormii molte ore, e che il sogno riuscì lunghissimo, anderei ancora più oltre narrando nel presente foglio. Ma serberò la medesima materia ad un altro, nel quale racconterò le scene principali, e quello che avvenne, quando ai disordini e alle pazzie cagionate da Fortuna volle riparare Prudenza. All’Osservatore. Ci sono alcuni i quali desiderano da voi che in questi fogli venga pubblicato uno, se non più, di que’Sermoni in versi sciolti, che venivano già composti da alcuni de’vostri amici ad imitazione d’Orazio. Mi sono obbligato a diversi miei amici colla parola che mi compiacerete, e pregovi che non mi lasciate mancare. Addio. Rispondo. Che ad ogni modo farò la volontà vostra, poichè non mi stringete a tempo. E vi saluto di cuore. All’Osservatore. È lungo tempo che non veggo un sogno ne’vostri fogli e l’avrei caro. State sano. Rispondo. Non c’è bisogno ch’io vi dica, di più. Questo foglio e l’altro vi serviranno di risposta. Signor Osservatore. Mi vien detto che siete solito ad avere i costumi convenienti alla vostra nascita; ma perchè dunque sarò io così sfortunato di non aver veduto due righe vostre intorno ad una mia richiesta scrittavi nel foglio se non m’inganno? Bisognava non istamparla come avete fatto, se non avevate intenzione di favorirmi. Sto a vedere che a questa volta non istamperete questa mia nuova istanza, perchè io vegga chiaro che non vi sentite disposto a’rispondermi. La quistione per altro parevami degna di voi. Staremo a vedere. Vi ricordo che io sono alquanto molesto di mia natura; e se non vi sbrigherete di me o con le buone o con le cattive, chi sa quanta noia sarò per darvi. Per questa volta ancora vi chieggo scusa dell’ardir mio; non vi rincresca che siamo amici e ch’io continui ad essere, qual mi dichiaro, pieno di stima, vostro buon amico N. N.